Agave

Paralisi interiore. Così si sentiva mentre se ne stava chiusa nelle sue stanze, le più remote all’interno del palazzo. Era in gabbia. Non solo. Il suo cuore era rinchiuso in una prigione che gli impediva di battere più forte. Una barriera pesante, scura, che occultava le sue passioni e i suoi sentimenti.

Era un ramo spezzato, secco, piegato a terra prima ancora di aver avuto la possibilità di sbocciare.

Era un giorno grigio d’inverno, in cui il cielo era nascosto da una trapunta di nubi.

Era un feto atrofizzato, bloccato dalla paura di mostrare veramente chi fosse, di ballare nuda e libera, dimentica delle ferite e delle preoccupazioni.

Finché un giorno non decise di abbattere quel muro. E corse. Corse fuori dalle sue stanze. Corse fuori dal palazzo, dalla città. Superò i campi, il fiume, rifuggì le case, e si rifugiò nel bosco alla ricerca di quel raggio abbagliante che avrebbe squarciato le nuvole.

E iniziò una danza sfrenata, infernale, senza mai fermarsi se non quando le ginocchia cedettero e i mille colori che le vorticavano attorno non assunsero i toni della morte.

Nelle narici l’odore dell’erba fresca le dava forza vitale. Sognò di volare vicino al sole con la pelle che ardeva, e di precipitare tra l’indifferenza della gente in acque sconosciute. Si immaginava mentre nuotava tra creature meravigliose e terrificanti per poi emergere più viva che mai. Si vide nei panni di una cacciatrice che con una forza inaudita abbatteva un leone. Le sembra quasi di sentirne il calore del sangue che le colava dalle mani.

Che la prigione sia abbattuta. Per sempre. A qualsiasi prezzo.

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