Tensione

Ci siamo spinti oltre il limite, questa barriera non ci fa paura. Alla fin fine i confini non sono che semplici segni nella mente degli uomini, nella realtà c’è sempre qualche pertugio per passare da un versante all’altro.

Ci siamo allungati, stiracchiati, abbiamo steso le dita e cercato di rendere ancora più lunghi i nostri arti. In un primo momento non sapevamo nemmeno che ci saremmo incontrati. È stata la curiosità a spingerci a cercare. Ci siamo messi in viaggio in direzioni opposte, io verso di te, tu verso di me, finché la nostra figura non è comparsa all’orizzonte di entrambi.

Una curiosità generica è diventata una curiosità specifica. Sentivo che un’anima affine mi stava accanto, sapevo che, se ti avessi sfiorato, sarebbe scoppiata quella bolla di solitudine in cui mi sentivo invischiato. Sarebbe stato un vagare senza senso se non ti avessi trovato sulla mia strada.

Forse non potremmo mai camminare insieme, siamo troppo ancorati a questa terra. Ed è meglio così, fidati. Questo sfiorarsi, questa tensione ci rende vivi, alimenta il desiderio di ciò che potrebbe essere perso a ogni momento.

Può una tensione essere positiva? Certo, questo legamene che non si salderà mai, riuscirà a superare la fissità delle radici.

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Ritagli di tempo

Quando si parla del tempo, si immagina spesso un flusso ininterrotto che scorre, ora veloce, ora lento, ma sempre inesorabile.

Talvolta ho la sensazione, però, che sia più simile a una lettera minatoria, composta da tante lettere ritagliate in malo modo. C’è anche un modo di dire: ritagliarsi del tempo per una qualche attività.

E quindi mi ritrovo a essere una sarta, con delle scarse qualità nel cucito. Una sarta che dorme troppo poco e che cerca di rendere almeno piacevole un vestito tagliuzzato e rappezzato.

Nella speranza che ne valga la pena.

Correre

A volte basta camminare, altre è necessario correre, più veloci del vento. O forse basta correre più veloci degli altri.

La vita di Ben poteva essere considerata una grande fuga. Da che cosa fuggisse, non era dato sapersi. Neppure Ben sapeva quali fossero i suoi inseguitori. Si limitava a correre, a scappare perché non voleva essere catturato. Era semplice anticipare la fuga senza un reale pericolo, mettersi in salvo prima che arrivi la mareggiata.

Ben correva perché aveva paura di non farcela, di vedere crollare la terra sotto i piedi. E non fremeva nel voler sapere che cosa si celasse sotto quella crosta di fango. Temeva di non farcela, di essere calpestato da chi gli stava alle spalle.

Qualcuno si sarebbe fermato per tendergli una mano? Probabilmente no. E lui? Si sarebbe fermato per aiutare? Era una domanda cui non voleva trovare la risposta.

Ma prima o dopo, tutti incontrano un uomo a terra. E allora bisogna scegliere se rallentare o se continuare la corsa.

Multiforme – Pt. 8

“Annette”.

“Dimmi Uly”. Odiavo che mi chiamasse così, ma come ho già spiegato, Annette era tanto fondamentale quanto la nave per il nostro Odisseo. Senza sarei stato solo un legno alla deriva. Mi servivano informazioni, e anche velocemente.

“Che cosa sai di quel macellaio arricchito, quello zotico grande e grosso che se ne va in giro urlando?”

Annette appoggiò la testa sul mio petto, tanto che percepì il dolce sapere dei suoi capelli. A parte il nomignolo che mi aveva imposto, Annette assomigliava molto a Mary, anche nella sua fine.

“Paul, vuoi dire” esclamò con una punta di divertimento nella voce. Mi alzai un poco per guardarla negli occhi.

“Tu non conosci il nome di nessuno, ma di quel grassone sai persino il nome di battesimo?”. Si sa, alle donne piace quel pizzico di gelosia, le fa sentire desiderate e indispensabili. E in un certo senso Annette era indispensabile.

“Dà buone mance, ma non soddisfacenti come le tue. È molto disordinato, pulire al sua stanza è un incubo. Sparpaglia giornali ovunque. In effetti sembra che legga molto, ma non saprei dirti cosa. Sembrano grossi libri, pieni di scritte. Leggere mi ha sempre fatto male la testa”.

“Ma almeno i titoli, te li ricordi?”

“Forse stasera potrei dirtene qualcuno”.

“Sei un angelo”. Una frase che avevo già detto, ma allora non ci feci troppo caso.

Multiforme – Pt 7

Sia chiaro, io non credo al destino. Se davvero esistesse una cosa del genere, pensate che potrei raccontarvi queste mie avventure? Di certo dovrei starmene in qualche cella umida a scontare il debito con la società. Un debito molto alto, secondo molti.

Ma a quel pranzo ebbi l’impressione che tra i commensali ci fosse anche la Beffa. Tra tutti gli avventori della nave, mi trovai a sedere spalla a spalla con il fratello del commissario McMiller.

Voi non lo conoscete. Probabilmente il vostro destino condannerebbe anche Hugh a marcire, se non in carcere, in qualche ufficio. Naso e mente fine, Hugh McMiller, qualità non apprezzate dalla maggior parte di chi ottiene posti di potere. E si dà il caso che il commissario sia stato anche il mio nemico più infido. Dicono che per capire la mente di un criminale sia necessario essere criminali allo stesso modo, e penso che Hugh rispecchi alla perfezione questa diceria. Di certo non assomigliava al suo corpulento fratello. Il commissario aveva un aspetto dinoccolato, secco con un colorito ceruleo, tendente al verdastro, regalo probabilmente dell’insalubre aria di Londra, ravvivato, però, da dei profondi occhi. Ebbi la sfortuna di condividere la stessa stanza solo una volta ed ebbi la certezza che lui sapeva. Sapeva tutte le malefatte che avevo fatto e che avrei compiuto. Mi sentì presi in trappola come una volpe, e come una volpe mi strappai a morsi un arto per poter fuggire. Quell’arto aveva un nome, Mary, e non venni mai a sapere che fine fece. Gliela diedi in pasto e poi cercai un modo per mettere un oceano tra me e quell’individuo.

Paul era fatto di tutt’altra pasta: assomigliava più alle sue vittime, i maiali, che agli altri umani, forse per la corporatura o per il colorito roseo. Di certo era vestito con gusto ed eleganza, elementi che il commissario sembrava disdegnare, e la sua risata rimbombava in tutta la sala, facendo girare alcuni commensali infastiditi da una tale zoticaggine. Ecco, Paul era un rozzo, arricchito, spiritoso uomo. Con il fratello condiva solo gli occhi, profondi e scuri come gli abissi marini.

“Tutto bene conte Mortimer?”

“Certo, solo un momento di stanchezza. Ma mi chiami Ulysses, Paul. Mi raccontava di suo fratello, giusto?”.

E quegli occhi mi stavano scrutando.

Come in una piramide

Ci sono argomenti che, in qualche periodo della vita, tornano a fare capolino. Per anni non si sono fatti vedere, e ora, nel giro di pochi mesi, bussano con insistenza per essere presi in considerazione.

In questi mesi è la piramide di Maslow. L’idea che ne è alla base, è piuttosto semplice: l’uomo ha dei bisogni, che possono essere rappresentati come una piramide. Alla base si trovano i bisogni primari, legati alla mera sopravvivenza, come l’alimentazione, la sicurezza lavorativa e personale, la salute, cui seguono i bisogni sociali, che portano alla creazione di amicizie, famiglia e alla ricerca di una stima, e solo alla fine si raggiunge l’autoreallizzazione, in cui sono inclusi aspetti come la creatività, l’accettazione o la moralità. Se manca uno di questi scalini, non è possibile proseguire con quello successivo: per semplificare, se ci sono problemi a portare a casa la pagnotta, è difficile che si compiano voli pindarici nel mondo della creatività.

Ho sempre pensato che questa piramide proponga una visione molto ristretta dell’essere umano. Quando mai l’uomo procede a scalini, consolida un livello per passare all’altro? Ve lo dico io: per fortuna, quasi mai. Pensate a Leopardi: certo, non aveva problemi economici, ma la sua salute e la sfera affettiva facevano acqua da ogni parte, eppure è riuscito a regalarci opere lettararie di rara bellezza e profondità. E molti altri artisti: Pascoli era un alcolista, Van Gogh soffriva di disturbi mentali e versava in stato di indigenza, Pollock non può essere preso come esempio di equilibrio e sobrietà, Beethoven era sordo.

Perché, dunque, no potremmo fare questi benedetti voli pindarici? Perché sono una fuga dalla realtà, mi è stato risposto. E quindi? Non posso fuggire dalla realtà? Tanto, ci pensa la realtà stessa a riportarci prima o poi con i piedi a terra. Non tolgo niente a nessuno, nemmeno a me, se faccio una piccola fuga in avanti. E anche se magari qualche scalino della piramide è scheggiato o instabile, lasciatemi almeno la possibilità di puntare all’autorealizzazione, con buona pace di Maslow. Dopo tutto essitono palazzi dalla forma di piramide rovesciata.

E se poi crolla tutto, me ne assuemrò la responsabilità.

Imprigionati in un rettangolo

Ho alzato e girato la sguardo, ma non ho incontrato altri sguardi, solo colli piegati verso il basso per guardare uno schermo luminescente.

Accanto alla critica legata ai passatempi troppo solitari, è stata posta la necessità di fare amicizie. Lo so, non sono il genere di persona che lega facilmente con gli altri, fin da piccola. Basti pensare che la maestra d’asilo fece notare ai miei genitori che avevo delle amicizie selettive. All’epoca non era una pecca insanabile di un carattere troppo introverso, era semplicemente un dato di fatto. Le cose non sono cambiate più di tanto con il tempo: continuo ad avere le mie amicizie, ma molto selettive. Non sono espansiva, non voglio piacere al mondo intero, non mi interessa avere la rubrica piena di nomi dei quali a stento mi ricordo la faccia.

Ora, però, la difficoltà di fare conoscenze è resa ancora più ostica da questa nuova gabbia, questo rettangolo che lega mente e occhi e che irritisce i sensi più di una maledizione. Strano come uno strumento così forte, che in effetti ha moltiplato le nostre possibilità e che ci permette di più libertà e informazioni, possa tramutarsi in un ostacolo. I ragazzi non parlano, i ragazzi guardano.

Quando sono entrata per la prima volta all’università, la realtà era diversa: quasi nessuno aveva uno smartphone, avevamo i cari, indistruttibili cellulari, che potevano essere lanciati nella borsa senza paura che subissero qualche danno. Per quanto mi riguarda, la conversione alla versione più tecnologica è avvenuto al quarto anno di università e non nego che le comodità che offre siano nettamente maggiori di quelle del macinino cui ero tanto affezionata.

In aula non ho mai assistito a scene come quelle che mi circondano quotidianamente. Che cosa trovi in quel cellulare o in quel tablet? Che cosa ti rapisce? Non lo so: quando ho del tempo libero leggo un libro, lo trovo più rilassante perché imprimo io il ritmo da dare, non subisco il martellare dei video di pochi secondi.

Abbiamo perso un pezzo di libertà? A vedere quegli sguardi fissi, penso proprio che sia così.

E quando meno te lo aspetti

Eh, niente, il gatto morto.

Che gatto?

Non lo so, so solo che il gatto è morto. Un gatto qualsiasi, di un padrone qualsiasi, di una qualsiasi parte del mondo. Il gatto è morto.

Sicura di stare bene?

Io, certo, il gatto morto un po’ meno, o forse sta bene pure lui. Il fatto è che da qualche parte un gatto è morto. Forse nell’indifferenza di tutti. Ha fatto la sua vita, ha miagolato, ha lottato, si è lustrato il pelo e ha corteggiato gattine. E poi basta, si è lasciato cadere in un angolo lontano da occhi indiscreti, e solo, senza rimpianti e senza nemmeno troppo pensarci, il gatto è morto. Inutile piangerci sopra, inutile inalberare quella faccia sconsolata. La verità è questa.

La mia faccia sconsolata è per la tua salute mentale.

Ormai quel che è fatto è fatto. Non si può riportare in vita il gatto. Non si può riavolgere il tempo. Ormai che il gatto è morto, non si può fare niente. In realtà, non si è potuto mai fare niente. Non è vero?

Messa così, certo, hai ragione.

E allora ammettiamolo: ormai che è andata così, non stiamo a pensarci troppo.

Regola fondamentale

Prima, e temo unica, regola fondamentale della vita: se una cosa può andare male, stai certa che andrà male. E se pensi che di averla scampata, è solo un’illusione, magari in ritardo, ma la batosta arriva.

Sul più bello che pensi che tutto stia andando come dovrebbe, ecco la spina che ti pungola il fianco. Nulla di tragico o di irreparabile. Ma abbastanza salato da lasciare un sapore sgradevole in bocca per giorni.

Perché se una regola è fondamentale, è certo che si verificherà.

Corollario: se qualcosa va storto, non è possibile raddrizzarlo, e anche quando fa parte del pasasto, questo qualcosa riesce sempre ad assestare una qualche potente e dolorosa sferzata.

Multiforme – Pt. 6

“Duchessa, ma che piacere incontrarla nuovamente”.

“Conte, potrei dire lo stesso, ma ho passato troppo poco tempo con la sua persona per poterlo affermare con sicurezza”.

“Mi lasci rimediare. Mi è sembrato di capire che non abbia un accompagnatore. Mi farebbe l’onore di pranzare con me? Sa, anch’io viaggio da solo e non conosco nessuno”.

“Certo, caro, ma non mangeremo da soli, sarebbe sconveniente, non crede? Potrei pensare che punti a qualche cosa d’altro della mia compagnia”.

“In effetti ha colto nel segno: aspiro ad altro, come essere introdotto in questa bella società galleggiante. Sono passati due giorni, e ancora non ho conosciuto nessuno”.

“Allora è fortunato, come le dicevo pranzeremo con qualcuno. Cameriere! Può aggiungere un posto al mio tavolo?”

Mi ritrovai seduto su un vasto tavolo rotondo, stretto fra la duchessa e un voluminoso e rumoroso commensale.

“La metto vicino al signor Paul. Paul, il conte Mortimer”.

Con un sorriso tutto bricioli e tendendomi una mano unticcia mi salutò “E ha un nome questo conte?”

“Ulysses. Anch’io mal tollero i titoli”.

“Beati voi che li potete vantare, i titoli. Io no, non sono giovane, ma mi sono fatto strada nel mondo grazie alla mia impresa. Non come mio fratello: quello al massimo può viaggiare in seconda classe, ben che vada”.

“Di che cosa si occupa, Paul?”.

“Alimentare. Ho un mattatoio. Non avete di idea di quanti mangi questa popolazione. Non vedo l’ora di vedere se si possono fare affari simili oltreoceano”.

“Molto interessante. Suo fratello invece?”

“Che vuole, ogni famiglia ha la sua pecora nero. Mio fratello è un commissario della polizia. Un lavoro che non ripaga e che non ha orari”.

“Commissario?”

“Certo, qualcosa non va? In effetti sì, i McMiller sono sempre stati degli imprenditori, non certo dei cani da caccia al guinzaglio di qualche passacarte”.

Il commissario McMiller.