Multiforme – Pt. 9

Annette se ne era andata da un po’ quando sentii un fruscio quasi impercettibile provenire dalla porta. Molti di voi non lo avrebbero neppure percepito, non siete abituati a scappare e prestare attenzione a ogni minima variazione per capire se sia arrivato il momento di cambiare aria.

Per mia fortuna non era un pericolo, ma solo un bigliettino che era stato fatto scivolare sotto la porta. Aspettai che la persona si allontanasse dalla porta, poi lo presi. Era una piccola busta, con dei leziosi ricami attorno ai bordi, che poi venivano ripresi dal cartoncino all’interno. Troppo fine per provenire dalla mia amica duchessa, troppo femminile per appartenere a Paul. Di certo dovevo aver fatto colpo su una qualche signorina che era presente al tavolo. Non per vantarmi, ma a parte qualche cicatrice, sono sempre stato considerato un uomo piacente.

Incontriamoci questa sera al bar Magnifique.

Il biglietto era firmato Angela Carrier. Peccato non poter chiedere ad Annette chi fosse questa misteriosa donna. Non ho mai capito perché nei circoli esclusivi vengano presentati solo gli uomini, mentre le donne si limitano a rimanere in disparte, a fare le proprie considerazioni, senza essere coinvolte nella danza degli affari.

Eppure sono proprio loro che di solito costruiscono una rete di relazioni e di ricatti. L’importante è non caderci, e temevo che Angela volesse aggiungermi alla sua collezioni di insetti imbalsamati.

Pubblicità

Multiforme – Pt. 8

“Annette”.

“Dimmi Uly”. Odiavo che mi chiamasse così, ma come ho già spiegato, Annette era tanto fondamentale quanto la nave per il nostro Odisseo. Senza sarei stato solo un legno alla deriva. Mi servivano informazioni, e anche velocemente.

“Che cosa sai di quel macellaio arricchito, quello zotico grande e grosso che se ne va in giro urlando?”

Annette appoggiò la testa sul mio petto, tanto che percepì il dolce sapere dei suoi capelli. A parte il nomignolo che mi aveva imposto, Annette assomigliava molto a Mary, anche nella sua fine.

“Paul, vuoi dire” esclamò con una punta di divertimento nella voce. Mi alzai un poco per guardarla negli occhi.

“Tu non conosci il nome di nessuno, ma di quel grassone sai persino il nome di battesimo?”. Si sa, alle donne piace quel pizzico di gelosia, le fa sentire desiderate e indispensabili. E in un certo senso Annette era indispensabile.

“Dà buone mance, ma non soddisfacenti come le tue. È molto disordinato, pulire al sua stanza è un incubo. Sparpaglia giornali ovunque. In effetti sembra che legga molto, ma non saprei dirti cosa. Sembrano grossi libri, pieni di scritte. Leggere mi ha sempre fatto male la testa”.

“Ma almeno i titoli, te li ricordi?”

“Forse stasera potrei dirtene qualcuno”.

“Sei un angelo”. Una frase che avevo già detto, ma allora non ci feci troppo caso.

Entrare da una porta chiusa

In questi anni c’è la tendenza a pensare che tutti abbiano il diritto di conoscere anche gli aspetti più privati degli interlocutori. Non parlo solo dei social, sui quali si riversano informazioni personali, ma anche ambienti in cui la sfera privata dovrebbe rimanere tale.

La domanda più frequente nei colloqui di lavoro e anche nei moduli per tirocini è “Quali sono i tuo hobby?”

A questo punto si aprono due strade: una è quella di dichiarare i propri interessi, la seconda è individuare delle attivtà che possano essere affini alle aspettative del richiedente. L’ultima volta ho provato la prima opzione e mi è stato fatto notare che erano attività in solitaria.

Non nego di essere una persona a cui piace stare da sola. Non sono del tutto avvulsa dalla società, non abito in un eremo e ho i miei amici, pochi, certo, ma qualcuno è presente. Sono anche abituata a lavorare in gruppo e non ho mai avuto problemi a collaborare. Allora perché devo essere giudicata per come trascorro le mie ore libere? Perché devo difendere i miei interessi.

Facciamo parte di una grande società, ma siamo anche individui, e come tali abbiamo il diritto di lasciare alcune porte chiuse. Quello che faccio al di fuori del lavoro non dovrebbe interessare nessuno. Non tutti possono dedicarsi a sport di gruppo o far parte di gruppi di escursionisti.

Eppure il tentatico di sfondare qualsiasi porta chiusa con l’intento di capire capire chi tu sia e come poter sfruttare ogni tuo aspetto è sempre più invadente. La prossima volta risponderò dicendo che adoro le orgie: è pur sempre un’attività di gruppo potrebbe essere più apprezzata della semplice lettura.

Curiosità

Non c’è nulla di più pericoloso e istruttivo della curiosità. Ormai è conoscenza comune: senza la curiosità non si impara. E con imparare non si intende l’apprendimento mnemonico e meccanico, che comunque può avere una sua utilità, ma la capacità di accogliere e cercare di capire, di accettare le mille sfaccettature della cultura umana.

Qualche giorno fa, una persona che tollero molto poco e solo a piccolissime dosi, se ne è uscita con un elenco di posti che non avrebbe mai visitato perché non li considerava abbastanza degni dal punto di vista politico o culturale o di costume. Questa lista comprendeva buona parte del mondo, madrepatria inclusa, con l’eccezione di qualche virtuoso paese considerato civile.

Non mi soffermo sul senso di superiorità che questo individuo sfoggiava, sarebbe fin troppo scontato. Quello che più mi ha turbato è stata la mancanza di curiosità, nonostante il mio interlocutore si consideri molto intelligente, e certamente più intelligente di me.

Ma c’è intelligenza nei pregiudizi? O nel ritenersi una torre di virtù in un deserto di ignoranti?

In quelle parole sono morti non solo il rispetto per gli altri, ma anche la capacità di vedere perle di bellezza in ogni angolo di questo mondo, anche quando queste gemme vengono offuscate dalle bassezze della vita di ogni giorno.

O forse è solo la paura che ha parlato. Perché la curiosità può essere perniciosa: curiosity killed the cat. Può mettere in pericolo le nostre convinzioni e destabilizzare le certezze di una vita. Ma alla fine la vita sarebbe ben noiosa se, di tanto in tanto, non dovessimo apportare delle modifiche all’edificio che non tanta pazienza stiamo innalzando. Per quanto mi riguarda, non voglio che abbia l’aspetto di una caserma cubiforme, ma di un castello dai mille pinnacoli.

Vertigini

Le grandi altezze hanno sempre il loro fascino terrorizzante, tanto che questo ammaliante fascino ha un suo nome, vertigini.

Non ho mai amato le altezze, ho persino il terrore di salire le scale a pioli o quei ritrovati architettonici che prevedono la scomparsa dell’alza di un gradino. Eppure, tra le cose da fare prima che qualche malanno o qualche sfortuna me lo impediscono, la maggior parte coinvolge le vertigini, probabilmente perché la paura spesso nasconde un desiderio più grande.

Il desiderio di vedere da un’altra prospettiva un mondo che sembra troppo piccolo e che si racchiude sui suoi occupanti come uno scrigno geloso. O forse il desiderio di sentire il vuoto. Perché le vertigini alla fine sono questo, sono il vuoto che chiama, sono il corpo che si sente allo stesso tempo pesante come un macigno e leggero come una piuma. E queste sensazioni inebriano la mente, la spaventano e la paralizzano, con un miscuglio di sentimenti che zittiscono il semplice e selvaggio istinto alla sopravvivenza.

Forse, il selvaggio istinto alla curiosità e al pericolo può sconfiggere anche le inibizioni più consolidate.

Campi Elisi – Pt.3

Chi avrebbe mai detto che i miei eroi algidi, con qualche capriccio, certo, ma pur sempre più vicini agli dei di qualnto lo siano gli uomini di oggi, si sarebbero rimpiccioliti fino a questo punto. Il mio Ettore pronto a morire per la sua città, il mio Achille, guerriero fiero e indomito sembrano due semplici avventori di una qualche locanda anonima.

“E il tuo grande eroe è stato abbattutto da una semplice freccia di un soldato che ha sempre preferito il talamo alla guerra. A questo porta l’amore degli dei” intervenne una voce triste, ma con una venatura di ironia.

“Ulisse!”. “Odisseo”, corresse quello.

Eppure è come Ulisse che è conosciuto dai più. Lo so bene, non prova simpatia per me, e neppure per Achille ed Ettore, ai quali non presta attenzione. Non mi è mai giunto alcun tentativo di risposta a quei due, come se appartenessero a epoche diverse. Troppo intelligente per pensare di battersi con due guerrieri di vecchio stampo, troppo sconsolato per ribattere verbalmente, se ne sta tutto il tempo in riva a un lago a sospirare. Colpa mia, probabilmete: la furbizia e l’intelligenza possono portare a riflessioni scomode, ma ormai il danno è fatto, non si può più tornare indietro. Odisseo, nel mio cuore lo chiamerò sempre in questo modo, si è ormai trasformato in un personaggio tormentato dalla curiosità e dalla voglia del viaggio.

“Eppure l’unica cosa che volevo era tornare a casa. Vent’anni erano passati quando rimisi piedi sulla mia Itaca. Sai cosa significano vent’anni? Tornarci per morire, ecco cosa significa. E invece no, mi avete condannato a compiere il mio ultimo viaggio verso le colonne di Eracle, tu e gli altri della tua stirpe. Come se mi importasse qualcosa di queste colonne”.

“Quindi non sei contento del destino che ti ho riservato. Lo scaltro eroe che non si ferma alla vile forza?” fece notare il poeta cieco.

“Insomma. Senti quei due: confabulano e desiderano una battaglia.”

“In realtà Achille desidera la lira”

“Strane velleità che nascono dopo aver visto in volto la morte. Quando era in vita era solo un ragazzino permaloso che ha rischiato di farci perdere al guerra. Il suo capriccio è costato la vita a molti uomini, non solo a Patroclo”.

“Chi avresti voluto essere?”

“Forse un uomo come gli altri, non un re, non un viaggiatore. Una persona a cui non si metta il figlio sul solco dell’aratro per provare la sua sanità mentale”.

“Non saresti stato nessuno, saresti svanito tra le pesanti pieghe di una storia che non ha fantasia”.

“Nessuno sono stato per alcuni. Se fossi stato davvero così curioso avrei accettato il dono della immortalità, ma per farne cosa?”

“Voi eroi siete strani”.

“Vai un po’ più in là, dove non ci sono più eroi. Magari trovi qualcuno che ti assomiglia”.

Cascate

Al limite estremo della terra si apriva una voragine enorme, una cascata di immense dimensioni che precipitava nell’abisso dell’ignoto, in una bocca nera in cui si perdeva persino il suono dell’acqua. Era rappresentata così la fine del mondo nel libro che il ragazzo teneva in mani e dalle parole del suo maestro, che cercava di educare quelle giovani menti insegnando loro almeno i rudimenti della geografia.

Né il giovane né l’insegnate erano del tutto convinti di quella teoria, di quell’immensa massa di acqua che si perdeva nel nulla. C’era qualcosa che scivolava nella magia, e, si sa, magia e geografia non hanno molte cose in comune. Per ora, però, nessuno aveva fornito una lettura diversa, almeno per quanto ne sapeva un ragazzino figlio di mercanti e un maestro di campagna.

Spesso i due si immaginavano lì, in bilico tra il mondo conosciuto e quello ignoto, tra la vita certa e l’oscurità che difficilmente avrebbe lasciato integri i loro corpi. Il maestro sognava di gettarsi, per vedere quell’immensa distesa che doveva accogliere le acque della terra sconosciuta, e magari approdare in isole che non conoscevano ancora il piede degli uomini. Il ragazzo, invece, era incerto se fare un salto da cui non si sarebbe salvato o sporgersi sul bordo per captare più misteri possibili, per poi tornare alla vita conosciuta.

Un giorno il maestro scomparve. Voleva vedere le cascate della fine del mondo. Il ragazzo divenne un mercante, come il padre, ma nei suoi viaggi non vide mai né le cascate né il suo maestro. Entrambi sembravano essere stati ingurgitati dai gorghi della realtà.

I Vecchi Compari – Pt. 5 L’allenamento

Il Gran Torneo di Bocce e Bocciatori era un evento straordinario: avete presente le Olimpiadi? Ecco, qualche cosa di simile, ma ancora più importante. Richiedeva anni di strenuo allenamento, passione sconfinata e abilità impareggiabile. I Vecchi Compari non avevano mai avuto il coraggio di parteciparvi, poiché incontrarsi tre volte alla settimana era del tutto insufficiente per poter anche solo sperare di essere presi in considerazione. Ma ora era tutta un’altra storia: da pensionati avevano tutto il tempo che volevano. L’unico a creare un po’ di problemi era Antonio, ma nessuno lo aveva mai preso in considerazione, se non le banche quando gli avevano pignorato ogni suo avere. Era arrivato il tempo della vittoria, e la dipartita di Luigino, per quanto dolorosa, non avrebbe interrotto questa gloriosa ascesa all’empireo della bocciofila.

Che l’allenamento avesse inizio, dunque!

Luca portò gli incontri settimanali da tre, numero che evidentemente era del tutto insufficiente, nonché iettatore, a sei, una più promettente cifra pari. Nessuno si lamentò: Pietro aveva già ridotto al minimo la sua attività di fabbro e si sentiva solo senza sua moglie, Silvano non tollerava più Rachele con le sue litanie riservate a pezzi di cadaveri, e Luca riteneva che ad Anna facesse bene avere i suoi spazi. Nessuno si chiese che cosa pensasse Antonio, ma quest’ultimo, in ogni caso, non proferì lamentela. Ogni sessione durava quattro ore, con una corroborante pausa di mezz’ora dopo le due ore iniziali.

Innanzitutto si procedeva al molleggiamento delle ginocchia, il che causò un bel po’ di scricchiolii e proteste da parte delle giunture provate dagli anni.

“Ragazzi, se volete ho un po’ di olio in officina” tuonò Pietro. C’è da dire che Pietro non emetteva un singolo cigolio, ma il suo trucco non era certo l’olio: alcuni anni prima era stato operato e ora poteva vantare due fantastiche ginocchia bioniche, indistruttibili. Luca valutò se non fosse il caso di sottoporre tutta la squadra alla medesima operazioni.

“Tre mesi di riposo, e sentite che silenzio proviene dalle mie ginocchia” gongolò Pietro. Tre mesi erano troppi. Niente operazione, concluse Luca a malincuore: magari le ginocchia nuove lo avrebbero reso più gradito ad Anna.

“Luca, smettiamola con questa buffonata, passiamo all’azione”.

Quel vecchio scarpone di Silvano voleva sempre passare all’azione: probabilmente le letture classiche su eroi e battaglie gli avevano offuscato un po’ la mente. Il dubbio che Silvano fosse un po’ strano era sorto anche a Luca, il giorno prima, quando l’amico si era auto-invitato per un caffè perché non aveva voglia di tornare nel reliquiario che era diventata la sua casa. Cosa strana, visto che, essendo un antiquario, avrebbe dovuto essere avvezzo agli oggetti antichi.

“S-s-scusate il r-r-ritardo, ora r-r-recupero. U-u-una follia il t-t-traffico!”.

Nessuno in realtà si era accorto della mancanza di Antonio, forse perché se ne stava sempre zitto, con lo sguardo fisso sulle poderose spalle di Pietro.

Ci pesò Silvano e rassicurarlo: “Non ti sei perso niente Anto, ora comincia l’azione”.

Si sfidarono due contro due: Pietro e Silvano, contro Luca e Antonio. Pietro si rivelò essere un giocatore leggermente migliore di Antonio, che sembrava un po’ distratto e incapace di allontanare le bocce avversarie dal pallino. Luca era un abile calcolatore, e valutando angoli e forza era un temibile avversario per Silvano e Pietro che, invece, si affidavano più all’intuito.

“Girano strane voci su tua moglie, eh Pierre!” Silvano era molto incuriosito dalla vita sentimentale del compare, soprattutto quando questa sembrava più miserabile della sua: era da mesi che la moglie Rachele non gli permetteva neppure di condividere lo stesso letto, per una qualche promessa fatta a un qualche santo. Ma in confronto all’abbandono del tetto coniugale, l’atteggiamento di sua moglie gli sembrava più che dignitoso.

“Andata”. Si limitò a dire Pietro, che odiava essere chiamato in francese, e, ancora di più, odiava ricordare la moglie.

Nausicaa

Uno straniero che viene dal mare.

Molti sono stati i naufraghi gettati dalle onde impietose su queste spiagge. Ma nessuno come lui. Non sembrava un disperato, macilento, ma aveva qualcosa di regale. Gli occhi erano una calamita, profondi come il mare, tristi, enigmatici.

Le fanciulle che mi accompagnavano erano già fuggite. Io no, rimasi, stregata. E gli porsi le vesti. Lo accompagnai a palazzo, da mio padre, tra gli sguardi curiosi dei cittadini. Una principessa accompagnata da uno straniero suscita sempre domande indiscrete.

Anche il re ne fu affascinato. Lo accolse come un suo pari, gli offrì un banchetto, chiamò gli aedi che cominciarono a cantare storie terribili, di eroi che avevano combattuto e che si erano persi, senza più riuscire a riabbracciare i propri figli.

Lo straniero ne era scosso. E cominciò a raccontare. E davanti a me comparvero creature leggendarie, sirene, maghe, tremende creature monocole figlie del dio del mare, compagni avventati.

Davanti a me un mondo sconosciuto. Terre lontane. Bastava solo prendere il mare, passare quei limiti così stretti dell’isola.

Padre, non voglio sposare lo straniero. Padre, io voglio vedere,scoprire, vivere.

Navigare tra le stelle

Raccontano fatti che sembrano essere sogno, visioni di una mente fantasiosa.

Ho sentito di un marinaio stanco del mare. Quella distesa liquida, volubile e instabile, gli era venuta a noia. Avrebbe voluto valicare quell’orizzonte che sfumava nel cielo terso. E i giorni che passava tra le onde divennero sempre più lunghi, malinconici, pesanti. Voleva cambiare, voleva scoprire gli oceani celesti.

Dicono che ci sia del vento nell’universo. E dove c’è vento, pensò il marinaio, si può sempre navigare. Costruì con le sue mani una nave e con pochi intrepidi la mise in mare. Approdò in un’isola strana, abitata da animali singolari, cani, uccelli e maiali dagli occhi umani, e da una donna, magnifica e terribile. Dicevano fosse una dea. Le chiese come fare a valicare il confine del mondo, quel limiti che aveva sempre davanti a sé e che mai avrebbe raggiunto.

Fece esattamente ciò che quella donna gli aveva detto. In una notte senza nubi e senza vento salpò. Sotto la nave il cielo era diventato uno specchio, e rifletteva le costellazioni i pianeti, le stelle lontane. E gli sembrò di volare.

Vide la sfera infuocata del sole, che girava su se stessa. Vide i pianeti che erano attratti come falene da quella massa incandescente. Spiegò le vele, che subito si gonfiarono. E passò tra galassie nebulose, meteoriti impazziti, schivò meteore e comete. Raggiunse la stella più luminosa nel cielo, e scoprì che era solo un enorme masso che vagava nell’universo.

Si spinse oltre, raggiunse pianeti mai visti, desolati alcuni, altri con della vegetazione o con delle creature. Non si fermò, perché voleva procedere, voleva sapere. E così solcò il cielo passando tra le case dello zodiaco, e scoprì l’inconsistenza di quegli animali celesti.

Ascoltò la sinfonia dei pianeti, e il silenzio assoluto, così totale da farlo quasi impazzire. La sua mente non avrebbe mai concepito un’assenza del genere. Vide enormi e fameliche voragini che tutto ingoiavano. Vide piccoli meteoriti che trivellavano grandi globi.

Chiuse gli occhi, li riaprì. E si trovò sulla sua nave. Dal cullare tranquillo si rese conto di essere di nuovo sul mare. All’orizzonte uno spiraglio di luce intimò alle stelle di scappare.

Ammainò le vele e si diresse piano verso l’orizzonte.