Metamorfosi quotidiane

Dafne è diventata un albero, senza emettere un suono, senza nemmeno accorgersi. Le sue gambe che stavano fuggendo da Apollo si sono ancorate alla terra, il suo corpo flessibile è mutato in corteccia ruvida e le dita affusolate si sono allungate in rame. Dafne non esiste più, la sua anima ora scorre come linfa nel tronco in un lauro silente. E ad Apollo non resta che il ricordo di una ninfa disinteressata e di una caccia senza onore.

Gli animi cambiano, c’è chi diventa albero, chi pianta, chi invece roccia o animale. Per lo più non sono cambiamenti momentanei, ma permangono nell’eternità. Una fonte è una madre privata dei suoi figli, un fiore zampilla dal sangue di un giovane ucciso dall’invidia, la voce dei monti non è che un’innamorata che non trova requie.

Per quanto irreversibili, talvolta le metamorfosi avvengono a gradi, compiono piccoli passi verso la stabilità. È come se la forma di partenza versasse in uno stato di irrequieta instabilità e cercasse, mutando, di ritrovare un equilibrio in cui passare il resto della propria esistenza. Piccole mutazioni che portano quella signora a disinteressarsi al mondo di fuori, a rinunciare alla curiosità, per poi trasformarsi in sasso. Mentre quell’altro uomo continua a emettere un suono senza senso, ma insistente e petulante. Ronza, ronza e si muove in traiettorie concentriche, senza mai allontanarsi troppo dal destinatario delle sue attenzione. Ecco che quest’uomo diventa mosca. D’altro canto, non tutti i bruchi riescono a diventare farfalle.

Le metamorfosi delle fiabe sono palesi, urlano a divinità e mortali che nel cambiamento la loro natura è stata preservata, nel mondo reale, le metamorfosi si riducano a piccole gocce, che con costanza riescono a creare un solco anche nelle rocce più resistenti.

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Trasformazioni

Per raggiungere una meta è importante trasformarsi, basta vedere quante storie sono nate dalle metamorfosi. Campione in questo ambito è Zeus: pioggia, cigno, aquila o toro, prenderebbe qualsiasi forma pur di godere di qualche bellezza umana sfuggendo allo sguardo attento di Era. Afrodite prende le sembianze persino di una vecchietta, anche se non riesce a rinunciare al proprio seno. C’è chi viene trasformato in asino, chi in albero, o in cigno, o ancora in monte.

Raggiungere la meta significa perdere un pezzettino di se stesso, e sostituirlo con qualcos’altro di diverso, forse di estraneo. Attraverso il cambiamento si rinuncia alla propria natura e si trova una forma nuova, adatta allo scopo. Non è un processo semplice, e non è detto che porti effettivamente a ciò che si desidera, ma rimanere fermi implica una sconfitta scontata.

Per le storie mitologiche è fin troppo semplice indossare un magnifico paio di ali. Per i semplici mortali, un cambiamento può portare dolori e dubbi.

Calze sul camino – Pt. 2

Con grande sollievo di Furt, il viaggio non durò molto. Le renne si erano abbuffate di dolcetti, quindi mantennero una velocità notevole, fino ad arrivare a Chissadove in quattro comode ore. Incurante del colorito verdastro di Furt, Dwarf saltellò fuori dalla slitta e iniziò a ispezionare con fare critico quel terreno così morbido e verdeggiante, alla ricerca di un angolo d’ombra. Troppa luce non fa bene agli gnomi del nord. Klag era molto più tollerante e cercava di mitigare il suo pallore grazie a quel sole sconosciuto, mentre Candy tentava di capire la direzione da prendere.

Le più contente erano le renne che, approfittando della distrazione di Furt, avevano scoperto e saccheggiato il sacco dei dolci.

“Foresti! Incursori! Ladri! Assassinni! Sicofanti! Via, fuori dal mio giardino! Fuori dalla mia proprietà. Via! Via! Via! Crack!”

Ebbene, a parlare era una voce femminile, piuttosto vecchia, ma non proveniva da un corpo umano, bensì da una cornacchia.

“Signora Cornacchia, non siamo malintenzionati. Le spiego. Ci ha invintati la Vecchia che abita qui, chiedendo il nostro aiuto. Deve sapere che noi siamo quattro compagni. In realtà ho solo un compagno lo gnomo maschio laggiù, gli altri sono folletti di…” iniziò a spiegare Klag.

“Crack. Ma parla sempre così tanto?”

“Snurf” intervenne Dwarf, poi tradotto da Candy: “A volte esagera. Ci sa dire dove possiamo trovare la dimora della Vecchia?”

“Non la troverete, Crack crack. Io sono la Vecchia, e la mia casa è quel nido lassù “.

Furt si avvicinò disperato, con in mano i dolcetti superstiti: “Stiamo scherzando? Quattro ore di viaggio per parlare con un pennuto? Una presa in giro? Lo sapevo che dovevamo continuare il nostro riposo”.

“No, crack, vi stavo aspettando. Questa è una disgrazia. Ero una vecchia io, con due gambe, due braccia tre porri, una gobba, qualche capello, due grandi orecchie, un naso sottile e lungo, millecentosettantaquattro rughe, dita con tanto di artrosi e giunture cigolanti. Ma il Mostro Mangiadolci mi ha trasformato in cornacchia, la mia capanna è diventata un nido e la scopa è stata requisita”.

Dwarf guardò accigliato la Cornacchia-Vecchia: “E che avete fatto a questo Mostro Mangiadolci? Snurf.”

“Crack, crack. Forse ho ecceduto un pochino con il carbone. Ma io devo partire domani, devo portare i dolci a tutti. E il carbone a chi se lo merita.”

“E allora sia” decise Candy senza sentire le opinioni dei suoi amici “andremo a parlare con il Mostro Mangiadolci”.

“Crack crak, ckrazie! Si trova nelle paludi a ovest. Buon lavoro”.

E così dicendo si levò in volo e si rifugiò nel suo nido, lasciando i quattro avventurieri da soli e un po’ perplessi.

Dafne

Scappi dall’amore. Vuoi la libertà e chiedi aiuto al cielo.

Attraversi la foresta correndo. I piedi non calzano sandali, ma nudi affondano nella morbida erba e tra le foglie umide. La veste segue sinuosa i suoi movimenti in fuga.

Dietro un dio voglioso che si avvicina sempre più. Anche lui invoca gli dei, per soddisfare il suo amore.

La giovane chiede aiuto agli alberi, la sua casa, al fiume, la sua famiglia, ai cerbiatti, i suoi amici, alle stelle e ai venti.

Il dio la invoca, la prega, la rimpiange.

Infine la pietà divina volge gli occhi alla ragazza. E la sua pelle muta consistenza. I suoi piedi non si staccano più dal suolo, le mani seguono il ritmo della brezza.

E al dio non resta che abbracciare un tronco nodoso.

Metamorfosi

Trasformati in gabbiano, per volare nel cielo, o sfiorare le onde salmastre per poi tuffarti nell’acqua.

O in aquila, per vedere dall’alto il mondo scorrere veloce sotto di te.

Diventa poi una talpa per sentire l’odore caldo e umido della terra, per vivere cieco nel grembo del suolo.

Sii cavallo, per correre indomito. E leone, per imparare a cacciare, per ruggire di fronte al nemico, per passare dal molle riposo allo scatto fatale.

Diventa cane e impara la fedeltà. Trasformati in mantide perché tu possa realizzare di avere la forza necessaria per vivere senza dipendere da nessuno.

Stringiti nel corpo di una formica per poter vedere le cattedrali brulicanti del sottosuolo.

Affonda le radici in profondità e cerca di toccare il cielo con le braccia. Da albero impara a non temere gli anni che passano.

Vola farfalla, sospinta dal vento, perché tu sappia cosa sia leggerezza e caducità.

Da fiume scorri per assaggiare terre sempre diverse. E da vento combatti contro le alti torri del mondo, corrodendole.

Sii grande, minuscolo, massiccio e lieve. Impara il mondo, l’anima che tutti permea, l’equilibrio di ogni elemento.

Impara ad amare e a rispettare.

Ed infine, puoi diventare uomo.

Tempo di mostri e di storie

È arrivato il momento che vi racconti di un tempo lontano, in cui la fantasia non veniva derisa, in cui il soprannaturale era all’ordine del giorno. In cui gli elfi abitavano i boschi, i nani scavavano cunicoli nel ventre delle montagne, i demoni tentavano gli innocenti e le fenici rinascevano dalle ceneri. Un tempo in cui una semplice svista aveva il potere di trasformare un serpente in mitica creatura.

Ebbene, in questo passato senza tempo, viveva una fabbro. Non era un eroe, era un semplice uomo, come tutti noi. Non era neppure particolarmente conosciuto, ma conduceva una vita tranquilla. Nel suo petto dimorava, però, la voglia di dimostrare al mondo quanto valesse. In ogni cosa mettesse mano, cercava di dare il meglio: i suoi campi erano sempre in ordine, la sua casa curata. Nelle opere che realizzava metteva anima e corpo, sia che dovesse semplicemente ferrare un cavallo sia che dovesse realizzare qualche ornamento per allietare i sognorotti locali.

In effetti chi ricorreva ai suoi servigi, ne rimaneva favorevolmente colpito. Tuttavia la sua vita rimaneva invariata: non c’era donna che lo amasse, non c’era amico che lo ascoltasse, non c’era signore che lo elogiasse. Ogni giorno uguale a se stesso, sempre a faticare, ad affannarsi alla ricerca della perfezione o della svolta. Ma non era mai abbastanza.

Badate, non era un uomo malvagio. Tuttavia la sua integrità iniziò a sgretolarsi, come argilla troppo seccata al sole. Si crepò, si ruppe, divenne polvere. Queste crepe di solitudine si indurirono e formarono una corazza che neppure la spada più affilata o la freccia più accuminata sarebbero riusciti a scalfire.

Un giorno vide un menestrello. Stupendo nei suoi vestiti sgargianti. Una voce da usignolo, delle storie fantastiche sempre a disposizione. Il seguito di ammiratori era sempre molto nutrito. Chi mai avrebbe fatto caso al fabbro sudato e solitario. Una tristezza rancorosa emerse, tingendo di nero quelle scaglie impenetrabili.

Vide donne impazzire per uomini senza virtù, e uomini cambiare compagna repentinamente. Nessuna, però, lo degnava di una minima attenzione. Vide persone sperperare beni senza ritegno, mentre lui nella sua casa, si chiedeva se sarebbe riuscito a campare dignitosamente. Sentì elogi destinati al menestrello, al buffone, alla dama civettuola.

E a furia di ingoiare delusioni, in grumo di fuoco si formò nel suo petto, tanto caldo da poter sciogliere il ferro che lavorava..

Un giorno si specchiò e vide le scaglie, color pece e le lingue di fuoco. Non si riconobbe ed ebbe paura. Voleva scappare, ma come?

Fu allora che gli spuntarono le ali. Non colorate e piumate, ma pesanti, fatte di membrana, dotate di aculei.

E si alzò in volo, carico di livore, finché non trovò un monte cavo in cui sfogare la sua ira.