Da solo – Giorno 10

Un altro giorno senza bestie parlanti. Nessun pesce che mi fa discussioni filosofiche o che elargisce pillole di vita. Non mi riferisco solo a Clara e a nonna, ma anche di semplici conoscenti che, non ho mai capito con quale coraggio, si ergono a giudici dell’umanità intera. A volte li invidio: non riuscirei a impormi a quel modo o considerarmi superiore a tutti. Ma questo non è più un mio problema.

In effetti qui non ci sono molti problemi, se non quello di procacciarsi il cibo. Ma con un po’ di ingegno immagino di riuscire a sopravvivere. I miei gusti in questo campo sono cambiati, senza nemmeno rendermene conto. Secondo Clara facevo un uso spropositato di caffè e della grande famiglia degli zuccheri. Clara faceva parte, invece, della frangia salutista, il che rendeva arduo ogni invito a cena: bisognava evitare pizzerie, ristoranti di catene, bar, osterie, asporto. Gli unici locali erano fin troppo costosi e pretenziosi per Andrea. Ora mangio per lo più frutta e quello che rimane di queste scatolette. Clara sarebbe fiera di me, ma ora non me ne importa granché.

Il fiume segue una linea tortuosa, anche se il terreno è piuttosto piano. Lo capisco: anch’io sono capace di rendere complesso anche il compito più semplice. Il mio cervello si perdeva in un labirinto di dubbi e di pericoli da cui difficilmente riuscivo a uscirne.

Mi sono dimenticato di dirvi una cosa: mentre camminavo, mi è balenato in mente l’edificio in cui mi sono fermato. Nulla di particolare: una struttura cubica e grigia, di media dimensione, ma con una scritta cubitale azzurra. Non riesco, però, a mettere a fuoco cosa riportasse quella scritta.

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Da solo – Giorno 8

Prima di ripartire, permettetemi una riflessione. Non riesco proprio a capacitarmi del motivo per cui Clara e nonna tornino a perseguitarmi. Certo, avrete notato che nessuna delle due mi ammiri più di tanto. Clara lo ha dimostrato con i fatti, talvolta con le parole. All’inizio penso che fosse attratta proprio dal mio essere senza difese, una preda che proprio non riesce a diventare un predatore, nemmeno davanti a pericoli mortali. E nonna, come mamma, è stata delusa da qualche mia decisione: avrebbe voluto un leone, e si è trovato con una gazzella.

E ritorniamo nello zoo. Prima di perdermi nell’intrico degli animali e ricevere un altro agguato, meglio che parta per scoprire come poter sopravvivere a questa maledizione.

Finalmente è arrivata la sera, senza altri particolari incontri. D’altronde chi altro potrebbe apparirmi? Mio padre non ne sarebbe capace, come me non è capace di mostrare altre facce che non sia la quella che ci ha riservato madre natura. E di amici, non è che ne abbia molti. Forse potrebbe apparirmi il mio capo: visto che non sono riuscito a portar ea termine il viaggio di lavoro, probabilmente si presenterebbe come un coccodrillo pronto a staccarmi la testa.

A proposito, sto ancora cercando di ricostruire i fatti. Mentre stavo camminando tra i cespugli, mi è balenato un ricordo, forse il più recente rispetto a questa stramba avventura. Anche in questo caso ero perso, proprio come ora, anche se non in un bosco. Perso perché Clara non era con me a sostenermi, perché il viaggio di lavoro si sarebbe concluso con un cliente da conquistare, a cui il capo teneva particolarmente e perché, se avessi fallito, sarei rimasto senza lavoro. Un lavoro che, oltre tutto, odiavo.

Per questo avevo deciso di fare una pausa durante il viaggio. Altro problema: non ho la minima idea di dove io mi sia fermato.

Il fabbricante di bambole – Pt. 2

Eleonor era la radice, lo scopo, la linfa di quel segreto. Per Eleonor era diventato un artigiano e per lei realizzava delle bambole che molti definivano perfette.

Eleonor era una fata. Mentre Faber sembrava essere abbozzato grezzamente su un ceppo di legno a causa dei sui tratti decisi, spigolosi e senza grazia, Eleonor era la delicatezza impersonata in bambina. Con il suo sorriso riusciva a illuminare anche i momenti più bui in cui Faber cadeva. Era una fata capace di riportare il sorriso sulle labbra sottili della madre e sul volto preoccupato del fratello.

Non era umana, almeno agli occhi di Faber. Un giorno ipotizzò persino che fosse fatta della stessa materia sublime e ineffabile dei sogni.

E come i sogni, un giorno, all’alba Eleonor svanì. La peste, la scelleratezza umana, una guerra senza tempo aveva trasformato la ragazza in ricordo.

A Faber rimasero solo le sue mute bambole.

Danze di colori

Le ombre che ho visto danzare non erano oscure, ma sgargianti come schegge di colori, taglienti come vetri. Ho visto danzare ombre che non temono la luce, ma si divertono a scherzare con i raggi.

Erano ombre delle mente, depurate dalla loro più oscura aurea. Erano ombre del cuore, custodite con affetto e gelosia. Erano ombre un po’ tristi e un po’ nostalgiche, ma ridevano come una volta.

Corpi senza corpi si libravano in aria. Materia inconsistente scivolava senza rumore. Attorno un caleidoscopio di forme che mutavano e scherzavano.

Nella terra delle ombre, i ricordi non rifuggevano la luce, ma la cercavano allegramente, come un’allodola rincorre il riflesso del sole.

Tutti in carrozza – Pt. 12

Dalla parte opposta della seconda classe, Andrea stava ancora pensando a Pierre e, inspiegabilmente, all’ombrellino rosso. Non ne capiva bene il motivo, ma lo incuriosiva, ne era attratto come una mosca dal miele. Andrea sentiva di dover stare attento.

Innanzitutto, quello non era il suo posto: il suo biglietto riportava la scritta “terza classe”, e il controllore non avrebbe avuto pietà. Ma sperava che quest’ultimo fosse più propenso a rimanere nell’elegante prima classe.

In secondo luogo, non si sentiva molto a suo agio: si era immaginato la seconda classe più simile alla terza, magari senza pollame, e invece si ritrovava in una carrozza con scompartimenti lucidi, comodi e puliti, popolati da persone ben vestite. La prima classe doveva essere un lusso, ma Andrea non avrebbe mai azzardato tanto.

Almeno lì non c’era alcun Pierre a minacciarlo o ad accusarlo. Esattamente come il ragazzo di prima, anche il suo caro amico era facile all’ira, e Andrea lo sopportava.

Dopotutto a Pierre doveva molto. Gli doveva il suo lavoro nello studio medico. Gli doveva l’incontro con la bella Elise, e gli doveva anche quella fuga.

Da uno scompartimento lo sguardo verde di erba primaverile lo guardava insistente. Era lo sguardo di Elise. Era l’accusa di Elise.

Tutti in carrozza – Pt. 9

Trovare un posto era sempre stato un problema per Andrea. Era disposto a rinunciare a tutto pur di essere in grado di ritagliarsi un angolo in questo mondo. E c’era quasi riuscito: aveva rinunciato agli studi per trovare un lavoro, aveva rinunciato al suo nome per essere più simpatico a Elise, che lo chiamava André, e infine aveva rinunciato a tutto per Pierre.

Andrea si guardò le mani pulite e le vide grondare di sangue. Con un sospiro cercò di uscire dallo scompartimento ma la forza sembrava mancargli, non riusciva a smuovere l’anta. Nulla di strano: la porta era bloccata, al di là iniziava la seconda classe.

Se c’era una cosa che caratterizzava Andrea era la sua curiosità. Non era vestito così male, il viaggio sarebbe stato ancora lungo. Nessuno avrebbe questionato se avesse dato un’occhiata alla seconda classe.

Alla fermata successiva decise che avrebbe superato almeno quella barriera.

Immagini

Davanti agli occhi, o forse dentro la sua testa, scorrevano lampi di colori, come un film impazzito che tentava di seguire il battito folle del cuore di un colibrì.

La fontana di una casa che non esisteva più gli bagnava le mani paffute e rosse per il freddo, ed era felice.

Una risata si spandeva per l’aria, forse un po’ troppo acuta, forse un po’ troppo rumorosa, ma non aveva problemi, non aveva confini.

Quel sorriso galleggiava sopra di lui, e si sentiva protetto.

I giochi vennero rimpazziati da libri, fogli, carte, penne. E scoprí nuovi mondi, alcuni affascinanti, altri terribili, alcuni spaventosamente reali, altri magicamente falsi. E sogno si confuse con realtà, realtà scivolò in immaginazione, e immaginazione spiegò le ali per raggiungere l’universo.

E c’era anche lei, il suo sorriso, le sue parole, la carne e il respiro. Lei era il sogno che si era svegliato al momento sbagliato, che aveva assaggiato la fiele del mondo credendo che fosse nettare. La delusione gli tolse il fiato.

Ma il film doveva continuare. Racchiuse l’amore per lei nel cuore, come i petali di una rosa racchiudono il proprio segreto, e vide scivolare via altri giganti e anche qualche nano.

Vide le vittorie e le sconfitte. Vide re umani e regni di api. Era tutto così veloce, tutto così confuso. Strinse le mani a mille persone senza volto, sorrise e pianse.

Per ogni vertebra vide una storia, per ogni respiro sentì una voce. E sperò di non vedere la fine di quella strana commedia.

Tutti in carrozza – Pt 5

Errori su errori. Ecco cosa era stata la vita di Andrea. Era cresciuto con la convinzione di dover occupare il minor spazio possibile, esalando il numero minore di parole, ma ora si sentiva un gigante dalla voce di tuono. Voleva essere visto e ascoltato.

Andrea agguantò la porta e si trovò nell’altra carrozza di terza classe. Anche lì storie brune si il trecciavano per il tempo di un viaggio. Una giovane madre teneva stretti i piccoli guardandolo sospettosa, una signora con un merletto troppo logoro fissava imperterrita il paesaggio correre all’indietro, premendosi un fazzoletto sul naso. E più là se ne stava accovacciato un ragazzo che gli ricordava Pierre.

Pierre era il suo errore. Pierre era la sua persecuzione. Pensava di avere una mano da medico, ma si ritrovò a usarla come un macellaio. Tutta colpa di Pierre.

“E tu, che vuoi?”

Confusione

È un mondo confuso, fatto di aculei e di tentacoli. È un mondo feroce e ingannatore. Ci sono pesci capaci di mimetizzarsi, di assumere la forma perfetta di una roccia o di scomparire nel fondale, pronti a scattare come una trappola per le incaute prede. Talvolta la veste mimetica è solo un modo per nascondersi, per scomparire nella speranza che la vasta ingordigia vinca sulla debolezza.

È una confusione che non trova una risoluzione. Non ci sono gabbie che delimitino gli spazi, non ci sono etichette che cataloghino le specie pericolose da quelle innocue. Gli habitat si fondono, i loro abitanti sviluppano letali macchine di difesa o di attacco. Compaiono aculei velenosi, barricate innalzate contro un nemico che ha assunto un aspetto multiforme, o contro una vittima che tenta di fuggire, forse tendendo una trappola. Si spargono per acque all’apparenza innocua tentacoli che cercano di stritolare chiunque osi invadere il territorio, che sia di passaggio o che effettivamente avesse una volontà belligerante.

Nulla è più certo, se non che il più forte tenterà di fare di tutto per diventare sempre più forte e sempre più minaccioso. È la confusione della guerra, là dove non trovavano spazio i piccoli pesci innocui, quelli che sembrano piccole gemme cadute da un arcobaleno in acqua. I sogni sono scomparsi, come sono scomparsi gli occhi pieni di bontà della sua Sally.

Che cosa ci faceva lui là? In quel fango che non lo lasciava andare, in una terra che non era la sua, a trasformarsi in un mostro dotato di aculei e di tentacoli. Eppure si sentiva un semplice pesce rosso, con la sua corazza dorata che sarebbe stata del tutto inadatta in quel posto scuro e melmoso. Nemmeno sapeva come fare a uscirne da una confusione sconosciuta.

Dopotutto era un semplice commerciante di pesci. Non quelli esotici da esposizione, ma semplici pesci destinati ad acquari casalinghi. I più belli, secondo lui. Dopo Sally, ovvio. Ormai faticava a respirare: forse era colpa dei tentacoli di una vita che si era rivelata ingannatrice, o forse dipendeva dal veleno stillato dagli aculei di un sogno che stava naufragando. O forse si trattava semplicemente di un gas velenoso.

Metà

A prima vista sembrava un uomo come tanti. Un signore distinto, elegante e gentile. In realtà, pochi potevano affermare di conoscerlo o semplicemente di avergli parlato.

Viveva isolato nella sua casupola. Lo si poteva vedere mentre curava il giardino e il magnifico roseto che era stato tanto desiderato da sua moglie. A maggio quello scheletro di rovi che in inverno esprimeva con i suoi steli il freddo del clima, si scaldava con i colori del sole, del fuoco,divampava creando una macchia felice e scomposta in quel giardino così ordinato e monocromo.

Spesso, però, rimaneva in casa. A volte quando usciva indossava un cappello che gli nascondeva gli occhi. Era, in effetti, l’unica particolarità che lasciava i suoi vicini un po’ perplessi.

Aveva cominciato a isolarsi in seguito alla perdita di sua moglie. Al funerale era rimasto impassibile, non un muscolo si era mosso. Non aveva parlato, aveva solo stretto le mani di chi gli si avvicinava. Alcuni avrebbero giurato, però, che l’occhio sinistro fosse umido, arrossato e gonfio. Anche l’angolo della bocca ora sembrava piegarsi in una smorfia di dolore, ora tremava leggermente.

Ma poteva darsi che fosse solo un’impressione.

Seduto sulla poltrona, chiuse tutte le imposte, il signore sospirò e scrutò il suo volto allo specchio. Non era più tornati normale. L’occhio destro era limpido, terso come il cielo liberato da un venti di primavera. L’altro era opaco, offuscato da una nuvola di dolore, sempre pronta a lasciarsi andare a una pioggia di calde lacrime.

Anche la bocca era rimasta deformata. Una metà appariva distesa, l’altra perennemente triste, serrata, sottile.

Solo quando si affacciava a vedere le rose fiorite gli sembrava di sentire la voce della sua amata che lo chiamava ad ammirare quello splendore spinoso.

E allora le labbra si stiravano in un pallido sorriso, e l’occhio ferito tornava a vedere la luce.