Mi avete lasciato mentre nuotavo tranquillo in questo strano lago artificiale, dalle pareti trasparenti, con dei coinquilini tanto vistosi quanto ingombranti.
Forse non vi ricordate di me, sono il pesce rosse finito per gioco del destino in un acquario di pesci tropicali.
È da un po’ che non faccio sentire la mia voce, ma ho avuto anch’io il mio bel da farsi per sopravvivere in questo mondo.
Facile, direte voi, sopravvivere in un acquario!
Ebbene, sono pronto a smentirvi. Voi avete sempre la possibilità di fuggire, abbandonare i luoghi che vi opprimono. Io, invece, non posso muovermi. Sono bloccato qui, senza via di fuga. Pinna a pinna con queste stupende, luminose creature.
E poi, se non erro, anche voi avete il vostro acquario. Magari non fisico. Però ammettetelo, pure voi sguazzate in un angolo limitato del mondo, sicuro ma angusto.
Ma torniamo a me. Ammetto di aver tentato di adeguarmi a loro, a quegli stupendi esseri che condividono con me queste acque.
Ho scoperto che anche queste creature così eteree perdono talvolta le loro squame. Io le ho raccolte tutte, e mi sono confezionato la mia bella veste lucente. Un’armatura eroica. Una corazza di gemme.
Purtroppo, com’è risaputo, noi pesci difettiamo di memoria. Così ben presto mi dimenticai che quella che avevo addosso era solo un’apparenza di gloria, un inganno, anche piuttosto goffo. Mi chiesi perché le mie squame diventassero opache, grigie, più banali del mio già banale colorito. Non riuscivo a spiegarmi neppure le risate dei miei compagni né il motivo per cui fuggivano da me.
Che mi fossi malato?
Un giorno la mia veste rimase impigliata in un corallo e si strappò. Mi sentì subito più leggero, agile. Mi sentì rinato. Mi ero liberato da quella pelle morta, che non mi apparteneva.
Ero di nuovo io. Carassius Auratus. Alla faccia di quei vanagloriosi.