Zero

C’è qualcosa di strano nello zero. È il nulla, è un cerchio che si racchiude sul vuoto. Lo zero è la sospensione in un mondo pieno di numeri e di misure.

Ma Zero era anche il nome toccato in sorte a un bambino poi diventato ragazzo. I suoi genitori, chiunque fossero e qualunque fosse la loro storia, lo avevano lasciato sulla scalinata di un collegio di orfani quando era ancora in fasce. Lo trovarono a mezzanotte, all’apertura di un nuovo anno. Il direttore lo registrò in una pagina ancora intonsa, senza alcuna scritta. Zero prendeva una sua identità.

Non è semplice vivere con un nome del genere. Zero era sempre preso di mira dagli scherzi e dai giochi dei bambini più grandi. Odiava il suo nome, gli sembrava che risuonasse come una scatola di latta vuota, senza senso. In mezzo a tanti numeri, lo zero riesce a distinguersi, nel bene o nel male. E Zero lo imparò velocemente.

Il vuoto si può riempire, il vuoto può trasformarsi in qualsiasi cosa, con naturalezza. Zero divenne il primo nel collegio, il più intelligente e il più studioso. Non che questo migliorasse la situazione con i compagni: si sa che i più bravi sono sempre presi di mira da odi e da una buona dose di invidia.

Allora divenne il secondo nelle arti marziali. Secondo perché venne sconfitto dal migliore della squadra. E come tale venne ben presto dimenticato e tralasciato, ma almeno nessuno aveva più il coraggio di picchiarlo o maltrattarlo.

Divenne il terzo a essere eletto come rappresentante dell’istituto, risultato dovuto per lo più dalla sua nuova forza fisica. E quarto arrivò nella graduatoria per l’iscrizione all’università.

E infine si rese conto che essere Zero non era poi così male.

Calze sul camino – Pt. 4 FINE

Finalmete i quattro, piccoli, intrepidi eroi giunsero alle paludi dove viveva il mostro Mangiadolci. Non dovettero nemmeno cercare a lungo perché subito si imbatterono in una casupola di mattoni, piccola, ma con un certa grazia.

Nessuno aveva il coraggio di bussare, tantomeno Furt e Candy, terrorizzati all’idea di essere scambiati per dolciumi e mangiati in un sol boccone.

Ad aprire non venne un mostro, ma una sognora anziana, ben vestita e con un portamento altero, che guardò Dwarf con un’aria a metà tra la curiosità e l’orrore. “Desiderate?” Chiese.

“Sbagliato casa” grugnì lo gnomo senza nemmeno salutare “Mostro Mangiadolci?”

Con sorprsa di tutti la signora scoppiò a ridere. E rise, rise finché non le vennero le lacrime agli occhi e non si piegò su se stessa. Quando si riprese riuscì a dire: “davvero? Mostro? Questa è bella. Sono io il Mostro Mangiadolci. Il mio nome è Xenia. Vi ha mandati la Vecchia, vero? Come si trova con il suo nuovo corpo da Corvo?”

“Cornacchia” la corresse Klag.

“Se lo dici tu, ho sempre fatto confusione. Ma entrare, entrate, giuro che non vi mangio” disse ammiccando verso i due folletti.

Scoprirono che Xenia altro non era se non la sorella minore della Vecchia. Stanca di ricevere solo carbone, si era vendicata trasformandola in un pennuto, rubandole i dolciumi e la scopa volante. Il piano era quello di riempire tutte le calze sul camino con carbone, esattamente come succedeva a lei ogni anno.

Ma la parlantina di Klag convincerebbe anche i monti a ballare il can-can. Xenia accettò di ridare forma umana alla Vecchia, che riapparve in tutti i suoi porri e calvizie. Da parte sua, la Vecchia si impegnò a dare almeno un dolcetto ogni anno alla sorella, anche solo come riconoscimento per sopportare i suoi lamenti per i dolori della vecchiaia.

I quattro tornarono nel freddo nord dopo sei ore di viaggio, perché le renne avevano fatto indigestione di dolcetti e procedevano a rilento. Furt sbuffava alla pari di Dwarf, mentre Klag ripercorreva le sue imprese per il salvataggio dell’Epifania.

I quattro si guadagnarono la stima e l’amicizia di altre due formidabili vecchiette, che raccontavano in lungo e in largo le azioni dei due gnomi e dei due folletti. E queste storie, un po’ riviste, un po’ abbellite, giunsero alle lunghe orecchie del coniglio pasquale. Ma questa è un’altra storia.

Astolfo non vuole tornare – Pt 13

Perché tornare in un mondo senza memoria? E perché affannarsi in una guerra senza senso? Astolfo e Carlo si facevano domande senza una risposta, il cavaliere e il re indugiavano nella ricerca di una soluzione che non causasse la loro rovina. Astolfo non stava male sulla luna: non gli era mai piaciuto il mondo terreno e ignorante. Quel titolo di saggio gli pesava più di un macigno, soprattutto ora, soprattutto da quando era scappato dalla battaglia. Per Carlo era la corona a pesare: aveva causato morti, aveva portato la distruzione, e vedeva i suoi paladini inseguire chimere di amori. La sua chimera era ben più grande, e si chiamava eternità.

C’era una leggenda secondo la quale sulla luna venivano custoditi tutto ciò che gli uomini perdevano. C’erano storie di cavalli alati capaci di raggiungere l’Olimpo. C’erano voci di profeti su carri di fuoco. Ma re Carlo non aveva mai visto nulla di ciò. Il suo cuore bramava l’esistenza di queste magie, ma la sua mente lo metteva a tacere: era un uomo, e del mondo caduco si doveva occupare, le storie erano materia dei bambini.

Era un uomo, in carne e ossa, ancora nei pensieri di molti, Astolfo lo sapeva: doveva tornare. Lo capiva guardando l’ippogrifo che scalpitava nel tentativo di trovare qualche filo d’erba su quella distesa di brullo ferro.

“Prima o poi altri uomini metteranno piede sulla luna” disse la voce.

“Alla ricerca del senno di un qualche eroe?”

“No, alla ricerca di conoscenza, o forse per una semplice gara. Voi uomini siete strani. Ma non troveranno nulla di ciò: vi dimenticherete anche come si fa a sognare”.

Astolfo cercò con lo sguardo: “Si può sapere chi sei? Ti ho già conosciuta, vero? Quando ero bambino, quando ero un innocente”.

“Astolfo, non ti crucciare e aiuta il tuo amico Orlando. Il re ha bisogno di voi, e non solo lui. L’ora è giunta, devi andare”.