Anche la luce dorata del sole diventava grigia quando si posava su quel labirinto intricato.
Alti palazzi di cemento cercavano di raggiungere il cielo, come dei titani pronti a sfidare le divinità. A guardarli venivano le vertigini. Costruzioni uguali, con finestre, poggioli, terrazze, in cui vivevano persone diverse, ma accomunate da esistenze simili.
Le strade erano fiumi solidi di scuro catrame, sulle quali correvano vetture rumorose e maleodoranti. Sempre scalpitanti, impazienti, scattanti, non avevano rispetto di nessuno. Una marea metallica che si incanalava in rivoli e si disperdeva tra i quartieri.
Fumo nero, pesante si innalzava dai comignoli, per poi ricadere sul mondo sottostante coprendolo con una patina unta. Anche i pochi alberi che crescevano stentati spuntando dal cemento ne erano ricoperti. Il verde delle foglie si andava attenuando, i rami cercavano sottili un raggio di luce.
Uomini e donne vestiti di grigio si aggiravano sicuri, senza guardare in faccia nessuno, lanciando un’occhiata veloce agli orologi e tenendo sempre in mano un telefono.
Il fiume che attraversava la città si lamentava, stretto com’era tra argini di cemento, costretto a seguire una via a lui conosciuta. Le acque una volta azzurre e verdi si erano incupite, avvelenate.
Un ponte vi si prontedeva al di sopra. Anch’esso scuro, di metallo, con freddi piloni e travi. All’improvviso, tra questo intrico minaccioso, si sentì un timido trillo d’uccello. Un passante alzò gli occhi per scorgerlo, senza successo.
Nello stesso momento, due mani poggiarono sul balcone un vaso di fiori gialli. Su di loro si posò benevolo uno spiraglio dorato di sole.