Paura di faticare

Ho sempre avuto un concetto un po’ vecchio stile secondo cui, se si vuole ottenere qualcosa, bisogna faticare. Sono stata cresciuta con questo principio, e mi ha guidata in molte delle mie scelte. Se voglio raggiungere un obiettivo, sono capace di mettere in campo ogni briciola di determinazione e di forza.

Ho incontrato molti che condividevano questa mia visione forse un po’ masochistica della vita: niente viene regalato, tutto dipende dalle proprie capacità. Eppure in questo strano e affascinante viaggio che ho intrapreso, mi sono ritrovata con dei compagni che sembrano appartenere a un’altra dimensione. La fatica deve essere evitata a qualsiasi costo, non è ammissibile che qualcosa possa essere ottunuto con sudore.

La vita non è, però, un parco giochi, e le persone che ne solcano le acque possono voler causare delle onde inaspettate. E allora che cosa si fa di fronte a questi impervisti? La mia risposta si trova nel lavoro, in una bella remata forte che potrebbe portarmi dritta dritta negli abissi, senza che nessuno si degni di lanciare un salvagente. E poi c’è chi se ne sta ben lontano dal pericolo, ma anche dalla meta, e tenta di trovare qualche scorciatoia, qualche modo per aggirare l’ostacolo.

Quale delle due strade sia più efficiente, però, non mi è ancora ben chiaro.

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Una stanza colma di robot

Se si ripetono gli stessi concetti per un adeguato lasso di tempo, questi si imprimono a fuoco nella mente, diventano una sorta di automatismo, una convizione che sembra essere sempre stata presente tra i neuroni. Basta far passare l’idea che quel contenuto sia migliore degli altri, che quella sia la via giusta, la soluzione perfetta per diventare umani integerrimi.

Di solito il pilastro principale si chiama positivismo. Viene bandito lo sguardo pessimista, perché potrebbe portare a pensieri tormentati, per aprire la strada alla necessità di vedere sempre il lato bello delle cose. Quando questo lato manca, serve inventarlo. E la turba di topi annuisce contenta: certo, seguiremo queste regole; certo, vedremo il sole anche quando piove; certo, non ci lasceremo vincere dal pessimismo.

I meccanismi delle menti iniziano ad andare allo stesso ritmo, gli ingranaggi seguono quello principale, creano un’armonia che culla, un’armonia che porta il nome di omologazione. Disfattista, sussurrano mentre ti guardano con sospetto.

Non disfattista, ma semplice realista: non sempre si ha la forza di vedere quel dannato bicchiere mezzo pieno. Talvolta fa anche bene vederlo mezzo vuoto, per trovare altra acqua e riempirlo fino all’orlo.

Scale

Succede che gli incontri vengano rimandati, non a causa di ritardi o di errori, ma solo per una questione di piani. Pensate a un grande condominio, fatto di scale e di rampe, senza una pianta ben specifica, senza una logica per cui una strada sia preferibile all’altra. Alcuni dei suoi abitanti scelgono una via, alcuni un’altra, e non la abbandonano, altri ancora la variano in continuazione perché sono alla perenne ricerca di quale sia per loro la migliore.

Non è detto che gli inquilini vengano mossi dalla necessità di impiegare il minor tempo possibile. Forse fanno quella strada perché vogliono o sperano di trovare una determinata persona, o per evitare qualcuno o perché hanno sempre scelto quel percorso e non vedono il motivo per cui compiere variazioni.

In questo condominio le anime si rincorrono. È possibile che alcuni non si incontrino mai, o che altri si inseguano a lungo, prima di scontrarsi con conseguenze per entrambi: qualche contusione, ossa rotte, o forse un bel salvataggio.

Trovare la strada giusta e il giusto urto può richiedere tempo e lo zampino di quello che qualcuno chiama destino. E dopo molte scale, alla fine, si arriva sempre a una destinazione, anche se magari non è quella progettata.

Ritagli di tempo

Quando si parla del tempo, si immagina spesso un flusso ininterrotto che scorre, ora veloce, ora lento, ma sempre inesorabile.

Talvolta ho la sensazione, però, che sia più simile a una lettera minatoria, composta da tante lettere ritagliate in malo modo. C’è anche un modo di dire: ritagliarsi del tempo per una qualche attività.

E quindi mi ritrovo a essere una sarta, con delle scarse qualità nel cucito. Una sarta che dorme troppo poco e che cerca di rendere almeno piacevole un vestito tagliuzzato e rappezzato.

Nella speranza che ne valga la pena.

Come in una piramide

Ci sono argomenti che, in qualche periodo della vita, tornano a fare capolino. Per anni non si sono fatti vedere, e ora, nel giro di pochi mesi, bussano con insistenza per essere presi in considerazione.

In questi mesi è la piramide di Maslow. L’idea che ne è alla base, è piuttosto semplice: l’uomo ha dei bisogni, che possono essere rappresentati come una piramide. Alla base si trovano i bisogni primari, legati alla mera sopravvivenza, come l’alimentazione, la sicurezza lavorativa e personale, la salute, cui seguono i bisogni sociali, che portano alla creazione di amicizie, famiglia e alla ricerca di una stima, e solo alla fine si raggiunge l’autoreallizzazione, in cui sono inclusi aspetti come la creatività, l’accettazione o la moralità. Se manca uno di questi scalini, non è possibile proseguire con quello successivo: per semplificare, se ci sono problemi a portare a casa la pagnotta, è difficile che si compiano voli pindarici nel mondo della creatività.

Ho sempre pensato che questa piramide proponga una visione molto ristretta dell’essere umano. Quando mai l’uomo procede a scalini, consolida un livello per passare all’altro? Ve lo dico io: per fortuna, quasi mai. Pensate a Leopardi: certo, non aveva problemi economici, ma la sua salute e la sfera affettiva facevano acqua da ogni parte, eppure è riuscito a regalarci opere lettararie di rara bellezza e profondità. E molti altri artisti: Pascoli era un alcolista, Van Gogh soffriva di disturbi mentali e versava in stato di indigenza, Pollock non può essere preso come esempio di equilibrio e sobrietà, Beethoven era sordo.

Perché, dunque, no potremmo fare questi benedetti voli pindarici? Perché sono una fuga dalla realtà, mi è stato risposto. E quindi? Non posso fuggire dalla realtà? Tanto, ci pensa la realtà stessa a riportarci prima o poi con i piedi a terra. Non tolgo niente a nessuno, nemmeno a me, se faccio una piccola fuga in avanti. E anche se magari qualche scalino della piramide è scheggiato o instabile, lasciatemi almeno la possibilità di puntare all’autorealizzazione, con buona pace di Maslow. Dopo tutto essitono palazzi dalla forma di piramide rovesciata.

E se poi crolla tutto, me ne assuemrò la responsabilità.

Imprigionati in un rettangolo

Ho alzato e girato la sguardo, ma non ho incontrato altri sguardi, solo colli piegati verso il basso per guardare uno schermo luminescente.

Accanto alla critica legata ai passatempi troppo solitari, è stata posta la necessità di fare amicizie. Lo so, non sono il genere di persona che lega facilmente con gli altri, fin da piccola. Basti pensare che la maestra d’asilo fece notare ai miei genitori che avevo delle amicizie selettive. All’epoca non era una pecca insanabile di un carattere troppo introverso, era semplicemente un dato di fatto. Le cose non sono cambiate più di tanto con il tempo: continuo ad avere le mie amicizie, ma molto selettive. Non sono espansiva, non voglio piacere al mondo intero, non mi interessa avere la rubrica piena di nomi dei quali a stento mi ricordo la faccia.

Ora, però, la difficoltà di fare conoscenze è resa ancora più ostica da questa nuova gabbia, questo rettangolo che lega mente e occhi e che irritisce i sensi più di una maledizione. Strano come uno strumento così forte, che in effetti ha moltiplato le nostre possibilità e che ci permette di più libertà e informazioni, possa tramutarsi in un ostacolo. I ragazzi non parlano, i ragazzi guardano.

Quando sono entrata per la prima volta all’università, la realtà era diversa: quasi nessuno aveva uno smartphone, avevamo i cari, indistruttibili cellulari, che potevano essere lanciati nella borsa senza paura che subissero qualche danno. Per quanto mi riguarda, la conversione alla versione più tecnologica è avvenuto al quarto anno di università e non nego che le comodità che offre siano nettamente maggiori di quelle del macinino cui ero tanto affezionata.

In aula non ho mai assistito a scene come quelle che mi circondano quotidianamente. Che cosa trovi in quel cellulare o in quel tablet? Che cosa ti rapisce? Non lo so: quando ho del tempo libero leggo un libro, lo trovo più rilassante perché imprimo io il ritmo da dare, non subisco il martellare dei video di pochi secondi.

Abbiamo perso un pezzo di libertà? A vedere quegli sguardi fissi, penso proprio che sia così.

Regola fondamentale

Prima, e temo unica, regola fondamentale della vita: se una cosa può andare male, stai certa che andrà male. E se pensi che di averla scampata, è solo un’illusione, magari in ritardo, ma la batosta arriva.

Sul più bello che pensi che tutto stia andando come dovrebbe, ecco la spina che ti pungola il fianco. Nulla di tragico o di irreparabile. Ma abbastanza salato da lasciare un sapore sgradevole in bocca per giorni.

Perché se una regola è fondamentale, è certo che si verificherà.

Corollario: se qualcosa va storto, non è possibile raddrizzarlo, e anche quando fa parte del pasasto, questo qualcosa riesce sempre ad assestare una qualche potente e dolorosa sferzata.

Via il vecchio, avanti il nuovo

Grandi cambiamenti si stanno susseguendo, e non è così facile affrontarli. Aggiungetici qualche imprevisto per nulla gradito, ma molto costoso, e avrete la formula perfetta per un umore pessimo. Almeno la prospettiva non è così malvagia come potrebbe sembrare, basta tenere duro, mettercela tutta, e andare avanti.

Ma per procedere è necessario fare un po’ di spazio, lasciar andare la zavorra, come una mongolfiera. Mi sono sempre piaciute le mongolfiere: non ci salirei mai, dato che non mi attrae l’idea di viaggiare in un cesto di vimini sostenuto da una fiamma, ma le ho sempre guardate con la curiosità di una bambina stupefatta. Loro in cielo e io ben piantata per terra.

Tornando a noi, ho dovuto fare spazio, anche fisicamente, e penso che sia solo l’inizio. E per me fare spazio non vuol dire spostare, ma eliminare fisicamente ciò che non mi serve più. Ammetto che si è trattato di una grande fatica, molto simile a un lutto. In primo luogo perché ho eliminato le tracce della mia fatica. Anni di lavoro, che poi si è rivelato nella pratica inutile, stralciati in pochi minuti, in appena una mattina.

Davanti ai cumuli di quella che era diventata mera cianfrusaglia, mi sono sentita persa: tutto quella fatica per diventare cosa? Solo un grande insieme di carta e qualche mucchietto di plastica. E in quella collinetta c’erano ore di studio e di impegno, che ora giacevano scomposti a terra.

Ma è bastato buttare tutto nei bidoni per sentirmi alleggerita. Lo sconforto iniziale è mutato diventando sollievo e un po’ eccitazione per ciò che quegli scaffali avrebbero custodito da ora in poi.

Entrare da una porta chiusa

In questi anni c’è la tendenza a pensare che tutti abbiano il diritto di conoscere anche gli aspetti più privati degli interlocutori. Non parlo solo dei social, sui quali si riversano informazioni personali, ma anche ambienti in cui la sfera privata dovrebbe rimanere tale.

La domanda più frequente nei colloqui di lavoro e anche nei moduli per tirocini è “Quali sono i tuo hobby?”

A questo punto si aprono due strade: una è quella di dichiarare i propri interessi, la seconda è individuare delle attivtà che possano essere affini alle aspettative del richiedente. L’ultima volta ho provato la prima opzione e mi è stato fatto notare che erano attività in solitaria.

Non nego di essere una persona a cui piace stare da sola. Non sono del tutto avvulsa dalla società, non abito in un eremo e ho i miei amici, pochi, certo, ma qualcuno è presente. Sono anche abituata a lavorare in gruppo e non ho mai avuto problemi a collaborare. Allora perché devo essere giudicata per come trascorro le mie ore libere? Perché devo difendere i miei interessi.

Facciamo parte di una grande società, ma siamo anche individui, e come tali abbiamo il diritto di lasciare alcune porte chiuse. Quello che faccio al di fuori del lavoro non dovrebbe interessare nessuno. Non tutti possono dedicarsi a sport di gruppo o far parte di gruppi di escursionisti.

Eppure il tentatico di sfondare qualsiasi porta chiusa con l’intento di capire capire chi tu sia e come poter sfruttare ogni tuo aspetto è sempre più invadente. La prossima volta risponderò dicendo che adoro le orgie: è pur sempre un’attività di gruppo potrebbe essere più apprezzata della semplice lettura.

Reazioni

Che cosa ci aspettiamo dalle altre persone? Nella nostra mente pianifichiamo spesso quello che dovrebbe accadere, i tempi e persino le parole che dovrebbero essere pronunciare. Qualora, invece, il percorso cambi, nasce quasi immediatamente la delusione e un pizzico di rabbia.

L’immaginazione è un mezzo potente, e non solo per inventare storie e mondi, ma anche per riuscire ad affrontare situazioni nuove e sconosciute. Una tecnica per non avere paura nell’affrontare le novità è proprio cercare di immaginarsi come quella situazione potrebbbe evolversi, quali potrebbero essere le nostre azioni e cosa potrebbero fare gli interlocutori. Si tratta di un mezzo fantasioso per affrontare la realtà.

Tuttavia si può rivelare un’arma a doppio taglio qualora le nostre aspettative vengano deluse, soprattutto da persone che ci sono vicine. Perché al posto di gioire fanno emergere mille problemi? Perché sostituiscono la soddisfazione attesa con un’imprevista delusione? La risposta razionale è semplice: siamo creature diverse, con cervelli differenti che reagiscono in modo personale alle varie sollecitazioni. Non un concetto sconosciuto, di certo, ma la delusione è sempre dietro l’angolo.

Mi è capitato un po’ di giorni fa di comunicare delle decisioni importanti alla mia famiglia e ad alcuni dei miei amici. Sto cercando di cambiare un po’ di cose nella mia vita, e, con una buona dose di fatica e di impegno, ci sto riuscendo. Eppure le reazioni sono state del tutto inattese. C’è chi non ha capito e mi ha dato della matta, chi considera le mie decisioni un semplice gioco e chi mi ha deriso apertamente: un bottino non molto soddisfacente, a ben pensarci. Solo un piccola parte mi ha sostenuto e ha capito le mie motivazioni.

Le parole possono ferire, ma le reazioni possono demolire. Se non fossi convinta che le decisioni prese siano quelle giuste, frutto di una lunga riflessione, sarei assalita dai dubbi. Sono sempre più convinta, però, che sia più semplice demolire che appoggiare chi ha il coraggio di cambiare.