Reazioni

Che cosa ci aspettiamo dalle altre persone? Nella nostra mente pianifichiamo spesso quello che dovrebbe accadere, i tempi e persino le parole che dovrebbero essere pronunciare. Qualora, invece, il percorso cambi, nasce quasi immediatamente la delusione e un pizzico di rabbia.

L’immaginazione è un mezzo potente, e non solo per inventare storie e mondi, ma anche per riuscire ad affrontare situazioni nuove e sconosciute. Una tecnica per non avere paura nell’affrontare le novità è proprio cercare di immaginarsi come quella situazione potrebbbe evolversi, quali potrebbero essere le nostre azioni e cosa potrebbero fare gli interlocutori. Si tratta di un mezzo fantasioso per affrontare la realtà.

Tuttavia si può rivelare un’arma a doppio taglio qualora le nostre aspettative vengano deluse, soprattutto da persone che ci sono vicine. Perché al posto di gioire fanno emergere mille problemi? Perché sostituiscono la soddisfazione attesa con un’imprevista delusione? La risposta razionale è semplice: siamo creature diverse, con cervelli differenti che reagiscono in modo personale alle varie sollecitazioni. Non un concetto sconosciuto, di certo, ma la delusione è sempre dietro l’angolo.

Mi è capitato un po’ di giorni fa di comunicare delle decisioni importanti alla mia famiglia e ad alcuni dei miei amici. Sto cercando di cambiare un po’ di cose nella mia vita, e, con una buona dose di fatica e di impegno, ci sto riuscendo. Eppure le reazioni sono state del tutto inattese. C’è chi non ha capito e mi ha dato della matta, chi considera le mie decisioni un semplice gioco e chi mi ha deriso apertamente: un bottino non molto soddisfacente, a ben pensarci. Solo un piccola parte mi ha sostenuto e ha capito le mie motivazioni.

Le parole possono ferire, ma le reazioni possono demolire. Se non fossi convinta che le decisioni prese siano quelle giuste, frutto di una lunga riflessione, sarei assalita dai dubbi. Sono sempre più convinta, però, che sia più semplice demolire che appoggiare chi ha il coraggio di cambiare.

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Ci vorrebbe proprio

Ora sarebbe necessaria una boccata d’aria. In altre parole, servirebbe un po’ di leggerezza. O almeno un po’ di leggerezza, quella brezza di follia che spezza la routine e che non rende prevedibile la prossima mossa.

Non è mera insofferenza, o non solo. È anche desiderio di infrangere il mosaico di aspettative che è stato creato da altri. Serve un’azione che urli a chiara voce che non siamo delle macchine, che non possiamo sempre fare quello che gli altri si aspettano.

Ci vorrebbe proprio la capacità di fare un passo fuori dal bordo, sbeffeggiando il coro di voci indignate che si levano a criticare quella scelta. Non uscire dai cardi, segui i binari, e quando arriva lo schianto potranno dire che ti sei comportato sempre in modo ineccepibile.

Che parlino, che borbottino “Se l’è cercata”. Sono tanto bravi a disegnare la vita degli altri, ma sono del tutto incapaci di accettare qualche cosa di nuovo.

Perdere tempo

Il tempo perso a cercare di soddisfare le proprie aspettative e quelle degli altri non si può certo richiamare indietro. Fin da piccoli, però, è necessario rispondere a richieste e speranze, e si cerca quella luce di approvazione negli occhi altrui.

Non devi cercare l’approvazione degli altri.

Questa frase è un esempio di consiglio spesso dato senza essere richiesto da qualche saggia persona. Ultimamente l’ho sentita condita con altre asserzioni come “Io non bado agli elogi altrui” o “non mi interesso di quello che pensano gli altri”.

La trovo un’ottima teoria. Ma, come ogni teoria, è spesso difficile metterla in pratica. A volte mi chiedo se sia proprio impossibile. Riusciremmo davvero a vivere avulsi dal resto dell’umanità? O abbiamo bisogno di un perenne confronto per capire come procedere, come evolvere? I sistemi chiusi e, ancor peggio, quelli isolati sono destinati alla consumazione, alla morte.

È davvero una perdita di tempo cercare di soddisfare le aspettative degli altri?

Se queste non corrispondono alle proprie, portano sulla strada dell’infelicità e della frustrazione. Sfidare i preconcetti e i piani precostituiti è più eccitante, ma in qualche modo, anche se non lo vogliamo ammettere, desideriamo sempre quello sguardo di tenera approvazione di chi ha un peso nella nostra vita.

In attesa

Aveva aspettato così a lungo che tutto si sistemasse nel proprio posto, in quella casella che era stata destinata a ogni problema. Una lunga attesa punteggiata si sospira, urla e inutili lotte che avevano portato a nulla. A volte gli sembrava di essere una marionetta con dei fili infiniti che si perdevano nell’universo, ma grazie ai quali i suoi arti si muovevano in maniera scomposta per volere di un autore pazzo e per il piacere di un pubblico invisibile.

L’attesa lo aveva logorato. Carlo lo vedeva bene allo specchio: occhi incavati, qualche ruga di troppo e qualche chilo di meno. L’attesa è un assassino cui piace torturare le vittime e destinarle a una fine lenta e dolorosa, senza nessun atto di eroicità.

Non esistevano eroi nel mondo di Carlo, solo esseri che cercavano di galleggiare in quella tempesta che era la vita. Forse per questo il suo aspetto era sempre più simile a quello di un legno che viene scheggiato dalla forza del fiume. Gettato da ogni parte, era rimbalzato su rocce e su rive scoscese per poi arrivare a una sorta di porto.

Più il viaggio è faticoso e più deludente è l’arrivo. Lo sapeva bene Carlo, che tanto aveva combattuto per arrivare a quel punto e che ora vedeva attorno a sé solo la monotonia della vita di tutti i giorni, la stessa monotonia che aveva invocato durante il viaggio.

E quindi rimase in attesa. In attesa che almeno qualcosa trovasse il proprio posto.

Richiesta di spazio

Sai, è da un po’ che non mi dai lo spazio che mi merito: non mi fai più parlare, ti limiti a darmi da mangiare. Insomma, mi tratti come un pesce rosso qualunque, non come il padrone indiscusso di questo acquario.

Mi sento un po’ stupida a parlare con un pesce. Ricordi? Di solito i pesci sono muti. È come parlare con se stessi. Già sono strana, se poi scoprono che parlo con i pesci, sai quanti problemi potrei avere. Non è certo un hobby da inserire in un curriculum, no?

Magari i pesci tropicali sono muti, ma io parlo e mi so esprimere benissimo. Posso anche offenderti.

Lo so. In ogni caso, mi sembra di averti dato abbastanza spazio: sei anche in foto ora.

Non sono io quello. Io sono decisamente più affascinante, misterioso, grazioso. Quello ha un’aria da pesce lesso.

Era per proteggere la tua identità. Non vorrei che qualche squalo, o magari un gatto ti prenda di mira. I tuoi amici tropicali non muoverebbero una pinna se qualcuno tentasse di farti fuori.

Lo so, lo so, la mia è una posizione scomoda.

Perché mi hai disturbato, comunque?

Io non disturbo mai.

Credici. Perché hai fatto incursione?

Non mi ricordo…

Bugiardo!

Ah, giusto. Per riportarti con i piedi a terra.

E tu che ne sai di piedi?

Ho studiato. Dico solo di non illuderti. Non per te, ovvio. Voglio solo evitare un’altra infilata di testi depressivi e deprimenti. Sto cercando di liberarmi delle persone negative: non vorrei mai dover assoldare uno squalo per liberarmi pure di te. Non hai idea di quanto si facciano pagare gli squali.

Sempre una parola di conforto, tu, vero?

Sblurp. Lo sai che sono gentile.

Secondo me volevi solo far sentire la tua voce per manie di protagonismo.

Può essere. Sai che ho la memoria breve. Mi sono ritrovato qui, e non mi ricordo perché io sia qui.

Intelligente come uno squalo, insomma.

Non offendere, umana senza branchie.

Torna a giocare con il pesce palla, da bravo.

Spiritosa. Sblurp sblurp.

Paralisi

Una statua di sale che si sta voltando, spinta dalla curiosità, dal desiderio di capire il motivo del divieto, di salutare la città che era stata la sua casa.

Una statua sterile, immobile, senza voce, con gli occhi sgranati per l’orrore, ecco che cosa si sentiva dentro il petto.

Certo, il cuore continuava a pulsare, i polmoni a dilatarsi, il sangue a irrorare ogni singola cellula del suo corpo. Camminava, correva, rideva e parlava, tutto nella normalità.

Eppure, ora, si sentiva intrappolata in una gabbia troppo stretta. Non riusciva a capire dove andare, quale direzione prendere, a chi chiedere. Non riusciva a mettere a fuoco la meta.

Per questo si era voltata indietro.

Era stato un errore, perché le vette conquistate le apparivano così insulse, le sconfitte abissali, gli errori imperdonabili. Aveva davanti a sé un deserto, dietro delle rovine, una terra bruciata dalle sue stesse scelte.

Non era stata capace di capire quale fosse il suo luogo, o quale fosse la via da seguire. Si sentiva rifiutata e spaesata. La bussola non segnava il nord, ma l’ago girava vorticosamente come se fosse impazzito.

E poi doveva fare i conti con quella paura che le stringeva lo stomaco, le pugnalava il ventre e la soffocava in una lenta agonia. Il timore di non farcela, di non aver osato abbastanza, di non aver volato.

Si sentiva minuscola, inerme, nuda. E sola. Terribilmente sola. In quel mondo pullulante di creature ciarliere non era riuscita ad amare, a farsi amare.

Ma in futuro sarebbe andata meglio. Certo. Il tempo avrebbe aperto porte, indicato la strada.

Sarebbe andata meglio.

Sarebbe andata meglio.

Meglio.