Ultimo giorno

A Fiona non piaceva essere in ritardo, eppure in quel momento si trovava proprio nella peggior situazione immaginabile: sentiva l’acqua alla gola, anzi, aveva la percezione che il liquido stesse già entrando in bocca e scivolando nei polmoni per annegarla. Tutta colpa di quel perdigiorno di Luca che non sapeva far altro se non procrastinare e sperare che tutto andasse per il verso giusto.

Fiona doveva correre, e lei odiava correre. Correre significava sudare, e, non bisognerebbe nemmeno specificarlo, Fiona odiava sudare. Odiava presentarsi trafelata, con il fiatone. Non era professionale, non era nemmeno un bel vedere.

“Solo perché sei fuori allenamento” le diceva Luca con un sorriso smagliante. Fuori allenamento era un eufemismo, dal momento che Fiona odiava praticare qualsiasi tipo di attvità fisica.

E quindi si ritrovò in ufficio dopo aver corso, sudato e con il fiatone. Un sabato non avrebbe potuto andare peggio. Anzi, avrebbe potuto, perché nell’ufficio c’era una coda infinita. Fiona ordiava attendere, soprattutto se era costretta a condividere lo spazio con altriesseri umani. In estate le era persino intollerabile, poiché riusciva sempre a incontrare qualcuno che non conosceva le norme basilari dell’igiene.

Ma Fiona era una persona civile, e ciò che odiava più del prendersi all’ultimo era arrivare in ritardo. Prese il suo numero e attese pazientemente in un angolo. Anche se ci fossero state delle seggiole libere, avrebbe preferito svenire che servirsene. Odiava le sedie scaldate dal corpo altrui.

Infine arrivò il momento di Fiona.

“Buongiorno signora, come la posso aiutare?”

“Devo pagare questa multa”.

“Per fortuna è venuta oggi, è l’ultimo giorno prima che scatti la penale”.

“Non me lo ricordi”.

Fosse stato per Luca, la penale sarebbe stata preferibile a passare una mattinata in coda.

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Il gioco

Negli ultimi tempi c’è qualcosa che manca, l’ingrediente che, come il sale, rende interessante qualsiasi cibo, ne esalta i sapori e i piaceri: il gioco.

Il gioco è una parte fondamentale della vita, troppo spesso relegato all’infanzia. Il divertimento viene spesso ammantato di un significato negativo, di superficialità, soprattutto in alcuni ambienti in cui la risata viene considerata alla stregua di un peccato. E sarebbe proprio in quegli ambiti che una bella risalta sarebbe benefica. Ma spesso gli appartenenti si limitano alla canzonatura disprezzante di chi non appartiene alla propria cerchia, senza capire di essere loro stessi delle grottesche.

Il gioco rende lieve la vita, il gioco illumina anche la giornata più scura perché riesce a colorare le nebbie del cuore. Certo, l’importante è non scivolare nella buffoneria e nel circo.

Negli ultimi mesi è mancata proprio questa componente. Il mondo circostante si è fatto più opaco, come quando all’orizzonte si vedono le nuvole addensarsi. Si è affievolita una scintilla, soffocata da troppe preoccupazioni e da un’attesa che si è protratta da troppo tempo. L’attesa di un cambiamento che si sta facendo strada e che potrebbe allontanare, o per lo meno cambiare, quelle nuvole che si affrettano ad avvicinarsi.

Passeggeri – Pt. 9 L’attesa

Nelle carrozze, nelle stazioni, uno dei passeggeri più comuni è l’attesa. Si tratta di una condizione che accomuna tutti. Si attende alla banchina che arrivi il treno, si attende al proprio posto di arrivare a destinazione. Si attende e si spera che l’attesa non si prolunghi troppo perché da qualche parte c’è qualcuno che aspetta, c’è qualche cosa da fare, una promessa da mantenere.

Sembra che le regole del tempo non valgano una volta partito il treno. Il paesaggio scorre, anche nell’oscurità, schizza via estraneo e ostile, mentre con la mente il passeggero cerca di ricostruire una visione che lo accompagna tutti i giorni. Eppure là fuori sembra tutto così nuovo e così vecchio allo stesso tempo: lo stesso ponte, ma con delle crepe che non erano mai state notate, lo stesso campo, ma con un grano più cresciuto dall’ultima volta che è stato osservato.

Si guarda il mondo scorrere fuori, mentre si è fissi su un sedile, immobili a subire una corsa cui non si può partecipare, in attesa di poter scendere e di imprimere il proprio movimento al mondo circostante. Intanto, però, si attende che qualcosa cambi.

Senza pazienza

Quante volte ci hanno ripetuto di avere pazienza o ci siamo detti di portare pazienza? Non è possibile quantificarne il numero, semplicemente troppe. Bisogna avere pazienza con gli altri, con se stessi, con il mondo intero. Bisogna avere pazienza nell’attesa che una rosa sbocci, che un fiore si apra, che un pezzo di legno metta le radici. Sono i tempi della vita e della morte che richiedono pazienza.

E se di pazienza non ne rimane, si trova sempre qualche scorta in un angolo recondito, perché non si può fare altrimenti. Talvolta il respiro diventa pesante e il cuore batte troppo forte, come se volesse urlare al mondo che c’è un essere umano che vuole essere sentito e ascoltato. E con pazienza si attende che qualcuno si accorga di quel tamburo impazzito.

Il tamburo impazzito segna la marcia impaziente di un folle che non accetta di aspettare e che vorrebbe mettere il prima possibile le sue mani tremanti e la sua mente avida su qualche novità.

Consolazione

È da un po’ che mi sembra di essere in una giostra, anche piuttosto spaventosa. A volte si raggiungono picchi vertiginosi, altre si piomba in basso, rischiando anche di schiantarsi al suolo. Non è un bel segno, lo so bene. Non è nemmeno divertente, almeno per me. Ho come la netta sensazione che alcuni lo trovino soddisfacente, ma faccio finta di non vedere e di non curarmene.

Ci sono stati momenti in cui pensavo che tutto prima o poi si sarebbe sistemato, con un po’ di tenacia e perseveranza si risolve sempre tutto. Ma non è andata in questo modo. Sarà che ho commesso un po’ di errori e che odio i fronzoli che ora vanno tanto di moda.

Ho visto più porte chiuse che spiragli aperti. Ho pure cercato di sfondarne qualcuna. Risultato: lussazione della spalla e una certa rabbia. Sono convinta che prima o poi questa rabbia mi farà esplodere, quindi, se il fato, la fortuna o chi per esso non si decide a darsi una mossa, mi muovo io, sperando che almeno questa funzioni. Il gioco si sta dilungando, e quindi è ora di trovare la risoluzione.

O forse la risoluzione è sempre stata là davanti. E tutte le porte chiuse altro non erano che muri di un corridoio che portavano esattamente in quel punto. Ora basta solo fabbricare la chiave.

In attesa

Aveva aspettato così a lungo che tutto si sistemasse nel proprio posto, in quella casella che era stata destinata a ogni problema. Una lunga attesa punteggiata si sospira, urla e inutili lotte che avevano portato a nulla. A volte gli sembrava di essere una marionetta con dei fili infiniti che si perdevano nell’universo, ma grazie ai quali i suoi arti si muovevano in maniera scomposta per volere di un autore pazzo e per il piacere di un pubblico invisibile.

L’attesa lo aveva logorato. Carlo lo vedeva bene allo specchio: occhi incavati, qualche ruga di troppo e qualche chilo di meno. L’attesa è un assassino cui piace torturare le vittime e destinarle a una fine lenta e dolorosa, senza nessun atto di eroicità.

Non esistevano eroi nel mondo di Carlo, solo esseri che cercavano di galleggiare in quella tempesta che era la vita. Forse per questo il suo aspetto era sempre più simile a quello di un legno che viene scheggiato dalla forza del fiume. Gettato da ogni parte, era rimbalzato su rocce e su rive scoscese per poi arrivare a una sorta di porto.

Più il viaggio è faticoso e più deludente è l’arrivo. Lo sapeva bene Carlo, che tanto aveva combattuto per arrivare a quel punto e che ora vedeva attorno a sé solo la monotonia della vita di tutti i giorni, la stessa monotonia che aveva invocato durante il viaggio.

E quindi rimase in attesa. In attesa che almeno qualcosa trovasse il proprio posto.

In attesa

La preghiamo di rimanere in attesa.

L’umanità della richiesta era pari a quella della voce che la pronunciava: nessuna. Eppure veniva pregato di aspettare altri minuti, con la mente e la testa rintontiti dall’assordante musichetta, impostata probabilmente da qualcuno che peccava in udito.

E sul più bello che la colonna sonora dell’inferno si interrompeva lasciando presupporre che l’attesa non era stata vana, le uniche parole metalliche che venivano ripetute lo pregavano di rimanere in attesa. Ancora in attesa.

In attesa di cosa? Di una risposta, di una soluzione? E mentre se ne stava passivamente in attesa, i minuti passavano. Era da stolti rinunciare all’attesa e continuare la propria vita, o non demordere e sperare di parlare con qualche voce umana.

La preghiamo di rimanere in attesa.

E chi si muove? L’urgenza di parlare era al massimo, la sua pazienza al minimo, come anche il volume del telefono. Il tutto nell’inutile tentativo di rendere più tollerabile quel limbo.

O forse non era il limbo, era un girone vero e proprio, il girone di coloro che attendono funestati dalla speranza che qualcosa cambierà pur nell’attesa, dilaniati da una voce artificiale, sferzati da una cantilena urlata.

Il girone degli immobili.

La preghiamo di rimanere in attesa.

Magari ci sarebbe andato, ma più tardi. Per ora, decise di riattaccare.

Attesa e rabbia

L’attesa è una sospensione generata da una promessa. La promessa è un’illusione che spesso affonda nel mare della vita e raramente raggiunge un qualche porto. L’attesa genera aspettative, le aspettative creano speranze, e le speranze disattese sfociano in un oceano di rabbia.

La rabbia non è mai la risposta ad alcun problema. La rabbia è il veleno che viene sputato in ogni direzione, e che crea altrettante ondate venefiche dalla forza corrosiva. Incanalare la rabbia per trasformarla in qualcosa di produttivo dovrebbe essere la risposta, ma non sembra essere così semplice.

Come si può domare Lissa, figlia della notte e del sangue di Urano? Neppure Eracle ha saputo resisterle e accecato ha compiuto la strage di ciò che più amava, moglie e figli. È una furia che non si ferma davanti a nulla, scaltra e veloce. È così facile per Lissa prendere dimora nel cuore degli uomini, già dilaniato da attese che sembrano non avere fine.

Il trapasso

Homer Wells, ascoltando Big Dot Taft, si sentiva simile alla sua voce: intontito. Wally era via, Candy era via, e l’anatomia del coniglio non era, dopo Clara, impegnativa; i migranti, da lui tanto attesi, erano semplicemente gente che lavora sodo; la vita era solo fatica. Lui era cresciuto senza accorgersi del trapasso, dunque? Non c’era nulla di notevole, in tale trapasso?

Da Le regole della casa del sidro, John Irving

Arriverà, arriverà, vedrai che arriverà

Photo by Brett Sayles on Pexels.com

Erano ormai giorni che il sole non faceva capolino dalla coltre scura di nubi. Erano passati così tanti giorni che ormai si stava parlando di settimane. I saggi, coloro che sapevano e che avevano imparato, tuonavano più alti dei borbottii celesti che riempivano l’aria: sostenevano che qualche divinità, o la forza della natura stessa, si stava rivoltando contro quella contrada a causa di un qualche misfatto, di un peccato terribile, che andava espiato il prima possibile. Quale fosse il peccato, però, rimaneva un mistero, come anche le modalità con le quali mondare questa così turpe macchia.

“Tornerà, tornerà, vedrete che tornerà”.

A gracchiare non era stato il solito esperto che sentiva l’impellente necessità di proporre la propria versione dello strano fenomeno di precipitazione. Era un vecchio, piegato su una sedia, che passava la maggior parte del suo tempo a sorridere con aria dolcemente assente mentre guardava di sottecchi l’orizzonte che si affacciava alla sua finestra. Era conosciuto semplicemente come il Vecchio, poiché ormai nessuno si ricordava più quale fosse il suo nome. Nemmeno il Vecchio stesso sarebbe stato in grado di indicare quale fosse stato il suo nome perché erano anni che viveva sospeso tra il mondo dei vivi e quello dei morti senza decidersi di fare il passo risolutivo: la sua mente ricordava tempi remoti e nomi divenuti polvere, il presente non trovava più spazio in quella coscienza, ma il suo corpo sembrava essere saldamente ancorato al mondo terreno.

“Chi tornerà?”

La cura del Vecchio era affidata a un ragazzino di una povera famiglia. Non doveva fare molto: solo assicurarsi che mangiasse qualcosa e che la casupola rimanesse in ordine. Inoltre lo accompagnava a dormire ogni sera e lo aiutava a raggiungere la sua sedia ogni mattina. Spesso sentiva borbottare il Vecchio: per il giovane erano parole senza senso anche quando un senso, in realtà, c’era. Raccontava di storie lontane, di persone che il giovane non conosceva, di battaglie e di sconfitte.

“Eh, eh, chi vuoi che torni dopo la pioggia?”

Il giovane non diede tropo ascolto a quelle parole. Magari nella gioventù del vecchio dopo la pioggia si affacciava alla porta l’amata o qualche amico. Per il giovane quella pioggia era maledetta, nulla su cui ridere come faceva il Vecchio. Il terreno si era rammollito troppo, impossibile lavorare i campi. Sarebbe stato un altro anno di magra per la sua famiglia. Un altro anno di fame.

“Chi vuoi che arrivi dopo la pioggia? Al massimo la fame! Ora devo andare. A stasera”.

“Arriverà, arriverà, vedrai che arriverà”.

Aiutare il Vecchio non dispiaceva al ragazzo, forse perché gli permetteva di allontanarsi dalla sua famiglia per un po’, allontanarsi da quelle facce stanche e deluse, invecchiate prima del tempo. Anche al giovane sarebbe toccato un destino simile, lo sapeva bene. Avrebbe dovuto piegare la schiena, esporla al sole e lavorare sodo per rimanere comunque in uno stato di povertà. O almeno quello era il suo destino primo che le piogge incessanti avessero trasformato il suo mondo in melma. Almeno il Vecchio con le sue farneticazioni riusciva a trasportarlo in un mondo in cui il sole ancora splendeva e illuminava strani personaggi che sembravano sapere esattamente cosa fare per ottenere un riscatto.

E chi mai sarebbe dovuto tornare dopo la pioggia? Forse anche il Vecchio voleva rivedere il sole: sarebbe stato ben triste spegnersi senza aver rivisto l’oro impalpabile del cielo.

Poi un giorno smise di piovere. Senza necessità di espiare nessuna colpa. Senza compiere sacrifici o sacrificare un colpevole. E arrivò. Esattamente come aveva predetto il vecchio arrivò. L’arcobaleno.

“Hai visto? È arrivato, vero?”

“Sì, Vecchio è arrivato”.

“Allora è tempo che io vada”.