Forza

E quindi affrontiamo questa settimana con leggerezza. Anche se di leggero non c’è proprio molto. In primo luogo perché tempo di andare nella tana del lupo, ma in suddetta tana c’è una persona cui voglio bene, quindi mi porterò un po’ di cibo per tenere a bada il lupo. E poi perché raggiungere la tana richiede uno sforzo non indifferente, e io sono diventata insofferente ai viaggi eccessivamente lunghi verso mete non molto interessanti.

Non rimane che cercare i famosi lati positivi, esercizio in cui non sono mai stata particolarmente brillante. Per quanto non vada di moda, la mia mente sembra essere predisposta a individuare prima i lati più seccanti di una vicenda, tralasciando quelli piacevoli. Vediamo un po’ se questa volta il tentativo funziona meglio e risco a non uscirne stremata e morsicata. Sempre dal lupo di cui sopra, ovviamente.

Che poi chiamarlo lupo è fin troppo lusinghiero, visto che non ne condivide né la bellezza né l’eleganza. Penso di inserire questo pensiero nella scatola di sopravvivenza che porterò con me. Non proprio positivo, ma almeno divertente: è sempre un progresso.

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Senza pazienza

Quante volte ci hanno ripetuto di avere pazienza o ci siamo detti di portare pazienza? Non è possibile quantificarne il numero, semplicemente troppe. Bisogna avere pazienza con gli altri, con se stessi, con il mondo intero. Bisogna avere pazienza nell’attesa che una rosa sbocci, che un fiore si apra, che un pezzo di legno metta le radici. Sono i tempi della vita e della morte che richiedono pazienza.

E se di pazienza non ne rimane, si trova sempre qualche scorta in un angolo recondito, perché non si può fare altrimenti. Talvolta il respiro diventa pesante e il cuore batte troppo forte, come se volesse urlare al mondo che c’è un essere umano che vuole essere sentito e ascoltato. E con pazienza si attende che qualcuno si accorga di quel tamburo impazzito.

Il tamburo impazzito segna la marcia impaziente di un folle che non accetta di aspettare e che vorrebbe mettere il prima possibile le sue mani tremanti e la sua mente avida su qualche novità.

Astolfo non vuole tornare – Pt 11

Dei e regni sarebbero caduti nell’oblio condividendo il fato di manufatti e azioni umane. L’uomo sembra contagioso con la sua mortalità e la dimenticanza. Astolfo se ne andava per la luna pensando a quanto fosse labile la mente umana, mentre re Carlo si perdeva per il bosco pensando a quanto fossero sfortunati i propri soldati. Alcuni impazzivano, altri scomparivano, o soffrivano nell’amare un nemico, o perivano sul corpo di un compagno morto. Qualcuno si trasformava persino in cavernicolo e tentava di trascinare qualche bella giovane in una caverna. Quella guerra era proprio strana: i paladini si allontanavano dal campo di battaglia di continuo e belle fanciulle si aggiravano tra i cavalieri come se stessero assistendo a una parata militare. Re Carlo inziava a perdere la pazienza.

Mentre il re si innervosiva, Astolfo giunse in riva a un largo fiume, che aveva l’aria di essere anche molto profondo. Questo corso sembrava a sua volta generato da una cascata che si perdeva nell’immensità dell’universo. Ad Astolfo non venne nemmeno in mente che potesse contenere acqua questa strana visione: era ormai consapevole delle strane regole che vigevano sulla luna, o della loro assenza. Inoltre, non c’era rumore d’acqua scrosciante, ma una sorte di sbuffo ininterrotto e amplificato che proveniva dal fiume. A vederlo da vicino, sembrava costituito da figure umane molto allungate e assottigliate tanto da cancellare quasi del tutto le fattezze. Una assomiglava, però, proprio a re Carlo, con tanto di corona.

“Voce senza nome, che cosa sono queste?” urlò Astolfo al vuoto.

“Per una volta mi chiami tu in persona, strano. Comunque sono le pazienze. Hai presente quando ti lamenti di aver perso la pazienza? Ecco, in quel frangente la tua pazienza si trova qua sulla luna, precipita dalla grande cascata e scorre via, fino al lago senza fondo, che si trova sul lato oscuro della luna. Io non vado mai da quelle parti, per timore di perdermi del tutto”.

Astolfo sembrava essere molto divertito. Anche gli uomini più pazienti raggiungono il loro culmine, per poi sbottare stizziti contro la causa del disturbo.

“Ma la pazienza torna” osservò Astolfo.

“Certo” rispose la voce “la pazienza torna, il tempo perso a sbuffare no”.

Il sorriso sul volto di Astolfo si allargò: quella voce cominciava a stargli simpatica.

Se ne vale la pena

Photo by Jacob Colvin on Pexels.com

Ogni ponte ha una sua portata massima, superare quel limite comporterebbe danni strutturali, pericolo di crollo o la rottura stessa del ponte. È una legge evidente e facile da capire: ogni oggetto, ogni essere vivente ha una capacità di sopportazione che, per quanto vasta, potrebbe raggiungere la fine. Arrivare ad avvistare quell’orizzonte porta sempre un enorme carico di stanchezza, paura e smarrimento. Nessuno dovrebbe mai mettere alla prova la flessibilità di una linea che demarca la salvezza dalla rovina.

In un ponte capire dove tracciare questa linea è piuttosto semplice: si calcolano le forze, si tiene conto dei materiali utilizzati e si prevede il peso che dovrebbe sopportare. In una creatura fatta di carne e ossa questo limite è molto meno netta, cambia in continuazione, si deforma allargandosi e stringendosi come una corona per un re divenuto stanco. Il confine diventa un continuo mutare, assume l’aspetto di un’onda che lambisce la spiaggia tracciando sottili disegni sempre diversi fra di loro.

Che cosa fare se questo confine si avvicina? Se la misura viene colmata?

Forse trovare un altro recipiente sarebbe la soluzione più semplice, come costruire un ponte alternativo. Basta averne le forze e le competenze. Il problema è valutare se ne vale la pena. Ogni ponte si è rivelato fallace, più simile a una trappola di corde sospese nel nulla, pronta a cedere al minimo sbaglio. Ogni vaso si è rotto prima ancora di raggiugere il suo limite. Sembra di lottare con mulini a vento che esistono solo davanti agli occhi di chi si agita, di chi cerca con affanno i mattoni per poter innalzare qualcosa di solido.

L’affanno aumenta. È il terrore di non trovare un ponte abbastanza solido su cui valga la pena camminare. E che alla fine non risulti essere un semplice molo.

Scivolare via

Dicono di farsi scivolare addosso le avversità, di non lasciarsi scalfire, di sopportare e tirare avanti. Sembrano frasi banali, scontate, ripetute mille voci che riecheggiano come un’eco. Tanto scontate quanto impossibili da realizzare.

Impossibile mantenere un totale distacco. Ciò che scorre lascia un segno, logora, consuma. L’acqua di un semplice torrente scava immensi letti, le montagne vengono ridotte a sabbia, i ponti consumati, le pietre smussate. Mille piccole unghie si aggrappano alla corazza, incidendola e lasciandovi piccoli segni indelebili. Giorno dopo giorno assottigliano l’involucro e creano una ragnatela sempre più profonda fino a scoprire la debole carne.

Il peso delle difficoltà non è da meno. Il peso schiaccia senza pietà. Anche Atlante dovette ricorrere alla furbizia per trovare sollievo dal suo fardello. Sopportare a lungo é un’impresa impossibile. Sempre più piegati, con i tendini al limite che premono sulla morbida pelle, le vertebre provate e deformate, il sudore copioso che fiacca ancora di più il fisico. Fino al crollo doloroso.

La resistenza è ardua, l’atarassia una chimera di perfezione.

Porta pazienza e fai scorrere via, mi dicono. Sopporta, tira avanti come un bravo mulo, mi ripetono. Fai scorrere, sopporta, tira vanti. Pazienza, pazienza. Sopporta, fai scorrere, vai avanti. Testa bassa, sopporta, fai scorrere…

E io mi sento sempre più sottile, più piccola, più scalfita, più schiacciata.

Fai scorrere, pazienza, sopporta, vai avanti…