Astolfo non vuole tornare – Pt 14. FINE

“Astolfo non vuole tornare” concluse Carlo amareggiato. E se fosse stato Astolfo non sarebbe tornato.

“Astolfo deve tornare” pensò Orlando prima di ripiombare nella sua furia distruttrice.

“Astolfo sta tornando” sospirò Isabelle vagando tra bambole di pezza di una luna ormai deserta.

“Astolfo è tornato” borbottò Astolfo scendendo dal carro trainato dal fidato Ippogrifo. In tasca teneva una bottigleitta che recava il nome di Orlando, vicino al cuore la bambola di pezza dai capelli rossi. Quella bambola aveva un nome, se lo era ricordato solo una volta varcata l’atmosfera della terra: Isabelle la ragazza dai capelli rossi, la sua amica e compagn, scomparsa prima in un fiume e poi nei vortici della sua memoria.

Non andò da re Carlo, non gli avrebbe mai creduto. Si perse prima nel bosco alla ricerca di Orlando o forse nella speranza di tornare sulla luna a riscattare la sua Isabelle. Dopo un breve girovagare trovò il compagno con gli occhi folli, ma più luminosi di Venere. Non era armato, le mani erano sporche del suo stesso sangue e i capelli in disordine sembravano nidi di uccelli. Gli fece bere la bottiglia, ma non fino alla fine: troppa saggezza fa male.

Con Orlando tornò al campo e si chinò davanti a re Carlo.

“Orlando, era ora che tornassi da noi. E anche tu, Astolfo. Dove eri finito? Sei andato sulla luna?”

“L’uomo non può andare sulla luna, mio signore. Ma ho riportato un paladino rinsavito e un consigliere pentito”.

Astolfo non venne punito, Orlando riprese le sue eroiche gesta senza soffermarsi troppo sulla sua poca eroica pazzia. Tutto tornò alla normalità. Anche sulla luna, Isabelle trovò pace, e prese dimora nel cuore palpitante di Astolfo.

FINE

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Astolfo non vuole tornare – Pt 13

Perché tornare in un mondo senza memoria? E perché affannarsi in una guerra senza senso? Astolfo e Carlo si facevano domande senza una risposta, il cavaliere e il re indugiavano nella ricerca di una soluzione che non causasse la loro rovina. Astolfo non stava male sulla luna: non gli era mai piaciuto il mondo terreno e ignorante. Quel titolo di saggio gli pesava più di un macigno, soprattutto ora, soprattutto da quando era scappato dalla battaglia. Per Carlo era la corona a pesare: aveva causato morti, aveva portato la distruzione, e vedeva i suoi paladini inseguire chimere di amori. La sua chimera era ben più grande, e si chiamava eternità.

C’era una leggenda secondo la quale sulla luna venivano custoditi tutto ciò che gli uomini perdevano. C’erano storie di cavalli alati capaci di raggiungere l’Olimpo. C’erano voci di profeti su carri di fuoco. Ma re Carlo non aveva mai visto nulla di ciò. Il suo cuore bramava l’esistenza di queste magie, ma la sua mente lo metteva a tacere: era un uomo, e del mondo caduco si doveva occupare, le storie erano materia dei bambini.

Era un uomo, in carne e ossa, ancora nei pensieri di molti, Astolfo lo sapeva: doveva tornare. Lo capiva guardando l’ippogrifo che scalpitava nel tentativo di trovare qualche filo d’erba su quella distesa di brullo ferro.

“Prima o poi altri uomini metteranno piede sulla luna” disse la voce.

“Alla ricerca del senno di un qualche eroe?”

“No, alla ricerca di conoscenza, o forse per una semplice gara. Voi uomini siete strani. Ma non troveranno nulla di ciò: vi dimenticherete anche come si fa a sognare”.

Astolfo cercò con lo sguardo: “Si può sapere chi sei? Ti ho già conosciuta, vero? Quando ero bambino, quando ero un innocente”.

“Astolfo, non ti crucciare e aiuta il tuo amico Orlando. Il re ha bisogno di voi, e non solo lui. L’ora è giunta, devi andare”.

Astolfo non vuole tornare – Pt 12

Il tempo perduto non trova spazio neppure sulla luna, o quel piccolo sasso sospeso nell’universo dovrebbe raggiugere le dimensione dell’universo stesso. Un bel problema, soprattutto per la terra che ne risulterebbe schiacciata.

Per cui niente tempo perduto sulla luna. Ma i detriti che il tempo lasciava alle sue spalle occupavano una importante valle, tutta colma di oggetti di vari dimensioni. La parte che Astolfo visitò apparteneva al settore Bambini. Vi erano riversati centinaia, migliaia di giocattoli e pupazzi appartenenti a varie epoche e a parti del mondo che non avevano fatto la reciproca conoscenza.

Astolfo si perse in quel dedalo di vie che gli ricordava il labirinto della foresta in cui tante volte aveva perso la strads. Una leggera nostalgia affondò gli artigli nel suo cuore, ma Astolfo non avrebbe saputo dire se fosse per il ricordo della sua terra o se fosse per la desolazione di quell’angolo di luna.

Astolfo si ricordava di essere stato bambino, ma ormai gli pareva di aver vissuto troppe vite, di aver visto troppo sangue per poter trarre piacere da quei ricordi. Giocava con i fratelli con spade immaginarie, rideva come mai avrebbe fatto: nessuno vuole un saggio che ride come un bambino.

“Peccato, mi è sempre piaciuta la tua ironia” notò la voce.

“E tu cosa ne sai della mia ironia?” commentò Astolfo rigirando con delicatezza tra le mani una rozza bambola di stoffa dai capelli rossi. Gli ricordava vagamente di una bambina, ma venne distratto da un movimento che intercettò con la coda dell’occhio.

“Ti ho visto, fatti vedere!” urlò il guerriero mentre rimetteva a posto il giocattolo.

“No Astolfo, non potrei mai”. La voce era un po’ più lontana del solito.

Il cavaliere cercò la via di uscita, ma l’avanzata era rallentata da cavalli di legno, piccoli strumenti che producevano un dolce tintinnio, maschere multicolori, trottole e palle di straccia. Per quanto provasse a liberarsene, sembrava che quell’impero di ricordo gli stesse franando addosso.

Astolfo non vuole tornare – Pt 11

Dei e regni sarebbero caduti nell’oblio condividendo il fato di manufatti e azioni umane. L’uomo sembra contagioso con la sua mortalità e la dimenticanza. Astolfo se ne andava per la luna pensando a quanto fosse labile la mente umana, mentre re Carlo si perdeva per il bosco pensando a quanto fossero sfortunati i propri soldati. Alcuni impazzivano, altri scomparivano, o soffrivano nell’amare un nemico, o perivano sul corpo di un compagno morto. Qualcuno si trasformava persino in cavernicolo e tentava di trascinare qualche bella giovane in una caverna. Quella guerra era proprio strana: i paladini si allontanavano dal campo di battaglia di continuo e belle fanciulle si aggiravano tra i cavalieri come se stessero assistendo a una parata militare. Re Carlo inziava a perdere la pazienza.

Mentre il re si innervosiva, Astolfo giunse in riva a un largo fiume, che aveva l’aria di essere anche molto profondo. Questo corso sembrava a sua volta generato da una cascata che si perdeva nell’immensità dell’universo. Ad Astolfo non venne nemmeno in mente che potesse contenere acqua questa strana visione: era ormai consapevole delle strane regole che vigevano sulla luna, o della loro assenza. Inoltre, non c’era rumore d’acqua scrosciante, ma una sorte di sbuffo ininterrotto e amplificato che proveniva dal fiume. A vederlo da vicino, sembrava costituito da figure umane molto allungate e assottigliate tanto da cancellare quasi del tutto le fattezze. Una assomiglava, però, proprio a re Carlo, con tanto di corona.

“Voce senza nome, che cosa sono queste?” urlò Astolfo al vuoto.

“Per una volta mi chiami tu in persona, strano. Comunque sono le pazienze. Hai presente quando ti lamenti di aver perso la pazienza? Ecco, in quel frangente la tua pazienza si trova qua sulla luna, precipita dalla grande cascata e scorre via, fino al lago senza fondo, che si trova sul lato oscuro della luna. Io non vado mai da quelle parti, per timore di perdermi del tutto”.

Astolfo sembrava essere molto divertito. Anche gli uomini più pazienti raggiungono il loro culmine, per poi sbottare stizziti contro la causa del disturbo.

“Ma la pazienza torna” osservò Astolfo.

“Certo” rispose la voce “la pazienza torna, il tempo perso a sbuffare no”.

Il sorriso sul volto di Astolfo si allargò: quella voce cominciava a stargli simpatica.

Astolfo non vuole tornare – Pt 10

Quella voce rimaneva un grosso mistero, soprattutto dopo aver capito di averla già sentita da qualche parte. Un po’ risentito Astolfo continuò la sua passeggiata per la luna, lasciandosi alle spalle il grande edificio di marmo che gli aveva rapito una parte del suo cuore: avesse avuto le capacità, si sarebbe dimenticato della terra, per dedicarsi alle conoscenze di tempi andati.

Se re Carlo avesse saputo delle intenzioni di Astolfo, si sarebbe attrezzato con un qualche ippogrifo per andare a prelevare il suo paladino direttamente sulla luna. Non è un caso se parte del senno del sire fosse custodita in una grossa bottiglia sulla luna. Ma re Carlo non lo sapeva, e attendeva sempre meno paziente. Aveva anche saputo di un castello parlante in cui venivano rapiti i cavalieri. Pensò che quella foresta, oltre a essere un labirinto, fosse anche maledetta: mai fidarsi di voci non riconducibili a un qualche corpo.

Sulla luna non esisteva la notte, ma Astolfo non si sentiva stanco, come se il suo corpo fosse sospeso in una dimensione diversa. Per questo decise di inerpicarsi su una montagnola, per poter avere una visione più chiara di ciò che avrebbe trovato sulla luna.

Ma quella collina non era un posto qualunque. Astolfo dovette farsi strada tra una selva di colonne, capitelli, edifici immensi di cui rimanevano solo gli scheletri. Gli ricordava un immenso torace di una carcassa trascinata dalle acque: si trattava di un animale che avrebbe potuto ingoiare l’intero palazzo del re. Alle colonne seguirono le statue, molte delle quali erano mutilate, prive di qualche arto, o della testa. Alcune sembravano vittime del semplice tempo, altre della furia umana.

Più avanzava e più le statue sbiadivano, fino a divenire spiriti muti, dagli occhi vacui che puntavano verso il nulla. Emanavano un singolare senso di venerabilità e serietà, ma allo stesso tempo di decadenza e di tristezza.

“Sono gli dei del passato, numi dimenticati che hanno perso il loro potere. Voi umani li avete defraudati di ogni grandezza. A tanto potete arrivare”. Spiegò la voce.

Astolfo si chiese se le sue mani si fossero tinte di rosso per colpa di una divinità destinata a diventare fantasma.

Astolfo non vuole tornare – Pt 9

C’era una cosa che a re Carlo mancava in tutta quella vicenda: era il suo palazzo dalle vaste sale, con scribi e saggi dalle mani sempre sporche d’inchiostro. Non che fosse un grande studioso, il re, per niente, ma gli piaceva trovarsi fianco a fianco con queste brillanti menti piene di conoscenze antiche. Sapeva che in qualche monastero esistevano uomini che dedicavano il proprio tempo a copiare opere di persone diventate cenere, per evitare l’oblio di centinaia di volumi. Insomma, a re Carlo mancava la tranquillità. Sembrava quasi che fosse stanco di quella guerra, ma nessuno dei suoi uomini o dei nemici lo avrebbe mai saputo.

Mentre re Carlo si perdeva nei corridoi del suo palazzo fatto di memoria, Astolfo si perdeva del meandro di quella cattedrale di conoscenze inutili in quanto perdute. Pochi erano i volumi, i libri fatti di pagine di pergamena che talvolta aveva tenuto fra le mani. La maggior parte di quel sapere era racchiuso in rotoli, alcuni lunghi, altri più brevi, in tavolette o anche su pezzi di cuoio o pietre.

Srotolò il primo rotolo che gli capitò: era pieno di immagini incolonnate, uomini, simboli, animali si susseguivano fitti, senza che Astolfo potesse comprendere di che cosa narrasse. Aveva solo la sensazione di trovarsi in un altro polveroso tempo, al caldo, con profumi del tutto sconosciuti. Altri rotoli erano più familiari, con piccoli simboli alfabetici, talvolta anche con lettere a lui note, ma non aveva idea di che storie stessero narrando C’erano poi tavolette con degli strani cunei, incisioni su roccia, stoffe annodate, persino lastre d’oro incise fittamente. Tutti questi oggetti urlavano il loro sapere, ma il vuoto della dimenticanza impediva a quel suono di propagarsi.

Sentendosi un po’ stanco, Astolfo uscì dall’edificio. Quel silenzio gli ricordava un sepolcro pronto ad accoglierlo.

“Qui tutto è morto, anche se ognuno di questi oggetti desidera così ardentemente tornare sulla terra, da rifiutarsi di scomparire. Per questo è nato questo posto. E tu, sei qui, ma ancora la terra ti reclama, Astolfo. Cosa stai facendo?” intervenne la voce misteriosa.

“Domanda lecita. Almeno dimmi perché conosci il mio nome”.

“Te lo sei già dimenticato una volta, non farmi cadere ancora nell’oblio”. E la voce tacque.

Astolfo non vuole tornare – Pt 8

Non, non avete capito male. Il lago chiaccherava, e non smetteva un momento di parlare, parlare, parlare. Solo che Astolfo non se ne era reso conto perché era troppo concentrato sui suoi pensieri per capire che le voci provenivano dall’acqua.

Astolfo si inginocchiò per sentire che cosa dicessero e se effettivamente fosse acqua quella che vedeva. Al tatto si rivelò essere una sostanza ad Astolfo del tutto sconosciuta, fluida come un liquido, ma che non lasciava tracce umide sulle dita. Inoltre, anche avvicinandosi, non riusciva a comprendere nemmeno una parola di ciò che veniva detto, ma qualche frammento gli risultava vagamente familiare.

Era del tutto normale che il cavaliere non capisse nulla: in quel lago fluttuavano tutte le lingue del mondo, che non venivano più utilizzate e che erano cadute nella dimenticanza. Magari in un futuro qualche sventurato avrebbe cercato di resuscitarle, ma, almeno per ora, se ne stavano lì, assieme alle parole arcaiche di lingue ancora in uso. Era un buffo modo per passare i secoli: cercare di comunicare con una miriade di presenze che parlano una lingua conosciuta ai defunti.

L’attenzione di Astolfo venne catturata dal riflesso di un’enorme costruzione di marmo bianco. Alzò lo sguardo e vide che si trattava di una sorta di tempio.

“Sapevo che lo avresti trovato interessante, saggio Astolfo”, disse la voce della donna invisibile.

“Di cosa si tratta?”

“Di una biblioteca, che contiene tutto il sapere umano andato perduto”.

“Abbiamo smarrito così tanto?”

“E tanto ancora smarrirete”.

Astolfo non vuole tornare – Pt 7

Seguire una voce che sembrava tangibile, ma che non apparteneva a nessun corpo sembrava pura follia ad Astolfo che, seduto in riva a un laghetto, si chiedeva se qualche porzione del suo senno fosse già scivolata nel mucchio di bottiglie che aveva incontrato all’inizio. Di una cosa, però, era certo: non voleva ancora tornare sulla terra, con tutti i suoi misteri e segreti, con i litigi e le urla. Non era ancora pronto.

Mentre Astolfo se ne stava in contemplazione di un lago un po’ strano, Orlando gettava massi in una risorgiva terreste. Non capiva molto il senso di quello che stava facendo, ma sembrava calmarsi solo in questo modo. Angelica era ben lontana, non sapeva che il paladino dei cristiani era stato avvelenato dal suo stesso amore. Angelica guardava il cielo e immaginava che lassù, da qualche parte, magari sulla luna, un gurdiano dell’universo stesse lavorando intensamente affinché tutte le esistenze potessero volgere al loro scopo. Sperò ardentemente che quell’entità non si dimenticasse di lei.

Mentre Angelica si perdeva tra le stelle, un semplice fante saraceno, Medoro, la guarda con adorazione. I due giovani avrebbero voluto imprimere i propri nomi sulle stelle stesse, ma Medoro ha ancora impresso negli occhi quelli spenti e vacui dell’amico morto per un’impresa che non voleva nemmeno compiere. Medoro non lo avrebbe mai dimenticato.

Mentre Medoro e Angelica cercavano di dimenticare la morte con l’amore, re Carlo si chiese per l’ennesima volta dove diavolo fosse finito il suo fidato Astolfo: si era forse aperta la terra per farlo sprofondare negli inferi?

“Astolfo” intervenne la donna invisibile “Qui sulla luna nulla ha un senso. L’ordine che segue è l’inverso di quello terreno. Perché ti stai attardando? Anche tu vuoi far parte dell’oblio? Se rimani è questo il tuo destino”.

“Voglio sapere chi tu sia. Voglio sapere che cosa ha dimenticato l’umanità”.

“Se ti dicessi chi io sia, ti ricorderesti di me, e io scomparirei da questo mondo lunare”

E ridendo, la voce si allontanò, lasciando Astolfo da solo con i suoi pensieri e con un lago che non smetteva di chiaccherare.

Astolfo non vuole tornare – Pt 6

Se Rodomonte temeva di non sopravvivere ai secoli, re Carlo era di ben altro avviso: era certo che il suo nome non sarebbe passato innosservato non solo negli anni, ma persino nei secoli a venire. Non che avesse tutti i torti, certo, ma se in quel momento si fosse trovato assieme ad Astolfo sulla luna, avrebbe cambiato ben presto la sua idea.

Con il consueto rumore metallico, Astolfo aveva abbandonato il cratere di Rodomonte, per innoltrarsi in un’altra zona della luna. Quello che vide era di certo indementicabile. Si tratta di una distesa immensa, i proporzione alla superficie lunare, di edifici dall’aria vissuta, ma imponente, statue, palazzi, marmi e statue di metallo, persino d’oro. Anche qui Astolfo incontrò delle anime, ancora più trasparenti e intangibili di quelle del vecchio.

“Il mio regno, il mio regno sopravviverà i secoli, sopravviverà me”.

L’ombra era di certo imponente, ma vacua e con una corona che stava leggermente storta sul capo.

“Il mio regno conquisterà il mondo” aggiunse un altro spirito.

Ma dietro di loro c’era solo rovina e polvere, che ricordavano una grandezza, ormai perduta, però, nelle pieghe del tempo.

“Chi lo avrebbe detto? Anche gli imperi verranno dimenticati, si sbricioleranno. Vale la pena perderci la vita, Astolfo?”

Era ancora la voce corporea.

“Chi sei? Fatti vedere!”

Nessuno si fece vedere, ma si chiese se, un giorno, anche re Carlo e il suo impero sarebbero mai saliti sulla luna.

Astolfo non vuole tornare – Pt 5

Gli abitanti della terra sono gente molto distratta: per Astolfo era una verità evidente, piché si stava aggirando tra cumuli di oggetti persi o caduti in oblio, ma lo era anche per quelle formichine che si affannavano a trovare una soluzione a quella guerra. E mentre lui si affrettava a esplorare spazi dimenticati inseguendo una voce corporea senza corpo, sulla terra tutto proseguiva senza senso, come al solito.

Nel campo pagano si poteva vedere il possente Rodomonte in una posizione assai preoccupante: era solito andarsene per il campo, facendo tremare il suolo con i suoi immensi piedi mentre urlava qualche facezia o narrava una sua impresa. Invece, in quel momento, se ne stava seduto, quasi rannicchiato, con il capo appoggiato pesantemente sull’enorme pugno chiuso. Strano a dirsi, ma Rodomonte stava pensando. Per l’esattezza stava pensando alla sua epica impresa: era riuscito a saltare con un sol balzo le mura impenetrabili della dolce Parigi, e, piombando a terra, aveva distrutto quasi la metà della città. Un disastro, per i poveri cittadine, un’azione al limite del comico per i suoi comilitoni, un atto eroico agli occhi di Rodomonte. Eppure era angustiato dal fatto che nessuno, ma proprio nessuno, ne parlasse. Quegli stolti se ne stavano lì a discutere di amori, passioni, dei figlioletti che stavano aspettando in patria, di una bella guerriera intravvista da qualche parte, persino di un matto che era salito su un carro trainato da una bestia strana, ma di Parigi nemmeno una sillaba. Che fosse destinato all’oblio pure lui?

In effetti tutti si erano dimenticati dell’impresa di Rodomonte: si sa, la guerra ha la memoria corta, dopo una strage ne segue un’altra, a sangue si aggiunge sangue e nulla di eroico rimane se non nelle parole di chi vorrebbe vedere della poesia nella violenza. Il salto di Rodomonte aveva lasciato un’impronta molto profonda sul cratere lunare, e Astolfo lo stava guardando con molta attenzione.

Il cratere che stava analizando aveva una forma singolare, come se ricalcasse l’orma di due enormi stivali. Astolfo non ricollegò immediatamente quella vista all’impresa dell’energumeno nemico; lo aiutò un vecchietto mezzo trasparente, che continuava a lamentarsi.

“Mon dieu, mi hanno proprio dimenticato. Tutti sono fuggiti, e io qui, senza figli, senza nipoti. E anche vicino alle mure. Mon dieu, la vita non è così bella”.

Astolfo cercò di consolarlo.

“Messere, non si preoccupi, sono qui anch’io, io la potrò ricordare”.

Ma il vecchio continuava al sua litania, come se non sentisse Astolfo: le anime perse non recepiscono nulla dal mondo circostante, si fissano costantemente su un presente che per il resto dell’umanità e divenuto ormai passato.

“Mon dieu, mi hanno proprio dimenticato. Mon dieu, aiutami almeno tu”.

Astolfo notò che nel cratere non c’era solo quel vecchietto che vagava, ma qualche decina di casupole che erano tutte ammaccate. Proprio mentre osservava quello sfacelo, ne comparve all’improvviso un’altra: evidentemente l’inquilino aveva trovato un’altra sistemazione, perdendo memoria della sua precedente sistemazione.

Decisamente la smemoratezza è il difetto maggiore dei terrestri.