Gli abitanti della terra sono gente molto distratta: per Astolfo era una verità evidente, piché si stava aggirando tra cumuli di oggetti persi o caduti in oblio, ma lo era anche per quelle formichine che si affannavano a trovare una soluzione a quella guerra. E mentre lui si affrettava a esplorare spazi dimenticati inseguendo una voce corporea senza corpo, sulla terra tutto proseguiva senza senso, come al solito.
Nel campo pagano si poteva vedere il possente Rodomonte in una posizione assai preoccupante: era solito andarsene per il campo, facendo tremare il suolo con i suoi immensi piedi mentre urlava qualche facezia o narrava una sua impresa. Invece, in quel momento, se ne stava seduto, quasi rannicchiato, con il capo appoggiato pesantemente sull’enorme pugno chiuso. Strano a dirsi, ma Rodomonte stava pensando. Per l’esattezza stava pensando alla sua epica impresa: era riuscito a saltare con un sol balzo le mura impenetrabili della dolce Parigi, e, piombando a terra, aveva distrutto quasi la metà della città. Un disastro, per i poveri cittadine, un’azione al limite del comico per i suoi comilitoni, un atto eroico agli occhi di Rodomonte. Eppure era angustiato dal fatto che nessuno, ma proprio nessuno, ne parlasse. Quegli stolti se ne stavano lì a discutere di amori, passioni, dei figlioletti che stavano aspettando in patria, di una bella guerriera intravvista da qualche parte, persino di un matto che era salito su un carro trainato da una bestia strana, ma di Parigi nemmeno una sillaba. Che fosse destinato all’oblio pure lui?
In effetti tutti si erano dimenticati dell’impresa di Rodomonte: si sa, la guerra ha la memoria corta, dopo una strage ne segue un’altra, a sangue si aggiunge sangue e nulla di eroico rimane se non nelle parole di chi vorrebbe vedere della poesia nella violenza. Il salto di Rodomonte aveva lasciato un’impronta molto profonda sul cratere lunare, e Astolfo lo stava guardando con molta attenzione.
Il cratere che stava analizando aveva una forma singolare, come se ricalcasse l’orma di due enormi stivali. Astolfo non ricollegò immediatamente quella vista all’impresa dell’energumeno nemico; lo aiutò un vecchietto mezzo trasparente, che continuava a lamentarsi.
“Mon dieu, mi hanno proprio dimenticato. Tutti sono fuggiti, e io qui, senza figli, senza nipoti. E anche vicino alle mure. Mon dieu, la vita non è così bella”.
Astolfo cercò di consolarlo.
“Messere, non si preoccupi, sono qui anch’io, io la potrò ricordare”.
Ma il vecchio continuava al sua litania, come se non sentisse Astolfo: le anime perse non recepiscono nulla dal mondo circostante, si fissano costantemente su un presente che per il resto dell’umanità e divenuto ormai passato.
“Mon dieu, mi hanno proprio dimenticato. Mon dieu, aiutami almeno tu”.
Astolfo notò che nel cratere non c’era solo quel vecchietto che vagava, ma qualche decina di casupole che erano tutte ammaccate. Proprio mentre osservava quello sfacelo, ne comparve all’improvviso un’altra: evidentemente l’inquilino aveva trovato un’altra sistemazione, perdendo memoria della sua precedente sistemazione.
Decisamente la smemoratezza è il difetto maggiore dei terrestri.