Da solo – Giorno 12

Penso che mi fermerò per un po’ di giorni nella raduna. Non è solo la sera a rendere questo spiazzo fantastico, ma è la sua natura, l’atmosfera sospesa che vi regna. Anche il canto degli uccelli sembra essere più soave del solito e il fruscio della sorgente sospende lo scorrere del tempo.

A proposito di tempo: questo diario non è proprio inutile, ma mi permette di capire che sono passati ben dodici giorni dall’inizio del mistero. Dodici giorni in cui non ho fatto molti progressi nel capire che cosa sia successo. E forse non me ne importa più di tanto. Dopotutto la vita precedente non era un granché, come avete potuto intuire, e questa sembra essere modellata sulle mie priorità e il mio ideale di vita.

Intanto sembra che la mia memora stia perdendo un po’ di colpi, ma non mi preoccupo, perché non mi sono mai sentito così bene. Però tutto sta diventando offuscato, compreso il mio nome. Ieri sera ho impiegato qualche istante in più per riprenderlo. Andrea. All’inizio del viaggio era come un masso, un faro che segnava il porto, ora sembra solo uno scoglio che ho lasciato alle spalle, una terra che ho già esplorato e che in cui non sento l’urgenza di tornare.

È possibile abbandonare Andrea su uno scoglio e ricominciare in altro modo? A questa idea il petto si fa più leggero e il respiro diventa fresco.

Due parole, però, mi sono balenate davanti agli occhi: Real Game.

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Da solo – Giorno 11

Devo aver preso un bel colpo alla testa se non riesco a ricordare la scritta del posto in cui mi ero fermato. Era davvero enorme, svettava in cima con lettere che sembravano giganti messi in fila. Non era molto lunga, e forse non era solo una parola, ma due. Poi non riesco più a mettere a fuoco nulla. Anche l’interno della struttura rimane un mistero. Meglio lasciar perdere, per ora: sembra che non riesca a ottenere nient’altro se non un gran mal di testa.

Tornando a noi. Il fiumiciattolo sta diventando più sottile e più irruento, buon segno: vuol dire che mi sto avvicinando alla fonte, alla mia meta. Quello di non avere una meta è sempre stato un difetto che Clara mi rinfacciava. Secondo la mia adorata ragazza mi muovevo come un automa, facevo solo il compito che mi veniva affidato, quello che ci si aspettava da me, nulla di più, nessuna ambizione. È probabile che il suo carattere irruente l’abbia spinta a considerare il mio amore per la tranquillità una debolezza di indole. Ma non siamo fatti tutti allo stesso modo, per cui, cara Clara, sarebbe stato meglio dividere le nostre strade prima.

Questo posto mi piace, soprattutto ora che non incontro strani animali parlanti. Quando cercavo di calmarmi raffigurandomi un luogo ideale, mi immaginavo proprio una spiaggia con alle spalle una verdeggiante macchia di alberi. Mi viene persino il dubbio di aver subito un qualche incidente e di essere in bilico sulla voragine della morte. Eppure non sento alcun dolore. Meglio che faccia la mia camminata quotidiana, in modo da rischiararmi la mente e allontanare questi pensieri.

La sera ha sempre qualcosa di speciale, una sorta di magia che porta le tenebre, soprattutto qui, dove nasce il mio liquido compagno di viaggio. È una bella raduna, con al centro una sorta di masso da cui scaturisce una fresca acqua pura, che sembra poter lavar via ogni tristezza e ogni pensiero. Ora basta solo trovare un nuovo obiettivo.

Nel deserto

Quando le stelle non parlano e la terra si ripete sempre uguale a se stessa, perdersi può essere letale. Quel paese così lontano dalla patria non era stato molto benevolo nei confronti dei nuovi arrivati, la fortuna si era distratta, attirata probabilmente dalle imprese di un altro angolo di mondo. Talvolta capita di trovare una fine nell’abbandono e nell’indifferenza.

In quel deserto l’indifferenza era sottile come la sabbia che grattava la gola e arrosava gli occhi, acuta come le grida di uccelli affamati che aspettavano con pazienza la loro ricompensa, assassina come la seta che attanagliava i viaggiatori di una carovana che non sarebbe mai giunta a destinazione. Nessuno li aspettava, e nessuno sarebbe mai andato a cercarli. Ritrovarono i loro resti, poche ossa sparpagliate e sbiancate dal sole, dopo diversi mesi, da degli operai che erano stati incaricati di sondare il terreno per costruire la nuova ferrovia.

Quei miseri resti vennero occultati, senza un nome e senza una storia, e il progresso rappresentato dalla ferrovia ruppe il silenzio che aveva avvolto gli ultimi istanti di una carovana sconfitta dal caldo e dalla siccità.

Si diceva che quella porzione di deserto fosse maledetta. Solo dicerie, ovvio, solo racconti sussurrati attorno al focolare da lavoratori stanchi e assonnati, nulla che il ferro e il sudore non potesse superare. Successero strani incidenti, anomalie che non accaddero in altri tratti. Scomparvero strumenti, un’intera locomotiva venne trovata a miglia dal luogo in cui era stata depositata, c’erano persone voci che qualche operaio fosse scomparso in una nuvola di polvere. Che si trattasse di una ribellione del deserto violato o degli spiriti senza pace dei viaggiatori, non ebbero abbastanza forza da interrompere i lavori.

Mentre osservavano il paesaggio monotono, alcuni viaggiatori annoiati avrebbero potuto giurare di aver visto qualcosa di strano: si trattava di mulinelli di polvere, che vorticavano anche in un’apparente assenza di vento, e che si spingevano fino ai binari. E qualcuno arrivò a dire che dal finestrino aperto si intrufolavano delle voci, appena sussurri, che sembravano lamenti di spiriti, lacrime secche di abbandono. Li chiamarono gli spiriti incandescenti del deserto.

E mentre il treno passava, in una buca poco profonda, ossa confuse venivano scosse da un tremito.

Radici

C’era una stanza abbandonata in un enorme edificio in cui erano stati nascosti oggetti di ogni sorta dimenticati da anni di disattenzioni e di piccole vendette. Foto di persone che vivano solo sulla carta, telefoni che non ricevevano più chiamate, ombrelli, piccoli gioielli. E persino un’armonica, qualche libro, giochi di bambini e lettere che parlavano di amori, di debiti e di ricatti.

L’uomo dimentica tutto, non sempre volontariamente, ma spesso con la consapevolezza che dimenticare permette di respirare. La stanza era semplicemente un deposito di cianfrusaglie che un tempo erano state nelle mani calde di vita. Ora giacevano in un cimitero di ricordi.

In questa desolazione, però, c’era della vita. Nel sostrato di morte e corruzione affondavano delle radici fragili, sottili, nelle quali scorreva prepotente una vita flebile che con grazia e tenacia si inerpicava su cumuli scuri per raggiungere un raggio ramingo di sole.

Senza cappello

Sam era corso fuori da casa senza nemmeno prendere il cappello. È un particolare ben strano, visto che Sam non esce mai senza essere vestito a tutto punto, cappello compreso. Quella volta, però, Sam non aveva avuto il tempo per preoccuparsi, neanche del cappello: si era messo le scarpe frettolosamente e si era fiondato fuori. In effetti non aveva preso nemmeno il cappotto o l’ombrello, ma il cappello era la dimenticanza più evidente.

Così, quando incontrò la signora Dorway, non gli fu possibile salutarla come si conviene, togliendosi il cappello. Ma anche questo importa poco, perché Sam nemmeno vide la signora Dorway e neppure ne sentì il cordiale saluto che questa gli rivolse. Sam continuò a correre, con gli occhi spiritati e il volto pallido.

Alla polizia la moglie di Sam dirà che era da un po’ di giorni che il marito era stanco, ma allo stesso tempo irrequieto, come se avesse sempre un pensiero per la testa.

In effetti a spingere Sam fuori dalla casa senza il cappello era stato proprio un pensiero, che continuava a visitare la mente di Sam per pochi fugaci secondi, per poi scomparire. Un giorno decise dunque di inseguire quel pensiero, che era talmente veloce da impedirgli di prendere il suo indumento preferito.

Trovarono Sam in un campo, a chilometri di distanza. Le sue fughe divennero sempre più frequenti, perché sempre più spesso succedeva che qualche pensiero gli sfuggisse.

Astolfo non vuole tornare – Pt 8

Non, non avete capito male. Il lago chiaccherava, e non smetteva un momento di parlare, parlare, parlare. Solo che Astolfo non se ne era reso conto perché era troppo concentrato sui suoi pensieri per capire che le voci provenivano dall’acqua.

Astolfo si inginocchiò per sentire che cosa dicessero e se effettivamente fosse acqua quella che vedeva. Al tatto si rivelò essere una sostanza ad Astolfo del tutto sconosciuta, fluida come un liquido, ma che non lasciava tracce umide sulle dita. Inoltre, anche avvicinandosi, non riusciva a comprendere nemmeno una parola di ciò che veniva detto, ma qualche frammento gli risultava vagamente familiare.

Era del tutto normale che il cavaliere non capisse nulla: in quel lago fluttuavano tutte le lingue del mondo, che non venivano più utilizzate e che erano cadute nella dimenticanza. Magari in un futuro qualche sventurato avrebbe cercato di resuscitarle, ma, almeno per ora, se ne stavano lì, assieme alle parole arcaiche di lingue ancora in uso. Era un buffo modo per passare i secoli: cercare di comunicare con una miriade di presenze che parlano una lingua conosciuta ai defunti.

L’attenzione di Astolfo venne catturata dal riflesso di un’enorme costruzione di marmo bianco. Alzò lo sguardo e vide che si trattava di una sorta di tempio.

“Sapevo che lo avresti trovato interessante, saggio Astolfo”, disse la voce della donna invisibile.

“Di cosa si tratta?”

“Di una biblioteca, che contiene tutto il sapere umano andato perduto”.

“Abbiamo smarrito così tanto?”

“E tanto ancora smarrirete”.

Astolfo non vuole tornare – Pt 7

Seguire una voce che sembrava tangibile, ma che non apparteneva a nessun corpo sembrava pura follia ad Astolfo che, seduto in riva a un laghetto, si chiedeva se qualche porzione del suo senno fosse già scivolata nel mucchio di bottiglie che aveva incontrato all’inizio. Di una cosa, però, era certo: non voleva ancora tornare sulla terra, con tutti i suoi misteri e segreti, con i litigi e le urla. Non era ancora pronto.

Mentre Astolfo se ne stava in contemplazione di un lago un po’ strano, Orlando gettava massi in una risorgiva terreste. Non capiva molto il senso di quello che stava facendo, ma sembrava calmarsi solo in questo modo. Angelica era ben lontana, non sapeva che il paladino dei cristiani era stato avvelenato dal suo stesso amore. Angelica guardava il cielo e immaginava che lassù, da qualche parte, magari sulla luna, un gurdiano dell’universo stesse lavorando intensamente affinché tutte le esistenze potessero volgere al loro scopo. Sperò ardentemente che quell’entità non si dimenticasse di lei.

Mentre Angelica si perdeva tra le stelle, un semplice fante saraceno, Medoro, la guarda con adorazione. I due giovani avrebbero voluto imprimere i propri nomi sulle stelle stesse, ma Medoro ha ancora impresso negli occhi quelli spenti e vacui dell’amico morto per un’impresa che non voleva nemmeno compiere. Medoro non lo avrebbe mai dimenticato.

Mentre Medoro e Angelica cercavano di dimenticare la morte con l’amore, re Carlo si chiese per l’ennesima volta dove diavolo fosse finito il suo fidato Astolfo: si era forse aperta la terra per farlo sprofondare negli inferi?

“Astolfo” intervenne la donna invisibile “Qui sulla luna nulla ha un senso. L’ordine che segue è l’inverso di quello terreno. Perché ti stai attardando? Anche tu vuoi far parte dell’oblio? Se rimani è questo il tuo destino”.

“Voglio sapere chi tu sia. Voglio sapere che cosa ha dimenticato l’umanità”.

“Se ti dicessi chi io sia, ti ricorderesti di me, e io scomparirei da questo mondo lunare”

E ridendo, la voce si allontanò, lasciando Astolfo da solo con i suoi pensieri e con un lago che non smetteva di chiaccherare.

Astolfo non vuole tornare – Pt 6

Se Rodomonte temeva di non sopravvivere ai secoli, re Carlo era di ben altro avviso: era certo che il suo nome non sarebbe passato innosservato non solo negli anni, ma persino nei secoli a venire. Non che avesse tutti i torti, certo, ma se in quel momento si fosse trovato assieme ad Astolfo sulla luna, avrebbe cambiato ben presto la sua idea.

Con il consueto rumore metallico, Astolfo aveva abbandonato il cratere di Rodomonte, per innoltrarsi in un’altra zona della luna. Quello che vide era di certo indementicabile. Si tratta di una distesa immensa, i proporzione alla superficie lunare, di edifici dall’aria vissuta, ma imponente, statue, palazzi, marmi e statue di metallo, persino d’oro. Anche qui Astolfo incontrò delle anime, ancora più trasparenti e intangibili di quelle del vecchio.

“Il mio regno, il mio regno sopravviverà i secoli, sopravviverà me”.

L’ombra era di certo imponente, ma vacua e con una corona che stava leggermente storta sul capo.

“Il mio regno conquisterà il mondo” aggiunse un altro spirito.

Ma dietro di loro c’era solo rovina e polvere, che ricordavano una grandezza, ormai perduta, però, nelle pieghe del tempo.

“Chi lo avrebbe detto? Anche gli imperi verranno dimenticati, si sbricioleranno. Vale la pena perderci la vita, Astolfo?”

Era ancora la voce corporea.

“Chi sei? Fatti vedere!”

Nessuno si fece vedere, ma si chiese se, un giorno, anche re Carlo e il suo impero sarebbero mai saliti sulla luna.

Astolfo non vuole tornare – Pt 5

Gli abitanti della terra sono gente molto distratta: per Astolfo era una verità evidente, piché si stava aggirando tra cumuli di oggetti persi o caduti in oblio, ma lo era anche per quelle formichine che si affannavano a trovare una soluzione a quella guerra. E mentre lui si affrettava a esplorare spazi dimenticati inseguendo una voce corporea senza corpo, sulla terra tutto proseguiva senza senso, come al solito.

Nel campo pagano si poteva vedere il possente Rodomonte in una posizione assai preoccupante: era solito andarsene per il campo, facendo tremare il suolo con i suoi immensi piedi mentre urlava qualche facezia o narrava una sua impresa. Invece, in quel momento, se ne stava seduto, quasi rannicchiato, con il capo appoggiato pesantemente sull’enorme pugno chiuso. Strano a dirsi, ma Rodomonte stava pensando. Per l’esattezza stava pensando alla sua epica impresa: era riuscito a saltare con un sol balzo le mura impenetrabili della dolce Parigi, e, piombando a terra, aveva distrutto quasi la metà della città. Un disastro, per i poveri cittadine, un’azione al limite del comico per i suoi comilitoni, un atto eroico agli occhi di Rodomonte. Eppure era angustiato dal fatto che nessuno, ma proprio nessuno, ne parlasse. Quegli stolti se ne stavano lì a discutere di amori, passioni, dei figlioletti che stavano aspettando in patria, di una bella guerriera intravvista da qualche parte, persino di un matto che era salito su un carro trainato da una bestia strana, ma di Parigi nemmeno una sillaba. Che fosse destinato all’oblio pure lui?

In effetti tutti si erano dimenticati dell’impresa di Rodomonte: si sa, la guerra ha la memoria corta, dopo una strage ne segue un’altra, a sangue si aggiunge sangue e nulla di eroico rimane se non nelle parole di chi vorrebbe vedere della poesia nella violenza. Il salto di Rodomonte aveva lasciato un’impronta molto profonda sul cratere lunare, e Astolfo lo stava guardando con molta attenzione.

Il cratere che stava analizando aveva una forma singolare, come se ricalcasse l’orma di due enormi stivali. Astolfo non ricollegò immediatamente quella vista all’impresa dell’energumeno nemico; lo aiutò un vecchietto mezzo trasparente, che continuava a lamentarsi.

“Mon dieu, mi hanno proprio dimenticato. Tutti sono fuggiti, e io qui, senza figli, senza nipoti. E anche vicino alle mure. Mon dieu, la vita non è così bella”.

Astolfo cercò di consolarlo.

“Messere, non si preoccupi, sono qui anch’io, io la potrò ricordare”.

Ma il vecchio continuava al sua litania, come se non sentisse Astolfo: le anime perse non recepiscono nulla dal mondo circostante, si fissano costantemente su un presente che per il resto dell’umanità e divenuto ormai passato.

“Mon dieu, mi hanno proprio dimenticato. Mon dieu, aiutami almeno tu”.

Astolfo notò che nel cratere non c’era solo quel vecchietto che vagava, ma qualche decina di casupole che erano tutte ammaccate. Proprio mentre osservava quello sfacelo, ne comparve all’improvviso un’altra: evidentemente l’inquilino aveva trovato un’altra sistemazione, perdendo memoria della sua precedente sistemazione.

Decisamente la smemoratezza è il difetto maggiore dei terrestri.