Conosco l’immortalità. Ho cantato l’immortalità, e forse ne ho definito i caratteri. Ho dato voce agli dei, e ho reso grandi uomini che sarebbero rientrati nella pletora senza nome dei guerrieri. Amato dagli dei, odiato dalle proprie creature. Forse è questa la maledizione dei poeti, essere odiati dalle proprie creature. Chi ha troppo viaggiato e chi ha troppo combattuto, chi avrebbe voluto tranquillità e chi una vita più lungo. Ma le storie sono sofferenze, con qualche sospiro di sollievo, e a questo ho dato voce. Mi allontano, ma lo sanno bene: senza di me sarebbero solo anime senza voce.
“La voce è il dono più grande, non è forse vero? Almeno lo era per me. Non lo capiscono quei nerboruti laggiù. Omero, hai sentito Euridice? Sai dove sia?”
“Orfeo, Euridice non può varcare i confini dei Campi Elisi. Era una semplice donna, amata da un uomo fuori dal normale, quasi divino. La tua voce ha aperto gli inferi, ma la tua curiosità l’ha rigettata nell’oscurità della dimenticanza”.
“Un dono immenso, di cui non ero degno, è evidente. Avrei potuto convincere Zeus stesso a darmi ascolto. Ho convinto Ade e la moglie della morte, Proserpina, ho visto le lacrime scendere dagli occhi ardenti delle Erinni, ma Euridice è svanita come semplice vapore. La bella Euridice, dalla voce dolce come il miele”.
“Euridice era solo una delle tante ninfe. E questo mondo ha le sue leggi. Chiedi a Eracle: lo sento parlare con Alcesti, litigano proprio su questi dogmi. Vita e morte, non hanno che un confine in comune, anche se a volte non è ben tracciato”:
“Non ho più cantato. Ho aspettato, muto, la fine per poterla riavere. Ma non ho più sentito Euridice, la voce più cara che abbia mai conosciuto. Come fai a cantare ancora? Come fai ad allietare gli dei?”
“È la mia condanna, è il mio diletto”.
“Strano come le due cose si assomiglino”.