Da solo – Giorno 12

Penso che mi fermerò per un po’ di giorni nella raduna. Non è solo la sera a rendere questo spiazzo fantastico, ma è la sua natura, l’atmosfera sospesa che vi regna. Anche il canto degli uccelli sembra essere più soave del solito e il fruscio della sorgente sospende lo scorrere del tempo.

A proposito di tempo: questo diario non è proprio inutile, ma mi permette di capire che sono passati ben dodici giorni dall’inizio del mistero. Dodici giorni in cui non ho fatto molti progressi nel capire che cosa sia successo. E forse non me ne importa più di tanto. Dopotutto la vita precedente non era un granché, come avete potuto intuire, e questa sembra essere modellata sulle mie priorità e il mio ideale di vita.

Intanto sembra che la mia memora stia perdendo un po’ di colpi, ma non mi preoccupo, perché non mi sono mai sentito così bene. Però tutto sta diventando offuscato, compreso il mio nome. Ieri sera ho impiegato qualche istante in più per riprenderlo. Andrea. All’inizio del viaggio era come un masso, un faro che segnava il porto, ora sembra solo uno scoglio che ho lasciato alle spalle, una terra che ho già esplorato e che in cui non sento l’urgenza di tornare.

È possibile abbandonare Andrea su uno scoglio e ricominciare in altro modo? A questa idea il petto si fa più leggero e il respiro diventa fresco.

Due parole, però, mi sono balenate davanti agli occhi: Real Game.

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Strani desideri

“Un mio amico si è fatto chilometri con un deltaplano preso in prestito, e con il carico legato che penzolava al di sotto. E lo ha pure perso”.

Sia specificato per chi non conoscesse l’individuo che ha pronunciato queste parole: la rosa di amici che vantava era decisamente nutrita e tutti gli appartenenti erano protagonisti di mirabolanti imprese. E Luca era arrivato al limite della sopportazione. Va bene essere affetto da megalomania spinta, ma che riversasse tutte queste fandonie su qualcun altro. Ormai aveva smesso di credere alle favole un bel po’ di tempo prima.

Non erano nemmeno racconti piacevoli da sentire: tono troppo pomposo e una voce nasale che faceva sorgere a Luca il desiderio di una palpebra da orecchio, da abbassare in caso di suoni sgradevoli.

Luca quella sera era arrivato proprio al limite. Magari era stata la mancanza di sonno per la nottata travagliata, o magari una stanchezza generalizzata, o il fatto che il gradito ospite dimostrasse nei suoi confronti una sufficienza tale da farlo sentire sempre inadatto; per un qualche motivo, comunque, quella sera Luca non rimase inattivo. Rimase in silenzio, come era solito fare quando qualcosa non andava, ma effettivamente avvenne qualcosa di impensabile.

“E poi il mio capo mi disse: se te ne vai, mi arrabbio e ti vengo a cercare. Per fortuna mi ador…”

La frase venne interrotta da Luca, che già da qualche minuto stava fissando cin interesse un sottopentola di ghisa particolarmente pesante. L’attimo dopo, Luca si ritrovò con quell’oggetto in mano, alzato per metà dalla sedia, e si scagliò con una forza che non pensava di avere sulla faccia dell’oratore.

“Luca!” Esclamò Anna, la sua ragazza nonché sorella della vittima. Luca la guardò con occhi offuscati.

“Luca? Tutto bene? Potresti passarmi l’insalata?”

Insalata? Guardò a destra: il sottopentola era là, pesante, nero, senza tracce di sangue.

“Non si fanno prigionieri qui!” diceva intanto il gradasso mentre svuotava la terrina di insalata.

“Troppo tardi, Anna” fece notare Luca. “Sei strano: ti sei isolato” notò lei. “Meglio così, credimi”. Ma le mani ancora chiedevano di potersi avventare su quel garrulo fanfarone.

Imparare a volare

Lo consideravano uno sciocco, un perdigiorno di professione, sognatore nel tempo libero. Tom rientrava a pieno titolo nella pletora di chi non sa come seguire il flusso maestro, e cerca la propria via con il rischio di perdersi tra l’erba alta.

Il più grande desiderio di Tom era imparare a volare. Fin da bambino covava in cuore il segno di vedere il cielo da vicino e osservare il suo mondo da una prospettiva unica. Se avesse detto di voler diventare ricco o famoso, il clamore sarebbe stato inesistente. Ma l’idea di volare era per tutti un sintomo di follia.

Tom sapeva che tutto era meccanica, che l’aria riusciva a sostenere interi stormi e che, con le giuste precauzioni il suo sogno avrebbe spiccato il volo. Studiò in ogni momento una possibile soluzione e alla fine realizzò un piano. E con il piano comparve anche un sorriso da tempo volato via.

Iniziò a nutrirsi con piccoli bocconi di miglio e semi. Per volare bisognava essere il più leggeri possibile. Continuò con lo studio delle lingue volatili, confermando i sospetti di follia. E infine costruì le ali.

Alcuni giurano di averlo visto volare alto nel cielo. Altri sostennero di averlo visto precipitare. Gli occhi sanno essere miopi.

Ladro di luna

Sapete cosa voglio fare? Qual è il mio piano?

Voglio rubare la luna.

Sì sì, lo so, vedo bene i vostri sorrisi di scherno, le vostre occhiate complici. Sento chiaramente le risate trattenute, le battute. Pensate che la mia mente stia vacillando, vero?

Non siete i primi, sapete? Ne ho incontrati molti altri come voi. Gioite quando qualcuno fallisce, vi ergete al di sopra di un monte di nebbia per sentirvi padroni di giudicare chiunque la pensi in modo diverso. Siete tutti saggi, tutti avete la fortuna di avere in mano la verità. Nessun dubbio vi offusca il pensiero. Non vi lasciate traviare da desideri irrealizzabili.

Siete i primi ad aprire la bocca, gli ultimi a chiuderla. Le vostre orecchie sono piene della vostra stessa voce e non c’è spazio per altro. Le preghiere di chi vi sta attorno non sono altro che un fastidioso brusio.

Però non mi fate paura. Non cambierò idea, statene certi.

Io voglio rubare la luna. E la ruberò per dimostrarvi che nulla è impossibile. Per demolire il vostro castello di carte pieno di vuote verità.

E io voglio vivere questo sogno. Voglio infrangere i miei limiti umani e avere tutto per me quel globo luminescente, gentile e freddo. Voglio fare mio il volubile faro dell’oscurità.

Questa sarà una notte senza luna, credetemi.

Viaggio allo stato liquido

Arrivo. No, non aspettatemi. Arrivo. Con un po’ di pazienza, ma ce la farò. Anzi, state certi che vi supererò.

Sono goccia. Ho fatto un lungo viaggio, e ora voglio raggiungere quella vasta distesa di aperta e liquida libertà.

Ho solcato il cielo, ma volevo la terra. Il vento mi era amico, ma ero attratta dal suolo così lontano. Così mi feci nera, pesante, minacciosa, rumorosa. E caddi all’improvviso accompagnati da bagliori e rombi potenti.

Infine raggiunsi la mia meta. Scivolai per larghe figlie verdi, rotolai tra l’erba, mi insinuai tra le radici contorte degli alberi.

Tuttavia ancora non ero felice. Mi sentivo sola, così sprofondai, entrai nella terra e trovai una vena sotterranea di vita.

Laggiù faceva freddo. Perciò con i miei compagni decidemmo di emergere, per vedere la luce, per sentire il calore del sole. E tutte noi gocce correvamo, felici, diventado sempre più forti e più grandi.

Ma più procedavamo e più le acque si intorpidivano. Fango, melma, rifiuti, scarti inquinavano il nostro riflesso. Mi sentivo malata, debole. Era sbagliato, dovevo avere di più.

Mi parlarono di una distesa immensa, salata, dove tutte noi ci saremmo gettate per trovare la pace.

È lì che ora vado. Dai miei compagni.

Arrivo. Vi raggiungo. Sto scorrendo a voi.

Cosa faresti se…

Cosa faresti se avessi le ali?

Mi librerei alto in cielo, così in alto da sentire la pelle bruciata dal sole. Vedrei città ridotte a piccole macchie luminose. E gli uomini ridotti a una misera massa brulicante, come formicaio scoperto ed esposto alla luce del sole. Anche l’uomo che si crede un gigante diventa un essere ben misero da quell’altezza. Supererei le montagne, scavalcherei i dirupi, planerei sul mare, lasciando che la schiuma leggera schizzi sulla pelle.

Cosa faresti se avessi le pinne?

Sprofonderei tra gli abissi del mare per visitare i regni subacquei nascosti a tutti. Vedrei esseri inconsistenti, che lasciano dietro di sé una leggera scia luminescente, e creature orribili, dai denti aguzzi che addescano le proprie vittime con dei lumini fasulli. Promettono loro il sole sconosciuto per poi dar loro ala morte, il buio più profondo. E non sentirei più il vociare garrulo e fastidioso, le grida vane, il rombo arrogante.

Cosa faresti se fossi lombrico?

Scaverei le viscere della terra per diventarne un tutt’uno, ne assaporerei le zolle, godrei della sua umidità sulla pelle. Visiterei gli abitanti invisibili e ciechi mentre scavano un complicati labirinto sotterraneo. Ogni giorno mi sentirei al sicuro nel ventre del mondo.

Cosa faresti se fossi mare?

Sperimenterei la violenza. Dalla calma piatta mi gonfierei e mi abbatterei sulle coste senza pietà. Porterei via tutto ciò che ostacola il mio cammino, alberi, animali, uomini, case. Con costanza ridurrei in sabbia possenti montagne.

E se fossi fuoco?

Proverei la rabbia di essere addomesticato. Proverei a varcare quei confini, a crescere senza limiti. Saprei cosa sia la paura e la distruzione. Non avrei pietà.

E umano?

Cercherei di sopravvivere, di essere uccello, pesce, verme, mare e fuoco. Cercherei il mio instabile equilibrio.

Kalypso

Lo vado là, tra gli scogli, che guarda il mare. Desidera una mortale, e per questo rifugge l’immortalità.

Sogna una piccola isola di rocce, disdegnando i bei prati che offre questa terra.

Rimpiange un bimbo divenuto ormai uomo.

Pensavo di aver trovato finalmente qualcuno che avrebbe spezzato la solitudine che mi attanaglia.

Gli ho offerto tutto. Il mio corpo, i miei sentimenti, la mia dimora. Avrebbe potuto godere di limpidi ruscelli, di una fertile terra che regala i suoi frutti senza bisogno di lavorarla, di alberi frondosi che offrono carichi di frutti in qualsiasi periodi dell’anno.

Ma io la sento. Sento la voce del mare. Ogni giorno si fa più forte. Lo chiama a sé.

Il mio cuore è ora come la mia dimora: una grotta vasta, con sale e anfratti. Ma di dura e fredda pietra, vuota. Solo eco a volte viene a farmi compagnia, ripetendo senza tregua crudele i miei sospiri. Non sento ormai più il cinguettio mattutino, ma solo il silenzio di un vuoto incolmabile.

Me ne sto qua a tessere, copia divina di un’imperfetta umana che gode di un amore perfetto.

Sento anche te, messaggero. Ne sono consapevole, il giorno è arrivato. Il vento soffia più forte, il mare chiama con insistenza. Pure tu hai intrapreso un lungo viaggio.

Che gli alberi delle mie terre vengano abbattuti. Che la tela che tesso diventi vela.

Straniero. Mio amato. È ora. L’orizzonte ti inghiotterà. Sei libero, ma condanni me alla prigione della malinconia.

E a me cosa resta? Una fertile, generosa e stupenda terra che diventi dimora della mia solitudine. Un’immortalità che non conoscerà amore. Una bellezza mai elogiata.

Specchio di verità. Parte 3: il disertore

Fuggì sempre più lontana, cercando il conforto negli alberi ma con il timore di perdersi in quel bosco incantato. Infine si ritrovò in una raduna dove vide un cavallo fulvo che pascolava tranquillo. Vicino, appoggiato ad un albero nodoso, si riposava un uomo.

Erano passati molti giorni, ormai,da quando era partito di soppiatto da casa portando con sé quel cavallo. Era un semplice ronzino, ma lo spronò a cavalcare veloce come il vento, per allontanarsi da quel paese. Il suo destino era quello di ingrossare le file dell’esercito, di obbedire al suo re, di spezzare le vite dei nemici, o dare la sua, nel caso la mano avesse esitato.

Tuttavia, non voleva uccidere, non voleva sentire il suono delle armi, l’odore del sangue, i rantoli, il rombo dei corni. Era fuggito con il solo cavallo, era scappato dalla morte, dal padre, dalla guerra. Ad un’altra signora si addiceva il compito di interrompere un’esistenza.

Disertore, lo chiamavano. Quella parola lo feriva come mille lance.

Gli avevano detto che anche su un campo di battaglia il grano avrebbe potuto rinascere. Ma lui provava orrore per quella natura pronta a nutrirsi dei resti delle sue stesse creature per dare nuovi frutti. Trovava insopportabile quel circolo violento che sentiva stringersi attorno.

Disertore. Una parola che lasciava un bocca un gusto di ferro, di polvere. Gli aveva aperto una ferita profonda, lo aveva lacerato facendogli perdere lentamente ogni goccia di amore vitale. Un lento stillicidio lo aveva ridotto allo stremo, proprio lui, che per rispetto della vita non aveva voluto uccidere.

Disertore. Vile, canaglia, traditore.

Disertore.

L’aria innondava i polmoni, il cuore batteva, il sangue scorreva, ma il nulla lo avvolgeva.

Aprì gli occhi, e si vide minuscolo riflesso in due frammenti di cielo azzurro. Fu un solo istante. Poi la ragazza si ritrasse,tirò un lembo del fagotto che teneva in mano e gli mostrò il contenuto.

“Cosa vedi?”

Era la voce rica di chi non era abituato a parlare.

Vide una terra lontana, che non portava il peso di costruzioni.vide una vasta pianura recintata solo da monti. Sapeva che piede umano non aveva contaminato quei luoghi. La violenza non aveva lasciato la sua striscia di fuoco e distruzione.

“Dov’è? Dimmi dov’è. Te ne prego”.

Il silenzio fu la sola risposta.

“Chi sei? Aspetta, rispondi, cosa significa?”.

Solo l’erba gli rispose con un pigro fruscio.