Strani desideri

“Un mio amico si è fatto chilometri con un deltaplano preso in prestito, e con il carico legato che penzolava al di sotto. E lo ha pure perso”.

Sia specificato per chi non conoscesse l’individuo che ha pronunciato queste parole: la rosa di amici che vantava era decisamente nutrita e tutti gli appartenenti erano protagonisti di mirabolanti imprese. E Luca era arrivato al limite della sopportazione. Va bene essere affetto da megalomania spinta, ma che riversasse tutte queste fandonie su qualcun altro. Ormai aveva smesso di credere alle favole un bel po’ di tempo prima.

Non erano nemmeno racconti piacevoli da sentire: tono troppo pomposo e una voce nasale che faceva sorgere a Luca il desiderio di una palpebra da orecchio, da abbassare in caso di suoni sgradevoli.

Luca quella sera era arrivato proprio al limite. Magari era stata la mancanza di sonno per la nottata travagliata, o magari una stanchezza generalizzata, o il fatto che il gradito ospite dimostrasse nei suoi confronti una sufficienza tale da farlo sentire sempre inadatto; per un qualche motivo, comunque, quella sera Luca non rimase inattivo. Rimase in silenzio, come era solito fare quando qualcosa non andava, ma effettivamente avvenne qualcosa di impensabile.

“E poi il mio capo mi disse: se te ne vai, mi arrabbio e ti vengo a cercare. Per fortuna mi ador…”

La frase venne interrotta da Luca, che già da qualche minuto stava fissando cin interesse un sottopentola di ghisa particolarmente pesante. L’attimo dopo, Luca si ritrovò con quell’oggetto in mano, alzato per metà dalla sedia, e si scagliò con una forza che non pensava di avere sulla faccia dell’oratore.

“Luca!” Esclamò Anna, la sua ragazza nonché sorella della vittima. Luca la guardò con occhi offuscati.

“Luca? Tutto bene? Potresti passarmi l’insalata?”

Insalata? Guardò a destra: il sottopentola era là, pesante, nero, senza tracce di sangue.

“Non si fanno prigionieri qui!” diceva intanto il gradasso mentre svuotava la terrina di insalata.

“Troppo tardi, Anna” fece notare Luca. “Sei strano: ti sei isolato” notò lei. “Meglio così, credimi”. Ma le mani ancora chiedevano di potersi avventare su quel garrulo fanfarone.

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Fare acqua

Queste settimane sono un colabrodo: faccio acqua da tutte la parti. Per quanto cerchi di organizzarmi, un minimo, c’è sempre qualcosa che scombina le carte, che sia una mia indolenza o i progetti altrui che piombano come massi sulla mia scrivania. Se gli altri hanno così tanti problemi, dovrebbero imparare a risolverseli invece di sganciarli nelle mani di altri, con un sorriso e qualche parola di circostanza.  E poi ci sono quelli che si divertono a far in modo di troneggiare nella loro immensa grandezza e magnanimità, il che si traduce in un dispendio di pecunia e di tempo da parte mia.

A parte il lato economico, che urla vendetta da un bel po’ di tempo, il lato tempo inizia a preoccupare. Viene costantemente rosicchiato, eroso, consumato, così le giornate si riducono in trucioli che disegnano sul terreno la speranza che l’indomani possa andare meglio. Ma l’assioma fondamentale della vita sembra essere la circolarità, per cui, eccetto qualche rara eccezione, la storia si ripete.

Allora corazziamoci, con scaglie dorate, forti come il marmo, e sorridiamo ai ghigni che si affacciano nel momento della sconfitta, e alle smorfie che accompagnano le vittorie. Meglio scegliere una corazza gentile, per non perdere quel tesoro, spesso criticato, ma anche sfruttato, che rende tutto più sopportabile.