Occhi

Sulle spalle di una farfalla ho visto gli occhi di una fata. Erano là che mi guardavano, che mi scrutavano curiosi, pronti a balzare via se mi fossi avvicinato troppo.

Sulle ali di una farfalla ho depositato i miei sogni. Sono solo polveri sottili e multicolori che illuminano per un attimo il cielo oscuro della notte.

Sulle ali di una farfalla voglio scappare, assieme a quella fata curiosa, per vedere il mondo con i suoi occhi, per conoscere il cielo e le nuvole, per volare più in alto dei sogni e più lontano della paura.

Le ali di farfalla riescono a portare carici pesanti come macigni e lascairli precipitare per dimenticarsene.

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Ombre della notte

Quella sera non si respirava per l’afa, l’aria era immobile, neppure i grilli avevano il coraggio di innalzare il loro canto. Elena aveva creato uno spiraglio lasciando la finestra mezza aperta in modo l’aria notturna la accarezzasse mentre dormiva. La notte era silenziosa e sembrava una pesante matrona avvolta in un pastrano nero e senza decorazioni. La vita sembrava essere stata sospesa per quelle ore.

Mentre Elena si rigirava in preda a qualche sogno turbolento, dalla fessura della finestra si insinuò una sottile macchia nera: prima si mise di lato, poi si torse, si appiattì, si espanse e infine cadde senza rumore sul pavimento della stanza, per scivolare silenziosa verso il letto. Dopo pochi secondi una seconda ombra si intrufolò nella stanza con un faticoso movimento e con una giravoltola finale che le permise di atterrare nella stanza. Non aveva fatto a tempo di togliersi che con una contorsione ne scese una terza.

Se Elena avesse visto quelle strane ombre muoversi, si sarebbe spaventata, probabilmente avrebbe aperto la luce, rischiarando la sua consueta camera da letto. Ma Elena stava dormendo, e le ombre erano, almeno per il momento sicure. Non sono pericolose le ombre della notte: non hanno un corpo, sono fatte di oscurità e non necessitano di un corpo per muoversi, ma si dissipano alle prime luci per lasciare spazio alle ombre del giorno.

Sono semplici spiriti che escono nelle notti senza luna e che vanno alla ricerca di anime vive e scintillanti da poter ammirare.

Segreti

Il silenzio permeava la radura, figure immobili si confondevano con le rocce, gli alberi, la vegetazione che le avvolgeva. Si diceva che quello fosse un posto di stregonerie e magia della peggior specie. Non che le voci avessero tutti i torti, ma, come spesso accade, possono imboccare strada vicine alla verità, senza mai raggiungere quest’ultima.

Che quelle figure potessero essere considerate delle streghe probabilmente rispondeva al vero. Erano donne che credevano in un potere sovrannaturale, e che chiedevano a uno spirito silvestre vendetta per i torti subiti, aiuto per i sogni che stavano svanendo, preghiere di giovane che aveva un futuro incerto e di vecchie, che soffrivano un passato fin troppo certo.

Che quelle donne facessero sortilegi o lanciassero terribili malefici, però, era una costruzione di chi non tollera che ci siano persone pronte a ribellarsi alla vita riservata loro. Ciò che non si comprende, viene demonizzato: quelle donne divennero serve del diavolo stesso e, come tali, nemiche da temere e da eliminare, con il fuoco, con le forza e la violenza.

Ma le fiamme che distruggono la radura e che lambiscono in un abbraccio infernale le vittime sono ancora lontano da quell’angolo quieto di bosco. Ci sono solo loro, che guardano la luna in cielo e bevono in silenzio i raggi gelidi e puri di un corpo celeste capace di risplendere anche senza ardere.

In una tazza di caffè

Alcuni trovano la forza in un bicchiere di alcol. Ben non aveva mai amato l’alcol e non tollerava gli eccessi, per cui i suoi momenti di sconforto erano del tutto sobri. Questa caratteristica gli aveva guadagnato la fama di persona posata, non troppo problematica e tranquilla come uno stagno in un’afosa giornata estiva senza vento.

Ben aveva i suoi problemi, molto simili a quelli della maggior parte della popolazione terrestre che conduce una vita nella media. Problemi legati, insomma, ai soldi, alla solitudine e ai sentimenti, elementi che Ben chiamava La triade delle tre S. Della triade, il suo vertice era costituito dai soldi. I soldi non sono sinonimo di felicità, ma dovrebbero essere considerati tali, almeno per la maggioranza cui apparteneva anche Ben. A questo cruccio, seguiva quello legato ai sentimenti che saltellava allegro accanto alla solitudine.

Riducendo il concetto all’osso, Ben era un uomo nella media, che viveva un’esistenza mediocre, poco al di sopra dello stato di indigenza, che qualche burocrate ben pagato si premurava di abbassare in modo da non farlo piombare nello strato oscuro e brulicante dei poveri.

Se l’alcol non dava nessun conforto a Ben, lo faceva la caffeina. C’era stato un momento aureo della sua vita in cui riusciva a campare interi mesi senza toccare nemmeno una goccia di caffè. E non è un caso che quella felice parentesi corrispondesse con l’apice del suo successo, quando tutto gli sembrava alla portata di mano.

Non era durata poco questa età dell’oro, qualche anno, abbastanza per farlo sentire invincibile, troppo poco per renderlo effettivamente invincibile. Così, quando la vita decise che era arrivato il momento perfetto per calare la sua scure, Ben piombò nello sconforto e in una tazza colma di nero caffè bollente.

In una tazza di caffè, quella mattina Ben cercava le risposte. Non cercava di leggere i fondi di caffè, non era mai riuscito a capire come si facesse, ma sperava che dal calore, dall’aroma di quella bevanda uscisse qualche genio che gli suggerisse la via da seguire.

In una tazza di caffè, quel pomeriggio Ben vide qualcosa. Fu una specie di illuminazione, di rivelazione. La sottile schiuma che si era formata formava una spira fantastica che lo aveva condotto in una sorta di ipnosi. E Ben aveva capito.

In una tazza di caffè, quella sera Ben trovò la risposta alla triade delle tre S. Era così semplice, la soluzione appariva così chiara, soprattutto dopo aver ingurgitato una ventina di quella miracolosa bevanda. Dicono che il caffè possa essere letale, se bevuto in eccesso.

In una tazza di caffè, Ben cercava la risposta, ma trovò solo un liquido oscuro che gli offuscò la ragione.

Tesoro

Tutti hanno bisogno di un tesoro da custodire, da cercare, da desiderare e sognare. Tutti hanno un tesoro nascosto, alcuni lo proteggono, altri se lo lasciano rubare. I tesori costruisco sogni e sogni non sono altro che mirabilanti costruzioni aree di fumo e colore.

Il tesoro di Eirene era un uovo. Nessuno era a conoscenza della sua esistenza, nessuno pensava Eirene custodisse un tesoro. Ma la donna sapeva bene che, come i segreti, è meglio che i tesori rimangano nell’oscurità.

L’uovo di Eirene era d’oro, luciccante come il sole che si specchia su un lago di montagna, ed era pesante, come se contenesse del vile piombo. Al centro si intravvedeva una crepa irregolare, che attraversava tremolante la superficie dell’oggetto per tutta la sua larghezza, fino a rounirsi nel punto di partenza, dove la linea diventava serratura.

Eirene non aveva la chiave per aprire l’uovo, e neppure la cercava. C’erano storie che venivano tramandate nella sua famiglia. Mai nessuno avrebbe dovuto aprire l’uovo. L’oro può celare segreti scomodi, un aspetto luccicante può rivelarsi una mera facciata.

Un giorno l’uovo scomparve. Per chi era stato capace di intrufolarsi nei segreti più reconditi, non fu difficile trovare un modo per schiudere l’uovo. Il tesoro più grande di Polemia era all’interno di quel guscio. Il tesoro più grande di Eirene era mantenere il contenitore sigillato.

E il sogno di Polemia si sparse per il mondo, come una pesante coltre di fumo nero.

Mi sono rotta

Capita quando si è una bambola di proprietà di una bambina viziata e capricciosa. E Lucy si era rotta proprio in malo modo, una gamba era rimasta tra le mani del biondo diavoletto e il resto del corpo giaceva a terra scomposto. Niente sangue, le bambole come Lucy sono fatte di pezza, al massimo qualche ciuffo di ovatta sparso sul pavimento.

Alla piccola peste non andava di giocare con una bambola rappezzata, e così venne gettata nel cesto dei giochi non più usati, destinati prima o poi alla discarica. Lucy guardò con tristezza il moncherino che giaceva tra un dinosauro senza coda e una testa di bambola, il cui nome, se non si sbagliava, corrispondeva a Lily.

“Almeno siamo sfuggiti ai suoi maltrattamenti” grugnì un infante di palstica con il braccio ritorto. “Guarda un po’ cosa mi ha fatto. E solo perché mi si erano scaricate le batteria per piangere”.

A Lucy sembrò proprio di essere in un incubo. E chi le avrebbe pettinato i capelli corvini? Si sarebbero trasformati in un cespuglio come quel bambolotto che la fissava con l’orbita nera di un occhio che mancava?

“Cosa guardi? I miei capelli? Finalmente stanno come vogliono e non vengono tirati da pettini e forcine” pigolò con un filo di voce Lily.

“Vedrai, ci divertiremo” ruggì il dinosauro, ma la sua voce era attutita a causa della scomoda posizione per cui la testa era ficcata sotto Lucy stessa.

“Mi ha ridotto così perche lei odia i lucertoloni. Come se io fossi un lucertolone. Dice che sono da maschi. Bazzecole, dico io. E mi ha strappato la coda per dispetto”.

“Non piangere piccina” disse il bebè cieco. “Qui si gioca a chi vorresti essere. Io vorrei essere un indiano”.

“E io” intervenne il dinosauro “un’aquila. E tu, nuova arrivata?”

“Forse, una vera Lucy, una Lucy che non si spezza e che non se ne sta molla ad aspettare la fine”.

“Sei strana, piccola”.

Imparare a volare

Lo consideravano uno sciocco, un perdigiorno di professione, sognatore nel tempo libero. Tom rientrava a pieno titolo nella pletora di chi non sa come seguire il flusso maestro, e cerca la propria via con il rischio di perdersi tra l’erba alta.

Il più grande desiderio di Tom era imparare a volare. Fin da bambino covava in cuore il segno di vedere il cielo da vicino e osservare il suo mondo da una prospettiva unica. Se avesse detto di voler diventare ricco o famoso, il clamore sarebbe stato inesistente. Ma l’idea di volare era per tutti un sintomo di follia.

Tom sapeva che tutto era meccanica, che l’aria riusciva a sostenere interi stormi e che, con le giuste precauzioni il suo sogno avrebbe spiccato il volo. Studiò in ogni momento una possibile soluzione e alla fine realizzò un piano. E con il piano comparve anche un sorriso da tempo volato via.

Iniziò a nutrirsi con piccoli bocconi di miglio e semi. Per volare bisognava essere il più leggeri possibile. Continuò con lo studio delle lingue volatili, confermando i sospetti di follia. E infine costruì le ali.

Alcuni giurano di averlo visto volare alto nel cielo. Altri sostennero di averlo visto precipitare. Gli occhi sanno essere miopi.

Mostri

Come ogni notte quell’occhio mi scruta dai piedi del letto. Non è una creatura umana, e nemmeno animale, non sembra essere neanche terrena. È lì, fissa, non distoglie mai lo sguardo, non tremola né sbatte le palpebre. Mi guarda.

Se non è umano e non è animale, allora è un mostro, come quelli che popolano le notti dei più ingenui. Anche sugli adulti hanno un effetto deleterio, sempre che si ammetta la presenza dei mostri. Vorrei che se ne tornasse nell’oscurità che lo ha generato, ma il mostro non si muove.

Tanto vale vederlo bene. Cerco a tentoni gli occhiali e li inforco, la mano trema un po’.

La notte inganna, crea ombre e luci, sussurra agli abitanti delle tenebre di giocare con gli uomini.

Mi alzo e chiudo la lampada.

Discesa

Da piccola sognava ed era certa che da qualche parte quei sogni diventassero schegge capaci di costruire mondi e universi. Da piccola sognava di avere ali fatte della stessa sostanza dei sogni e di poter esplorare i vasti oceani di aria. Sognava, mentre il mondo accanto a lei cadeva pezzo a pezzo. Sognava, e i suoi occhi rifuggivano una realtà che aveva perso i colori.

Le avevano promesso il meglio, ma le promesse sono vuote come gusci di conchiglie. Le avevano detto che sarebbe stata una vincitrice, ma la sua voce era troppo debole per farsi sentire. Parole e basta.

Finché un giorno vide un annuncio: Cercasi aspirante paracadutista. Quando sognava, immaginava ali, ora la sostenevano ventri di metallo. Quando sognava, vedeva la pace, ma al suo fianco pendeva un’arma.

Solo il paracadute era lo stesso, tessuto dal regno dei ragni. Mentre sentiva il vento sul volto, sperò che la terra la inghiottisse in tutta la sua felicità.

Cercare e non trovare

Paul era un investigatore, anche se non dei migliori, e ne era consapevole. Per lo più cercava persone che non volevano essere trovate, e ci riuscivano benissimo, loro, a non farsi trovare. Le uniche persone che aveva rintracciato erano una vecchietta scomparsa da qualche giorno, un cane scappato di casa, che forse non poteva essere propriamente annoverato tra le persone, un adolescente in crisi e un padre di famiglia. La vecchietta in realtà era rimasta scomparsa, nel senso che era passata a miglior vita: l’aveva trovata ormai mummificata nel suo appartamento, comodamente seduta sulla poltrona, come se lo stesse aspettando. Non un grande ritrovamento, quindi, tanto che era stato pagato la metà del compenso e nel doppio del tempo. Il cane era un’altra storia: ci aveva pensato l’animale a ritrovare la strada di casa, solo che i suoi padroni non lo sapevano. Per un caso fortuito anche Paul si stava recando dalla famiglia, e aveva atteso assieme al cane che aprissero la porta: il guadagno era stato enorme, visto che il suo ruolo si era limitato a suonare il campanello. L’adolescente si era rintanato dal suo amico del cuore, e già se ne era pentito, mentre il padre di famiglia era scappato con la bella collega di lavoro, salvo poi tornarsene a casa dopo essere stato abbandonato anche dall’amante.

Paul non era certo un investigatore di successo, ma non si faceva pagare molto, quindi qualche incarico arrivava lo stesso. Ma quello era un periodo di magra: sembrava che nessuno avesse perso qualcuno o qualche animale. Paul se ne stava nel suo minuscolo ufficio pieno di carte che non avevano ragione di essere lì, a cercare un modo per passare il tempo. E improvvisamente gli venne un’idea: avrebbe rivoluzionato il mondo dell’investigazione privata. O almeno del suo metodo investigativo.

Se per il momento non c’erano scomparsi da cercare, allora Paul avrebbe cercato per conto suo. Per fare esperienza iniziò dai propri sogni, e modificò la targa davanti all’ufficio in Investigatore privato di persone, animali, oggetti e SOGNI. Si ricordava bene su che cosa vagheggiava da bambino: si vedeva come un impavido archeologo subacqueo, alla ricerca di un’antica civiltà ingoiata dal mare. Ma da qualche parte, nella sua esistenza, quell’archeologo si era perso. Dove era andato? Paul non lo sapeva, e iniziò a cercarlo. Sapeva che fino all’adolescenza quel bel tipo abbronzato lo aveva affiancato sempre, anche nei momenti di sconforto, e gli aveva pure suggerito qualche risposta giusta nelle verifiche di storia. Al momento della scelta dell’università, però, era scomparso, e la facoltà di archeologia era rimasta solo una possibilità.

Non restava che cercare fra i banchi di scuola. Entrò in un pomeriggio, approfittando di un momento di distrazione da parte di una bidella. Cercò sotto e sopra i banchi, attorno alla cattedra, in giardino e per le scale, nei bagni e perfino nello sgabuzzino delle scope, ma non ci fu nulla da fare: dell’archeologo non trovò neppure un granello di polvere. Per scrupolo cercò anche all’università di legge: ci impiegò qualche giorno per riuscire ad accedere a biblioteche, aule studio e di lezione, mense e stanze dei docenti, ma non riuscì a rintracciare neppure il cappello dell’avventuriero.

Tornò scoraggiato nel suo ufficio: forse era vero che come investigatore non era poi il massimo. Non controllò la posta e neppure la segreteria telefonica. Tolse invece la targhetta e ne ordinò una terza: Investigatore privato di persone, animali, oggetti, SOGNI e SPERANZE. Se non riusciva a trovare i sogni, avrebbe provato con le speranze. E ricominciò le sue ricerche.

Furono giorni frenetici per Paul, che sembrava aver smarrito se stesso. Quando l’investigatore privato assoldato dalla preoccupata madre di Paul fece aprire la porta dello studio del collega, trovò l’uomo riverso sulla scrivania. In mano stringeva una targa: Investigatore privato di persone, animali, oggetti, SOGNI, SPERANZE e ILLUSIONI.

Secondo l’autopsia, Paul era morto non solo di stenti, ma anche di delusioni.