Multiforme – Pt. 11

La complessità non mi è mai dispiaciuta: quando le cose si fanno semplice, mi piace complicarle: guardate cosa è successo con Mary. Ma voi non conoscete la scaltra Mary: forse un giorno vi racconterò di lei. D’altronde la piccola Annette le assomiglia così tanto.

Prima di andare all’appuntamento con quella Angela Carrier, cercai di fare il punto della situazione: ero in nave con il fratello del commissario McMiller, che sembrava essere interessato più a fatti di sangue che all’allevamento dei maiali, ero entrato nelle grazie di una duchessa che stava per passare a miglio vita e non sapeva a chi lasciare i beni, e c’era una signora non conosciuta che scalpitava nel vedermi. O almeno, io pensavo che scalpitasse, ma ho sempre peccato di un certo autocompiacimento. Inoltre Annette sembrava molto incuriosita da Paul, così come lo ero Mary per il commissario, il che avrebbe dovuto preoccuparmi più dell’imminente incontro con Miss Carrier.

Come potete immaginare, mi presentai puntuale all’appuntamento. Il Magnifique era forse il bar meno frequentato dalla prima classe, visto che si trovava vicino alle scale che scendevano verso gli alloggi della seconda classe. I nobili e gli arricchiti non perdono occasione per dimostrare il loro disdegno nei confronti di chi non si può permettere gli stessi agi.

“Qual è il tuo nome, adesso, Albert?”

La voce di Mary.

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Scale

Succede che gli incontri vengano rimandati, non a causa di ritardi o di errori, ma solo per una questione di piani. Pensate a un grande condominio, fatto di scale e di rampe, senza una pianta ben specifica, senza una logica per cui una strada sia preferibile all’altra. Alcuni dei suoi abitanti scelgono una via, alcuni un’altra, e non la abbandonano, altri ancora la variano in continuazione perché sono alla perenne ricerca di quale sia per loro la migliore.

Non è detto che gli inquilini vengano mossi dalla necessità di impiegare il minor tempo possibile. Forse fanno quella strada perché vogliono o sperano di trovare una determinata persona, o per evitare qualcuno o perché hanno sempre scelto quel percorso e non vedono il motivo per cui compiere variazioni.

In questo condominio le anime si rincorrono. È possibile che alcuni non si incontrino mai, o che altri si inseguano a lungo, prima di scontrarsi con conseguenze per entrambi: qualche contusione, ossa rotte, o forse un bel salvataggio.

Trovare la strada giusta e il giusto urto può richiedere tempo e lo zampino di quello che qualcuno chiama destino. E dopo molte scale, alla fine, si arriva sempre a una destinazione, anche se magari non è quella progettata.

Multiforme – Pt 7

Sia chiaro, io non credo al destino. Se davvero esistesse una cosa del genere, pensate che potrei raccontarvi queste mie avventure? Di certo dovrei starmene in qualche cella umida a scontare il debito con la società. Un debito molto alto, secondo molti.

Ma a quel pranzo ebbi l’impressione che tra i commensali ci fosse anche la Beffa. Tra tutti gli avventori della nave, mi trovai a sedere spalla a spalla con il fratello del commissario McMiller.

Voi non lo conoscete. Probabilmente il vostro destino condannerebbe anche Hugh a marcire, se non in carcere, in qualche ufficio. Naso e mente fine, Hugh McMiller, qualità non apprezzate dalla maggior parte di chi ottiene posti di potere. E si dà il caso che il commissario sia stato anche il mio nemico più infido. Dicono che per capire la mente di un criminale sia necessario essere criminali allo stesso modo, e penso che Hugh rispecchi alla perfezione questa diceria. Di certo non assomigliava al suo corpulento fratello. Il commissario aveva un aspetto dinoccolato, secco con un colorito ceruleo, tendente al verdastro, regalo probabilmente dell’insalubre aria di Londra, ravvivato, però, da dei profondi occhi. Ebbi la sfortuna di condividere la stessa stanza solo una volta ed ebbi la certezza che lui sapeva. Sapeva tutte le malefatte che avevo fatto e che avrei compiuto. Mi sentì presi in trappola come una volpe, e come una volpe mi strappai a morsi un arto per poter fuggire. Quell’arto aveva un nome, Mary, e non venni mai a sapere che fine fece. Gliela diedi in pasto e poi cercai un modo per mettere un oceano tra me e quell’individuo.

Paul era fatto di tutt’altra pasta: assomigliava più alle sue vittime, i maiali, che agli altri umani, forse per la corporatura o per il colorito roseo. Di certo era vestito con gusto ed eleganza, elementi che il commissario sembrava disdegnare, e la sua risata rimbombava in tutta la sala, facendo girare alcuni commensali infastiditi da una tale zoticaggine. Ecco, Paul era un rozzo, arricchito, spiritoso uomo. Con il fratello condiva solo gli occhi, profondi e scuri come gli abissi marini.

“Tutto bene conte Mortimer?”

“Certo, solo un momento di stanchezza. Ma mi chiami Ulysses, Paul. Mi raccontava di suo fratello, giusto?”.

E quegli occhi mi stavano scrutando.

Multiforme – Pt. 4

La nave salpò. Anch’io mi unii a quanti se ne stavo sul ponte a salutare i propri cari rimasti a terra, anche se non c’era nessuno venuto a augurarmi un buon viaggio. Mi parve di scorgere il cappello di un certo commissario, ma la fantasia può giocare brutti scherzi: le indagini non erano certo arrivati al punto da ricollegare l’omicidio del conte alla scia di morti misteriose e truffe argute che mi ero lasciato sulla terraferma. In ogni caso, il cappello era sul molo, mentre io stavo salpando verso una terra in cui le mie mani non avevano ancora operato.

“Chi sta salutando figliolo?”

Le anziane signore sono così premurose: si impegnano con il massimo sforzo a cadere tra le braccia del primo malfattore. Fortuna che io non sia un ladruncolo da quattro soldi.

“Mia sorella, signora…”

“Margaret, duchessa di Greville”.

“Duchessa, piacere. Ulysses Mortimer, conte, per servirla. E lei, chi sta salutando?”

“Quel tontolone di mio nipote. Non saprebbe distinguere il suo volto dal muso di un asino. Non che sia una grande differenza. È da settimane che protesta: prima dice che il viaggio è troppo lungo per una persona anziana, poi che in America non avrei trovato niente. Certo, niente a parte suo cugino, un uomo di talento. Ve lo dico io conte: aveva paura che le mie sostanze prendano un’altra via.”.

La vecchia era ancora in gamba, ma era lenta e acciaccata. Era vestita con lusso, ma con una moda che ormai apparteneva al passato. Ma gli anelli che sfoggiava suggerivano una grande ricchezza. Meglio mantenere i contatti con persone del genere, in modo da poterne approfittare al momento opportuno. Duchessa di Greville: se fossi stato sulla terra ferma non avrei atteso a iniziare il mio corteggiamento. Ma in una nave, la tattica deve cambiare.

Passeggeri – Pt. 2 Luca

A Luca non piace viaggiare di notte: i treni si popolano di anime, e lui non vuole essere un’anima. Di certo non può essere una di loro, perché Luca è un dottore di anime.

All’inizio non era quello il suo progetto. Voleva diventare un semplice dottore, ma una volta entrato in ospedale si era reso conto che una buona parte dei malesseri nasceva dal profondo dell’anima. Alcuni non potevano essere curati, altri potevano migliorare, anche se gli sforzi erano immani. Luca aveva visto la morte e la disperazione, ma non aveva mai ceduto loro.

Solo quando prendeva il treno per tornarsene a casa la sera si trovava sull’orlo del precipizio, lo stesso baratro in cui aveva visto scomparire i suoi pazienti. Nonostante respirassero e camminassero, aveva scorto la morte nelle profondità trasparenti dello sguardo, quello stesso vuoto che aveva scorto in un attimo, riflesso sul finestrino, e che sembrava riempire tutto il corpo della donna all’angolo. Di tanto in tanto si specchiava anche lui per vedere la vita scorrere nella sua iride.

Luca si aggrappava con in denti alla vita, l’avrebbe fatta a brandelli se lo avesse richiesto. Eppure non riusciva a trasmettere questo impeto agli altri. Forse perché nel profondo non era certo di essere nel giusto. Forse le anime si erano perse perché aveva intuito qualcosa che a lui era sfuggito.

Fortuna che poche fermate lo separavano alla sua meta. Scese dal treno, sfiorando con un sguardo il corpo rannicchiato di Maria.

Passeggeri – Pt. 1 Maria

Nella notte i pendolari si riducano al minimo. Ci sono due anime che popolano i treni notturni: chi non vede l’ora di raggiungere la sua destinazione e chi non ha una destinazione, ma si è semplicemente adagiato su un sedile e aspetta il capolinea. Di notte l’aria diventa diversa perché diversa è la luce degli scompartimenti. Fuori il mondo viene annullato da una cortina nera, mentre il treno corre sospeso nel buio, lontano dalla luce della città.

Maria appartiene al secondo tipo di passeggeri, quelli che non hanno idea di dove terminerà il loro viaggio. In tasca non ha alcun biglietto, ma di notte i controlli si fanno più blandi: nessuno osa chiedere il biglietto a un’anima errabonda. Maria guarda fuori dal finestrino, ma tutto ciò che vede è solo il suo volto inconsistente, che la guarda un spaurito e pallido.

In realtà Maria non vede e non guarda. La sua mente sta facendo delle capriole incomprensibili, che non ricorderà una volta tornata in sé. Non ricorda neppure il motivo per cui abbia cominciato a fare giravoltole. Forse da momento in cui ha fissato i suoi pallidi occhi azzurri su un mondo che sembrava andare alla deriva, che vagava come chi si è svegliato all’improvviso in una città sconosciuta.

Era salita sul treno solo perché non riusciva a reggersi in piedi. Sapeva che da qualche parte qualcuno la stava cercando, ma non si può rintracciare chi non vuole essere trovato. Ha solo una foto con sé: è quella di un ragazzo che gioca per terra con un cucciolo, entrambi biondi, entrambi più felici e inconsapevoli, entrambi innocenti e disarmati.

Maria non ha più sentito le risate di quel bambino.

Nemesi

Un tempo la Nemesi era la giustizia, era la punizione che si abbatteva su chi si macchiava della colpa più grande, la tracotanza. Con il tempo, però, il suo significato è scivolato verso la personificazione del nemico per eccellenza, una sorta di doppio negativo dell’eroe che incarna vizi e storture. In sintesi, è un alter ego del Sole.

La Nemesi diventa, quindi, ciò che l’eroe non deve e non può essere. Ma come sempre, il bianco non può esistere senza il nero o il grigio, e anche l’eroe senza macchia per eccellenza ha in sé semi scuri che potrebbero far sbocciare rose nere come la notte senza luna, grazie all’intervento di una nemesi che sa essere più dolce del miele e insieme aspra, anche se colma di promesse, come un frutto acerbo. Il male sa avere una voce molto persuasiva.

E se non si vuole ambire al ruolo di eroe, allora non rimane che trovare un equilibrio con il lato più sadico e malvagio che abbiamo relegato in qualche angolo dell’anima. A meno che non si incontri la propria Nemesi. Non è comune trovare sul proprio cammino quella persona che, in un modo o in un altro, riesce sempre a spingere fuori il peggio, gli aculei di un carattere corazzato, ma non certo aggressivo.

Eppure può succedere. Meglio prestare molta attenzione e sperare che la Nemesi non sia troppo assidua nel suo compito di dilaniare la coscienza.

Segreti

Il silenzio permeava la radura, figure immobili si confondevano con le rocce, gli alberi, la vegetazione che le avvolgeva. Si diceva che quello fosse un posto di stregonerie e magia della peggior specie. Non che le voci avessero tutti i torti, ma, come spesso accade, possono imboccare strada vicine alla verità, senza mai raggiungere quest’ultima.

Che quelle figure potessero essere considerate delle streghe probabilmente rispondeva al vero. Erano donne che credevano in un potere sovrannaturale, e che chiedevano a uno spirito silvestre vendetta per i torti subiti, aiuto per i sogni che stavano svanendo, preghiere di giovane che aveva un futuro incerto e di vecchie, che soffrivano un passato fin troppo certo.

Che quelle donne facessero sortilegi o lanciassero terribili malefici, però, era una costruzione di chi non tollera che ci siano persone pronte a ribellarsi alla vita riservata loro. Ciò che non si comprende, viene demonizzato: quelle donne divennero serve del diavolo stesso e, come tali, nemiche da temere e da eliminare, con il fuoco, con le forza e la violenza.

Ma le fiamme che distruggono la radura e che lambiscono in un abbraccio infernale le vittime sono ancora lontano da quell’angolo quieto di bosco. Ci sono solo loro, che guardano la luna in cielo e bevono in silenzio i raggi gelidi e puri di un corpo celeste capace di risplendere anche senza ardere.

Ghirlande di Natale – Pt. 5

Il litigio di Dwarf e Klag era, in realtà, di vecchia data. I due gnomi discutevano se festeggiare o meno la Festa della Luce, anche conosciuta come Natale. Il che significava rendere un po’ più allegre le ghirlande che Dwarf realizzava, desiderio espresso a suon di sbuffi e urla da parte della dolce Klag. Ma Dwarf non era da meno per dolcezza: con grugniti e pestando i piedi per terra, si rifiutava categoricamente di apportare alcuna modifica ai suoi capolavori.

Per convincere uno gnomo cocciuto non c’è nulla di meglio di una gnoma caparbia che decide di annuncire uno sciopero del cibo. E uno gnomo affamato è uno gnomo domato, come dice un famoso detto.

Dwarf alla fine si era deciso, arrendendosi ai borbottii dello stomaco, a chiedere un aiuto a quei fastidiosi folletti capaci di modificare tanto magistralmente la ghirlanda che aveva appeso con una colla super forte all’uscio. Rassegnato aprì la propria porta e si trovò faccia a faccia con due bestioline vestite di rosso e verde, dall’aria spaventata.

“Chi siete? Che volete? Cosa fate? Teppisti, mascalzoni”.

Ma sordi ai suoi borbottii Furt e Candy si intrufolarono nella tana, implorando di chiudere subito la porta.

“Ma a che pensi Dwarf? Bastava chiedere qualche vernice, un po’ di luci e colori. Perché questi due sono a casa nostra” protestò Klag.

“Io non ho invitato nessuno. Tu, piuttosto, cosa hai combinato? “

“Signori gnomi…” cercò di intromettersi Candy.

“Gnuf” sbuffò Dwarf.

“Abbiamo bisogno del vostro aiuto” concluse Furt.