Sentiva le vene colme di liquido mortifero, non di sangue, non di vita. È la rabbia che trabocca, come se si trovasse in un vaso troppo stretto, dal collo che diventa sempre più sottile. Il veleno è stato iniettato, dapprima in piccole quantità, come a emulare Mitridate, e poi in dosi sempre più massicce. Finché non era diventato lui stesso veleno. E Miso si sentiva colmo di energie, certo, ma di energie distruttive. Una belva stava premendo contro il suo petto, tanto da fargli male le costole: anelava a uscire, a passeggiare per il mondo indifeso e inconsapevole. Voleva scorrazzare liberamente, spargendo in ogni angolo il suo venefico odio. Perché quel veleno aveva un nome, odio, e aveva anche una compagna, delusione. Una coppia mortale. Miso sapeva che se non avesse lasciato straripare tutto quel veleno, si sarebbe corroso, diventando un’ombra colma di rancore.
L’ombra faceva paura a Miso, che cercava di fuggirla in ogni modo. Forse perché gli ricordava quel grumo oscuro che dimorava nel proprio petto. Per cui scelse il sole, scelse di lasciare libertà alla serpe affamata che chiedeva a gran voce di affondare le sue zanne su vittime e carnefici. Non voleva uccidere, Miso, voleva solo che anche altri sentissero la sua stessa rabbia, il suo sconforto. Sperava anche di diminuire quel veleno, che era stato causa di una solitudine irreversibile. Miso si mise, quindi, a viaggiare, a conoscere gente e persone, a contaminare, a sbranare.
Iniziò timidamente. Scoprì ben presto che il veleno è molto più dolce e più allettante di una coppa di sidro. Cominciò con una ragazza Ablabia, e fu fin troppo semplice. Questa sembrava fidarsi di tutti, se ne andava in giro con quegli occhi chiari, colmi di semplicità e di curiosità, nella convinzione che tutto il resto del mondo fosse innocente come lo era lei. Ma Miso le fece vedere, le aprì gli occhi, che si fecero più torbidi, più scuri. Ablabia si chinò alla nuova verità, guardò il cuore di Miso, ne intravvide la belva. Ed ebbe paura. Fuggì, ma non andò troppo lontano, limitandosi a seguire da lontano la furia distruttrice di Miso.
Toccò poi a Olbo, un ragazzotto dall’aria perennemente eccitata, con il sorriso sempre stampato sulle labbra. Salutò Miso con un tono di voce troppo alto e inizialmente sembrò avere la meglio sulla tenace ira di Miso. Fu solo un attimo. A poco a poco il sorriso si fece più stirato, e la voce calò in un sussurro roco. L’atmosfera attorno a Olbo divenne meno tersa, meno splendente. Il ragazzo non ne venne spaventato: forse era consapevole fin da subito che il veleno avrebbe infettato prima o poi anche il suo corpo atletico. O forse neppure si era reso conto di ciò che stava succedendo.
Infine Miso cercò di intaccare anche Agape, una donna dalle dolce sembianze. Anche Agape era irrequieta, cercava, cercava, ma non riusciva mai a raggiungere la sua meta, non si sentiva mai del tutto soddisfatta. Aveva la scomoda capacità di vedere sempre il difetto, di scorgere sempre la pecca, la mancanza, l’incompletezza. In Miso trovò la perfezione. Quel veleno così puro, quelle stille corrosive erano per lei balsamo e nettare. Agape stava cercando una risposta e finalmente la trovò in Miso, in quell’uomo oscuro dalla faccia contratta in un ghigno, come una maschera di teatro. Agape gli strappò la maschera e diede una risposta alla tacita, disperata domanda di Miso.