Il primo passo

Perché mai scegliesti di compiere quel primo passo? Di scendere con balzo sulla terra straniera, su un lido che troppo presto si è bagnato con il tuo sangue?

Sono Laodamia, moglie di Protesilao. Dei, vi scongiuro, lasciatemi sentire per un’ultima volta la cara voce di un guerriero che ha scelto di morire. Lo avevano predetto, e la veloce mano di Ettore lo ha realizzato. Sventura avvolgerà anche l’eroe della città.

Nessuno ha osato porre piede su quella terra maledetta. Nessuno. Solo tu.

Laodamia, perché piangi? Sono solo profezie, sono solo leggende. Laodamia, vattene. La vita viene corrosa dall’oltretomba, il rimpianto porta piu vicini alla fine.

Protesilao, è forse tua questa voce? Quindi gli dei hanno ascoltato. In questo giorno di primavera un brivido mi percorre. E desidero solo te, mio amato.

Ho dato il via a una guerra, il mio è stato il primo sangue versato, ma ne seguirà altro. Sento già i pianti e vedo i pallidi spiriti di chi ha la bocca piena di polvere. Figli di dei e di re si trascinano assieme a umili contadini, travolti da un destino che non conosce differenze di nascita.

Ti seguirò, Protesilao. Verrò anch’io in quella sponda su cui non risplende il sole. Neppure qui il sole mi riscalda, ormai.

Laodamia, non sta bene parlare con i morti. Dimentica e vai avanti. Laodamia.

Protesilao. Ho deciso ormai.

Fame d’amore

È pericoloso essere sempre affamati, si rischia di commettere delle sciocchezze. Ma quell’appetito difficilmente può essere messo a tacere, soprattutto se si parla di amore. Si indossano maschere su maschere solo per rubare una briciola di affetto, per elemosinare un sorriso.

Nei momenti di magra, la fame diventa insopportabile e l’assenza assume le fattezze di un gigante immenso. Uno dopo l’altro sfilano le ombre di chi dovrebbere essere qui a ridere, piangere, ma la stanza rimane vuota.

E in questa desolazione che cosa rimane? Solo un ricordo e la sensazione che questa fame possa durare un po’ troppo.

Veleno

Sentiva le vene colme di liquido mortifero, non di sangue, non di vita. È la rabbia che trabocca, come se si trovasse in un vaso troppo stretto, dal collo che diventa sempre più sottile. Il veleno è stato iniettato, dapprima in piccole quantità, come a emulare Mitridate, e poi in dosi sempre più massicce. Finché non era diventato lui stesso veleno. E Miso si sentiva colmo di energie, certo, ma di energie distruttive. Una belva stava premendo contro il suo petto, tanto da fargli male le costole: anelava a uscire, a passeggiare per il mondo indifeso e inconsapevole. Voleva scorrazzare liberamente, spargendo in ogni angolo il suo venefico odio. Perché quel veleno aveva un nome, odio, e aveva anche una compagna, delusione. Una coppia mortale. Miso sapeva che se non avesse lasciato straripare tutto quel veleno, si sarebbe corroso, diventando un’ombra colma di rancore.

L’ombra faceva paura a Miso, che cercava di fuggirla in ogni modo. Forse perché gli ricordava quel grumo oscuro che dimorava nel proprio petto. Per cui scelse il sole, scelse di lasciare libertà alla serpe affamata che chiedeva a gran voce di affondare le sue zanne su vittime e carnefici. Non voleva uccidere, Miso, voleva solo che anche altri sentissero la sua stessa rabbia, il suo sconforto. Sperava anche di diminuire quel veleno, che era stato causa di una solitudine irreversibile. Miso si mise, quindi, a viaggiare, a conoscere gente e persone, a contaminare, a sbranare.

Iniziò timidamente. Scoprì ben presto che il veleno è molto più dolce e più allettante di una coppa di sidro. Cominciò con una ragazza Ablabia, e fu fin troppo semplice. Questa sembrava fidarsi di tutti, se ne andava in giro con quegli occhi chiari, colmi di semplicità e di curiosità, nella convinzione che tutto il resto del mondo fosse innocente come lo era lei. Ma Miso le fece vedere, le aprì gli occhi, che si fecero più torbidi, più scuri. Ablabia si chinò alla nuova verità, guardò il cuore di Miso, ne intravvide la belva. Ed ebbe paura. Fuggì, ma non andò troppo lontano, limitandosi a seguire da lontano la furia distruttrice di Miso.

Toccò poi a Olbo, un ragazzotto dall’aria perennemente eccitata, con il sorriso sempre stampato sulle labbra. Salutò Miso con un tono di voce troppo alto e inizialmente sembrò avere la meglio sulla tenace ira di Miso. Fu solo un attimo. A poco a poco il sorriso si fece più stirato, e la voce calò in un sussurro roco. L’atmosfera attorno a Olbo divenne meno tersa, meno splendente. Il ragazzo non ne venne spaventato: forse era consapevole fin da subito che il veleno avrebbe infettato prima o poi anche il suo corpo atletico. O forse neppure si era reso conto di ciò che stava succedendo.

Infine Miso cercò di intaccare anche Agape, una donna dalle dolce sembianze. Anche Agape era irrequieta, cercava, cercava, ma non riusciva mai a raggiungere la sua meta, non si sentiva mai del tutto soddisfatta. Aveva la scomoda capacità di vedere sempre il difetto, di scorgere sempre la pecca, la mancanza, l’incompletezza. In Miso trovò la perfezione. Quel veleno così puro, quelle stille corrosive erano per lei balsamo e nettare. Agape stava cercando una risposta e finalmente la trovò in Miso, in quell’uomo oscuro dalla faccia contratta in un ghigno, come una maschera di teatro. Agape gli strappò la maschera e diede una risposta alla tacita, disperata domanda di Miso.

In fuga

Non aveva legami. Per scelta e per necessità. Era solo.

Alcuni avrebbero potuto considerarlo libero. Ma lui si sentiva spesso in trappola. Una gabbia invisibile costruita con le sue stesse mani.

Non riusciva a partire, non aveva nessuno al suo fianco con cui condividere, con cui parlare. Non riusciva a capire ciò che per molti era così semplice, l’amore. Questo sentimento gli risultava un estraneo, un enigma fatto di occasioni perdute, di esperienze da dimenticare, di rifiuti cocenti, di rimpianti e ferite.

Il passato era passato. Domani andrà meglio. Erano parole vuote che si ripetava costantemente, ma che sapeva essere solo involucri privi di significato.

Per questo avevo tentato una fuga diversa, non fisica. Non c’erano valigie da preparare, porte da chiudere, fuochi da spegnere.

Si distese semplicemente tra l’erba alta del prato e guardò il cielo. Si immaginò uccello, libero dalla gravità, mentre volteggiava tra le nubi. E tra le torri del cielo abbandonò anche quel corpo pennuto e mutò natura divenendo lui stesso nuvola. Procedeva spedito sospinto dal vento, finché non si sentì pesante, instabile, nero e precipitò come tempesta a terra. Si infiltrava nella terra umida, si perdeva in ruscelli veloci, in immensità salate, sciovolava tra le rocce scoscese.

In quel viaggio la solitudine si annullava. Vedeva uomini che si muovevano come una massa informe a terra, avanzavano lentamente e per breve spazio, per poi tornare indietro.

Da goccia, poi, poteva scorrere leggera sulla pelle di una ragazza, poteva accarezzare capelli e volti. Era in grado di portare la vita anche nel deserto.

Per superare la paura dell’abbandono, racchiudeva in sé tutto il cosmo.

Per trovare amore infrangeva i suoi confini mortali.

Per fuggire dai suoi pensieri diventava tempesta.

Kalypso

Lo vado là, tra gli scogli, che guarda il mare. Desidera una mortale, e per questo rifugge l’immortalità.

Sogna una piccola isola di rocce, disdegnando i bei prati che offre questa terra.

Rimpiange un bimbo divenuto ormai uomo.

Pensavo di aver trovato finalmente qualcuno che avrebbe spezzato la solitudine che mi attanaglia.

Gli ho offerto tutto. Il mio corpo, i miei sentimenti, la mia dimora. Avrebbe potuto godere di limpidi ruscelli, di una fertile terra che regala i suoi frutti senza bisogno di lavorarla, di alberi frondosi che offrono carichi di frutti in qualsiasi periodi dell’anno.

Ma io la sento. Sento la voce del mare. Ogni giorno si fa più forte. Lo chiama a sé.

Il mio cuore è ora come la mia dimora: una grotta vasta, con sale e anfratti. Ma di dura e fredda pietra, vuota. Solo eco a volte viene a farmi compagnia, ripetendo senza tregua crudele i miei sospiri. Non sento ormai più il cinguettio mattutino, ma solo il silenzio di un vuoto incolmabile.

Me ne sto qua a tessere, copia divina di un’imperfetta umana che gode di un amore perfetto.

Sento anche te, messaggero. Ne sono consapevole, il giorno è arrivato. Il vento soffia più forte, il mare chiama con insistenza. Pure tu hai intrapreso un lungo viaggio.

Che gli alberi delle mie terre vengano abbattuti. Che la tela che tesso diventi vela.

Straniero. Mio amato. È ora. L’orizzonte ti inghiotterà. Sei libero, ma condanni me alla prigione della malinconia.

E a me cosa resta? Una fertile, generosa e stupenda terra che diventi dimora della mia solitudine. Un’immortalità che non conoscerà amore. Una bellezza mai elogiata.

Medea

Nipote del Sole. Perenne straniera a casa propria. Sarà la mia cadenza, il mio aspetto, la mia pelle, le mie vesti. Qui tutti mi guardano con sospetto.

Strega, incantatrice, ingannatrice. Straniera, assassina, parricida.

Parole taglienti che mi inseguono ovunque vada.

Ma ho sempre sopportato per amore di quest’uomo. Per lui tradii la mia famiglia, abbandonai la mia patria lasciandomi alle spalle una scia cruenta di sangue.

Con le mie mani l’ho fatto a pezzi. Con le mie mani l’ho gettato dalla nave. Con le mie mani rosse.

E mio padre perse figlio e figlia.

Ed ora io non basto. Cupido mi volge le spalle e vola verso quella ragazza silente.

Si è dimenticato forse dei nostri figli? Dei miei inganni? Chi sarebbe lui senza il mio aiuto?

È ora di vendetta. Le mie mani torneranno rosse. È ora che il dolore cali sul suo capo. È ora che mi riprenda ciò che gli ho donato.

Presto, portate questo manto alla giovane sposa. La sua vanità le sarà fatale.

E voi, chiamate i miei figli, che vengano da me. È ora di andare, è ora di solcare il cielo sul carro divino.

Non piangete bimbi miei. Il mondo è troppo crudele, troppo feroce perché vi meriti. Nessuna curruzione vi contaminerà mai.

Per me la rovina è già arrivata. E le mie mani sono rosse.

Ingranaggi innamorati

Valvole, stantuffi, meccanismi.

Il mio cuore è un orologio che ticchetta. Non accelera e non ha paura. Non perde colpi e non rallenta. Segue il ritmo dei secondi.

Le mie vene sono tubi. Il sangue che scorre è carburante. Costante corre in tutto il corpo e mi dà energia, mi muove e mi sostiene.

I miei muscoli sono ingranaggi di metallo, ben oliati, perfettamente funzionanti.

I miei occhi biglie trasparenti. Il mio cervello una scheda con sopra disegnato un labirinto.

Non ho piedi, ma ruote, non ho voce.

E il tichettio non si è mai alterato. Il carburante non ha mai rallentato. I meccanismi non si sono mai fermati.

Finché un giorno non vidi lei.

Era una di voi. Aveva una pelle candida, morbida, non fredda, dura, metallica.

Labbra rosse. Braccia e gambe. Era perfetta.

Persi i secondi. Poi arrivarono tutti insieme. Io, che non respiro, rimasi senza fiato.

E allora vi invidiai. Avrei voluto un cuore birichino. Avrei voluto arrossire. Avrei voluto porgerle una mano, assaggiare le sue labbra.

Avrei voluto una voce per parlarle.

Avrei tanto voluto non essere io.