Da solo – Giorno 16 Real Game – FINE

L’ultimo soggetto si è dimenticato del suo diario, che è stato rimosso dalla sua versione virtuale. Il comportamento si è normalizzato. Il recupero dei ricordi si è interrotto, nessuna traccia della stanza delle prove in cui sono presenti i centoventisei soggetti. Nonostante sembrasse spaventato dall’austerità della stanza, ha completato il ciclo di preparazione e ha indossato il visore.

Nella stanza non si sentono rumori, solo un ronzio del ricambio d’aria che permette di mantenere una temperatura ideale e costante. Solo di tanto in tanto qualche giocatore emette un suono inarticolato, per qualche incontro inaspettato nel proprio mondo, di piacere o di dolore.

Nella stanza entravano solo i nuovi adepti per i quali venivano aggiunte delle poltrone, e il personale, che si occupava a riempire le sacche di alimentazione collegate ai giocatori e a occuparsi dell’igiene degli stessi. Per il resto, regnava una tranquillità assoluta.

Nella sua raduna, poco lontano dalla spiaggia, Andrea si dilettava a mangiare frutti e a tuffarsi nel fiume di risorgiva senza più preoccupazioni, dimentico di Clara e persino del suo nome. La sua mente non si poneva domande su come fosse finito in quel posto. Aveva accettato la sua situazione, l’aveva trasformato un’abitudine così confortevole da poterne più fare a meno. La scritta Real Game sull’edificio anonimo scomparve del tutto, anche se talvota alvrebbe giurato di aver sentito una mano fugace che gli tastava il braccio.

Poco lontano Clara viveva la sua vita piena di avventura che aveva sempre desiderato. Non fece più incursione nel mondo di Andrea, di cui aveva dimenticato l’esistenza. La nonna di Andrea, nelle prime file, si immaginava di galleggiare in aria come un lucciola, sorretta da una famiglia calorosa e di successo, quella che aveva sempre sognato e mai avuto. Venne svegliata ancora sognante quando i paramentri iniziarono a essere preoccupanti e trasferita in una struttura adatta con la diagnosi di demenza e deperimento.

Nei loro mondi i soggetti erano felici, e sulla bocca di tutti aleggiava un sorriso di beatitudine difficile da vedere nella realtà. Ma il loro guscio di serenità non era che un’illusione in una spoglia stanza di cemento.

Quando gli investigatori entrarono a Real Game, si chiesero quali sarebbero stati gli effetti di svegliare questi sognatori di felicità.

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Campi Elisi – Pt. 16

“Per amore, però, caro poeta, io ho rinunciato al sole”.

“Mia regina, Proserpina, la ragazza della primavera. Dicono che non sia stato amore ciò che ti ha condotto in questo regno, ma un rapimento e un chicco di melograno”.

“Ero giovane, ma ero pur sempre una dea. Conoscevo le leggi dell’Oltretomba, della vita e della morte. Ade mi scelse, e io decisi di rimanere. Come può un melograno, simbolo di vita e di fertilità, trovarsi in queste terre fredde? Ora questa è la mia casa, anche se nella stagione della rinascita salgo nel vecchio regno mutante di mia madre, a vedere il sole”.

“Perché le anime vagano nei Campi Elisi, perché non destinarle all’oblio, come le moltitudine che si perdono nell’oscurità della morte?”

“Sono regole, Omero, regole che Ade stesso non può governare. E poi ci sono le scelte. C’è chi non vuole dimenticare e non vuole essere dimenticato, riducendosi a spettro di se stesso”.

“Anch’io”.

“Quale poeta auspica l’oblio? Anche il più oscuro scribacchino sogna la fama, un qualche riconoscimento. I mortali desiderano l’eternità, così come gli dei invidiano la loro mutevolezza”.

“Non sembra esistere mondi felici”.

“Ti sbagli, esistono. Sono una miriade di universi creati in attimi di felicità, sono frammenti troppo spesso sottovalutati e dimenticati, risate e abbracci che sono fioriti con una bellezza che farebbe sbiadire persino la rosa più bella. Una volta passati, però, il loro sole si spegne, inghiottito dalla quotidianità”.

“Proserpina, almeno tu hai trovato il tuo posto?”

“È ora di tornare tra i tuoi eroi, Omero”.

Campi Elisi – Pt. 15

Eracle, l’eroe di altri tempi, troppo grande anche per dei poemi di guerra o di viaggio. Il suo coraggio ha sconfitto perfino l’invidia degli dei, ma non quella di un centauro e neppure la gelosia della moglie. I sentimenti sono la forza e la debolezza degli uomini.

“Sono sceso anzitempo in queste terre, ho sconfitto mostri, o viaggiato, ma non mi ricordo nemmeno il motivo. Forse una promessa, forse una gara o una lite. Quel che è certo, è che ho sofferto, ho rinunciato alla mia libertà, per fatiche che un dio mi ha imposto”.

“E sei diventato celebre. Le tue statue sorgono in ogni città”.

“Che ne puoi sapere tu di statue, poeta cieco? Che ne sai delle sofferenze e del dolore. Ho fatto una scelta una volta, ho imboccato la strada dell’eroe, e come Achille sono andato incontro alla mia rovina”.

“La rovina va incontro a tutti, celebri o ignoti. Tutti siamo risucchiati da un vortice di dolore, solo pochi riescono a emergere e spiccare il salto verso l’Olimpo. Dicono che tu ce l’abbia fatta, un semidio, l’eroe umano”.

“Tutto quello che mi ricordo è il bruciante istante in cui sono stato tradito. Deianira, una donna, mi ha ridotto in cenere. L’eroe di ogni tempo, ingannato da un morto”.

“Deianira non voleva ucciderti, voleva solo amarti”.

“A volte l’amore ferisce più di un leone, non può essere domato, e neppure eliminato. Come avrei potuto ucciderla?”

In questi campi il rammarico scorre come un fiume che sussurra le possibilità perdute, le vite non vissute e le pene che si sarebbero risparmiati. Ma dell’amore non c’è che una debole traccia, offuscata dalla miseria della vita.

Veleno

Sentiva le vene colme di liquido mortifero, non di sangue, non di vita. È la rabbia che trabocca, come se si trovasse in un vaso troppo stretto, dal collo che diventa sempre più sottile. Il veleno è stato iniettato, dapprima in piccole quantità, come a emulare Mitridate, e poi in dosi sempre più massicce. Finché non era diventato lui stesso veleno. E Miso si sentiva colmo di energie, certo, ma di energie distruttive. Una belva stava premendo contro il suo petto, tanto da fargli male le costole: anelava a uscire, a passeggiare per il mondo indifeso e inconsapevole. Voleva scorrazzare liberamente, spargendo in ogni angolo il suo venefico odio. Perché quel veleno aveva un nome, odio, e aveva anche una compagna, delusione. Una coppia mortale. Miso sapeva che se non avesse lasciato straripare tutto quel veleno, si sarebbe corroso, diventando un’ombra colma di rancore.

L’ombra faceva paura a Miso, che cercava di fuggirla in ogni modo. Forse perché gli ricordava quel grumo oscuro che dimorava nel proprio petto. Per cui scelse il sole, scelse di lasciare libertà alla serpe affamata che chiedeva a gran voce di affondare le sue zanne su vittime e carnefici. Non voleva uccidere, Miso, voleva solo che anche altri sentissero la sua stessa rabbia, il suo sconforto. Sperava anche di diminuire quel veleno, che era stato causa di una solitudine irreversibile. Miso si mise, quindi, a viaggiare, a conoscere gente e persone, a contaminare, a sbranare.

Iniziò timidamente. Scoprì ben presto che il veleno è molto più dolce e più allettante di una coppa di sidro. Cominciò con una ragazza Ablabia, e fu fin troppo semplice. Questa sembrava fidarsi di tutti, se ne andava in giro con quegli occhi chiari, colmi di semplicità e di curiosità, nella convinzione che tutto il resto del mondo fosse innocente come lo era lei. Ma Miso le fece vedere, le aprì gli occhi, che si fecero più torbidi, più scuri. Ablabia si chinò alla nuova verità, guardò il cuore di Miso, ne intravvide la belva. Ed ebbe paura. Fuggì, ma non andò troppo lontano, limitandosi a seguire da lontano la furia distruttrice di Miso.

Toccò poi a Olbo, un ragazzotto dall’aria perennemente eccitata, con il sorriso sempre stampato sulle labbra. Salutò Miso con un tono di voce troppo alto e inizialmente sembrò avere la meglio sulla tenace ira di Miso. Fu solo un attimo. A poco a poco il sorriso si fece più stirato, e la voce calò in un sussurro roco. L’atmosfera attorno a Olbo divenne meno tersa, meno splendente. Il ragazzo non ne venne spaventato: forse era consapevole fin da subito che il veleno avrebbe infettato prima o poi anche il suo corpo atletico. O forse neppure si era reso conto di ciò che stava succedendo.

Infine Miso cercò di intaccare anche Agape, una donna dalle dolce sembianze. Anche Agape era irrequieta, cercava, cercava, ma non riusciva mai a raggiungere la sua meta, non si sentiva mai del tutto soddisfatta. Aveva la scomoda capacità di vedere sempre il difetto, di scorgere sempre la pecca, la mancanza, l’incompletezza. In Miso trovò la perfezione. Quel veleno così puro, quelle stille corrosive erano per lei balsamo e nettare. Agape stava cercando una risposta e finalmente la trovò in Miso, in quell’uomo oscuro dalla faccia contratta in un ghigno, come una maschera di teatro. Agape gli strappò la maschera e diede una risposta alla tacita, disperata domanda di Miso.

Altalena

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È difficile la vita da altalene. Lo so, è una metafora scontata: sono sempre qui, a oscillare avanti e indietro, mi proietto verso il cielo per poi ripiombare in basso, e poi ancora su, e giù un’altra volta. Ma, credetemi, la vostra metafora non è nulla in confronto alla mia esistenza. Perché io sono un’altalena, una vera altalena, fatta di legno e metallo, catena e corteccia.

A volte invidio le mie luccicanti sorelle di plastica, rosse come il rubino o blu come il cielo. Però devo ammettere che invecchiano proprio male: si scheggiano, sbiadiscono, si rompono. Inoltre vengono usate solo dai bambini. Io no, io invecchio, certo, ma il tempo mi rende sempre più affascinante, anche per i ragazzi e gli adulti che voglio tornare bambini, che vogliono ricordare il primo bacio. Ho sentito molte mani sulle mie catene. Alcune si stringevano forte forte per la paura, altre invece non vedevano l’ora di mollare la presa per sentire il vento scorrere tra le dita. Ho sentito risate divertite, richieste capricciose. Persino qualche pianto triste e qualche tonfo di un impavido con poco equilibro.

A ogni scalata verso il cielo, però, c’è la discesa nel dolore. Conoscete la storia di Persefone, perennemente divisa tra cielo e inferi? Anche lei oscilla come un’altalena tra la vita e la morte, incapace di scegliere una delle due. Ecco, lo stesso succede a me. Ci sono lunghi periodi in cui divento solo un ammasso di ruggine e di legno marcito, abbandonata da tutti, scosso dal vento che riesce a smuovermi solo di pochi centimetri. Talvolta sono anche oggetto delle bravate di qualche ragazzino che si sente adulto o che sfoga la sua rabbia sulla mia carcassa.

Dura la vita da altalena. Non si riesce mai a trovare un equilibro.

Mali silenziosi

Si dice che dei mali sia piena la terra. I morbi si aggirano tra gli uomini giorno e notte, portando sventure e dolore. In silenzio, perché privati della voce. Dicono che così volle Zeus, affinché non fosse possibile ingannare la sua mente.

E così scivolano senza essere percepiti, e come serpi attaccano, mordono, o avvolgono in spire sempre più strette le vittime. Avvelenano l’anima, irretiscono i sensi, paralizzano i muscoli con il loro veleno.

In un primo momento sembra solo una tristezza passeggera, un malessere di poco conto, un’ombra pallida di dolore.

Ma poi la malattia esplode con tutta la sua violenza. Scorre nel sangue, avvelena le cellule, corrode le ossa, offusca la mente.

La luce allora si affievolisce, diventa un pallido lume. Il dolore allunga le sue dita, allontana chiunque dalla vittima per averla tutta per sé. E la consuma, lentamente, inesorabilmente.

I dolori si aggirano muti.

Perché gli uomini non possano scappare. Perché non possano assaggiare la felicità degli dei. Perché debbano sempre pregare chi dolore non conosce di risparmiarli. Perché vivano ogni mortale felicità con la consapevolezza che il fato potrebbe mutare.

I mali sono silenziosi. Ricordatelo.

Lo straniero e la libertà

Che cosa ti spinge così lontano, straniero?

La curiosità. La vita. La libertà. Io posso andare dove voglio. Nessun legame mi trattiene, nessun vincolo mi lega.

Ti puoi considerare libero?

Sono libero da ogni impedimento. Non amo, non ho nessuno per cui fermarmi. Non appartengo, non esiste terra che possa chiamare patria. Non compro, non esiste denaro che mi possa tentare. Non abito, non esiste casa che mi possa contenere.

E ne sei felice?

Non sono schiavo neppure della felicità. La sua ricerca ha rovinato molti uomini.

E allora perché piangi, straniero?

Perché nonostante tutto la nostalgia mi sta tormenta il cuore. E non ne comprendo il motivo.