Imprigionati in un rettangolo

Ho alzato e girato la sguardo, ma non ho incontrato altri sguardi, solo colli piegati verso il basso per guardare uno schermo luminescente.

Accanto alla critica legata ai passatempi troppo solitari, è stata posta la necessità di fare amicizie. Lo so, non sono il genere di persona che lega facilmente con gli altri, fin da piccola. Basti pensare che la maestra d’asilo fece notare ai miei genitori che avevo delle amicizie selettive. All’epoca non era una pecca insanabile di un carattere troppo introverso, era semplicemente un dato di fatto. Le cose non sono cambiate più di tanto con il tempo: continuo ad avere le mie amicizie, ma molto selettive. Non sono espansiva, non voglio piacere al mondo intero, non mi interessa avere la rubrica piena di nomi dei quali a stento mi ricordo la faccia.

Ora, però, la difficoltà di fare conoscenze è resa ancora più ostica da questa nuova gabbia, questo rettangolo che lega mente e occhi e che irritisce i sensi più di una maledizione. Strano come uno strumento così forte, che in effetti ha moltiplato le nostre possibilità e che ci permette di più libertà e informazioni, possa tramutarsi in un ostacolo. I ragazzi non parlano, i ragazzi guardano.

Quando sono entrata per la prima volta all’università, la realtà era diversa: quasi nessuno aveva uno smartphone, avevamo i cari, indistruttibili cellulari, che potevano essere lanciati nella borsa senza paura che subissero qualche danno. Per quanto mi riguarda, la conversione alla versione più tecnologica è avvenuto al quarto anno di università e non nego che le comodità che offre siano nettamente maggiori di quelle del macinino cui ero tanto affezionata.

In aula non ho mai assistito a scene come quelle che mi circondano quotidianamente. Che cosa trovi in quel cellulare o in quel tablet? Che cosa ti rapisce? Non lo so: quando ho del tempo libero leggo un libro, lo trovo più rilassante perché imprimo io il ritmo da dare, non subisco il martellare dei video di pochi secondi.

Abbiamo perso un pezzo di libertà? A vedere quegli sguardi fissi, penso proprio che sia così.

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Strato a strato

Si spogliava di ogni orpello e copertura, strato dopo strato riscopriva la sua pelle. Prima caddero gli ori, pesanti come pietre, lucidi come stelle e soli. Il tintinnio si perse nell’aria e nel silenzio.

Seguirono le vesti. Un velo dopo l’altro si adagiavano a terra, con un fruscio impercettibile. E su ogni velo si era adagiato un pezzo d’anima, un residuo di persona, granello di polvere di mondo.

Infine tolse i calzari, per rimanere a piedi nudi a sentire il suolo umido e puro, che vibrava di vita e di rabbia. E ora era libera di sentire il calore sprigionato dalla sua pelle. Libera di rabbrividire e di ridere, di urlare e piangere. Libera di tuffarsi finalmente in un mare traboccante di vita.

Nausicaa

Uno straniero che viene dal mare.

Molti sono stati i naufraghi gettati dalle onde impietose su queste spiagge. Ma nessuno come lui. Non sembrava un disperato, macilento, ma aveva qualcosa di regale. Gli occhi erano una calamita, profondi come il mare, tristi, enigmatici.

Le fanciulle che mi accompagnavano erano già fuggite. Io no, rimasi, stregata. E gli porsi le vesti. Lo accompagnai a palazzo, da mio padre, tra gli sguardi curiosi dei cittadini. Una principessa accompagnata da uno straniero suscita sempre domande indiscrete.

Anche il re ne fu affascinato. Lo accolse come un suo pari, gli offrì un banchetto, chiamò gli aedi che cominciarono a cantare storie terribili, di eroi che avevano combattuto e che si erano persi, senza più riuscire a riabbracciare i propri figli.

Lo straniero ne era scosso. E cominciò a raccontare. E davanti a me comparvero creature leggendarie, sirene, maghe, tremende creature monocole figlie del dio del mare, compagni avventati.

Davanti a me un mondo sconosciuto. Terre lontane. Bastava solo prendere il mare, passare quei limiti così stretti dell’isola.

Padre, non voglio sposare lo straniero. Padre, io voglio vedere,scoprire, vivere.

Apparenze

Mi avete lasciato mentre nuotavo tranquillo in questo strano lago artificiale, dalle pareti trasparenti, con dei coinquilini tanto vistosi quanto ingombranti.

Forse non vi ricordate di me, sono il pesce rosse finito per gioco del destino in un acquario di pesci tropicali.

È da un po’ che non faccio sentire la mia voce, ma ho avuto anch’io il mio bel da farsi per sopravvivere in questo mondo.

Facile, direte voi, sopravvivere in un acquario!

Ebbene, sono pronto a smentirvi. Voi avete sempre la possibilità di fuggire, abbandonare i luoghi che vi opprimono. Io, invece, non posso muovermi. Sono bloccato qui, senza via di fuga. Pinna a pinna con queste stupende, luminose creature.

E poi, se non erro, anche voi avete il vostro acquario. Magari non fisico. Però ammettetelo, pure voi sguazzate in un angolo limitato del mondo, sicuro ma angusto.

Ma torniamo a me. Ammetto di aver tentato di adeguarmi a loro, a quegli stupendi esseri che condividono con me queste acque.

Ho scoperto che anche queste creature così eteree perdono talvolta le loro squame. Io le ho raccolte tutte, e mi sono confezionato la mia bella veste lucente. Un’armatura eroica. Una corazza di gemme.

Purtroppo, com’è risaputo, noi pesci difettiamo di memoria. Così ben presto mi dimenticai che quella che avevo addosso era solo un’apparenza di gloria, un inganno, anche piuttosto goffo. Mi chiesi perché le mie squame diventassero opache, grigie, più banali del mio già banale colorito. Non riuscivo a spiegarmi neppure le risate dei miei compagni né il motivo per cui fuggivano da me.

Che mi fossi malato?

Un giorno la mia veste rimase impigliata in un corallo e si strappò. Mi sentì subito più leggero, agile. Mi sentì rinato. Mi ero liberato da quella pelle morta, che non mi apparteneva.

Ero di nuovo io. Carassius Auratus. Alla faccia di quei vanagloriosi.

Lo straniero e la libertà

Che cosa ti spinge così lontano, straniero?

La curiosità. La vita. La libertà. Io posso andare dove voglio. Nessun legame mi trattiene, nessun vincolo mi lega.

Ti puoi considerare libero?

Sono libero da ogni impedimento. Non amo, non ho nessuno per cui fermarmi. Non appartengo, non esiste terra che possa chiamare patria. Non compro, non esiste denaro che mi possa tentare. Non abito, non esiste casa che mi possa contenere.

E ne sei felice?

Non sono schiavo neppure della felicità. La sua ricerca ha rovinato molti uomini.

E allora perché piangi, straniero?

Perché nonostante tutto la nostalgia mi sta tormenta il cuore. E non ne comprendo il motivo.

Libertà

Il giorno era arrivato. Il giorno della ribellione.

L’orso ruppe la catena, spezzò la museruola, si sbarazzò delle pezze che fasciavano le zampe.

Mai dimentico della sua natura selvaggia, scomparve nei boschi. La sua casa, la sua patria la stava aspettando. I giullari, perplessi, rimasero sulla strada immobili. In mano tenevano un moncherino inutile di corda.

Una vita in gabbia, a vedere il piccolo mondo degli uomini, a mangiare carcasse. La frusta era stata la sua maestra, il collare il suo unico compagno, le grida il solo verso che conosceva. Oltre quello delle risate.

Risate crudeli che ferivano più di mille sferzate. Deridevano la sua goffaggine nel reggersi su due piedi. Ridevano della sua disperazione, del suo grugnito che non era altro se non una richiesta di pietà.

Aveva conosciuto solo quel mondo. Il tendone, gli umani che lo tenevano al guinzaglio o in gabbia mentre lo portavano da un villaggio all’altro. E lui non eta più una creatura,era solo un gioco, una curiosità, un intrattenimento circense.

Ma, a volte, quando costeggiavano il bosco, sentiva un richiamo, sentiva una forza violenta, una nostalgia mordace.

Voleva andarsene, abbandonare quel posto opprimente, quelle persone insoddisfatte e violente, che godevano del dolore altrui, sperando di trovare sempre una qualche creatura da maltrattare e schiacciare.

Voleva trovare il suo posto, la sua tana sicura, accogliente, i suoi simili che lo avrebbe rispettato.

Voleva indietro la sua dignità,

Basta colori sgargianti, vincoli, beffe, violenze.

Era ora di andare, era ora di conquistare la libertà.

Agave

Paralisi interiore. Così si sentiva mentre se ne stava chiusa nelle sue stanze, le più remote all’interno del palazzo. Era in gabbia. Non solo. Il suo cuore era rinchiuso in una prigione che gli impediva di battere più forte. Una barriera pesante, scura, che occultava le sue passioni e i suoi sentimenti.

Era un ramo spezzato, secco, piegato a terra prima ancora di aver avuto la possibilità di sbocciare.

Era un giorno grigio d’inverno, in cui il cielo era nascosto da una trapunta di nubi.

Era un feto atrofizzato, bloccato dalla paura di mostrare veramente chi fosse, di ballare nuda e libera, dimentica delle ferite e delle preoccupazioni.

Finché un giorno non decise di abbattere quel muro. E corse. Corse fuori dalle sue stanze. Corse fuori dal palazzo, dalla città. Superò i campi, il fiume, rifuggì le case, e si rifugiò nel bosco alla ricerca di quel raggio abbagliante che avrebbe squarciato le nuvole.

E iniziò una danza sfrenata, infernale, senza mai fermarsi se non quando le ginocchia cedettero e i mille colori che le vorticavano attorno non assunsero i toni della morte.

Nelle narici l’odore dell’erba fresca le dava forza vitale. Sognò di volare vicino al sole con la pelle che ardeva, e di precipitare tra l’indifferenza della gente in acque sconosciute. Si immaginava mentre nuotava tra creature meravigliose e terrificanti per poi emergere più viva che mai. Si vide nei panni di una cacciatrice che con una forza inaudita abbatteva un leone. Le sembra quasi di sentirne il calore del sangue che le colava dalle mani.

Che la prigione sia abbattuta. Per sempre. A qualsiasi prezzo.

Venti

Non cercate di imprigionarmi. Sono uno, ma sono molti. Vago per la terra, per il mare, batto le montagne. Posso essere l’innocua brezza che scompiglia i capelli ad una ragazza, o trasformarmi in una potenza capace di sradicare alberi e alzare case.

Innalzo il mare con onde capricciose, a poco a poco sgretolo le montagne. Faccio cantare le rocce ed ululo nella notte. Gioco fra le foglie facendole secche danzare, mi nascondo tra i rami degli alberi facendoli oscillare

Mi insinuo nei vostri cuori, facendovi sentire odori di posti lontani. A volte porto un briciolo di follia, altre una certa afasia. Raduno le pecorelle di un’immenso pascolo azzurro.

Hanno cercato di chiudermi in un vaso, ma inutilmente. Mi hanno sfruttato, schiavizzato. A volte, però, mi ribello,e strappo le vele, abbatto le eliche. Sono il re dell’aria, una volta tanto amato quanto temuto.

Stato brado

Correre. Ho bisogno di correre, saltare, ballare. Urlare al vento la mia rabbia, le mie paure.

Perdere il controllo, non avere scadenze e doveri. Non essere giudicati e valutati. Semplicemente correre. Senza pensieri, con l’aria fredda che trafigge i polmoni, che taglia la pelle e si insinua tra i capelli.

Sentire l’odore della vita, della libertà. A piedi nudi, senza avere paura di sembrare sciocchi, inadatti, inefficienti. Senza sentire costantemente gli occhi maligni di chi aspetta una caduta.

Vorrei dimenticare quegli ostacoli che si dipanano davanti a me, le leggerezze che ho lasciato alle spalle, le difficoltà che trattengono i piedi.

Semplicemente correre. Con delle gambe che non sentano stanchezza, che non siano pesanti. Urlare. Con una voce che non sia impostata, che non sia ammaestrata.

Tornare per pochi attimi allo stato brado.