Multiforme – Pt. 12

“Mary?”

“Oh, mio caro, Mary è morta. Non ti ricordi? L’hai uccisa tu. Fammi vedere le mani: portano ancora il suo sangue? No, non credo. La tua mente è tanto acuta quanto egoista. Davvero non mi riconosci?”

La riconobbi non appena mi voltai. La somiglianza con Mary era impressionante, cosa normale visto che Angela Carrier non era altro che Elisabeth, la giovane sorella di Mary. Era diventata una bella donna, ma aveva gli occhi di ghiaccio di chi è abituato a non lasciarsi trascinare dalle emozioni. L’ultima volta che l’avevo vista mi aveva quasi mandato al creatore con un sottile pugnale.

“Non ti preoccupare, Albert, non ho pugnali qui. Ma la pagherai, lo sai bene”.

“Ulysses. Qui mi chiamo Ulysses. Albert è rimasto a Londra, a fare da esca per il commissario. Prenditela con lui per la morte di tua sorella, Elisabeth”.

“Angela. Non è il commissario che ha sparato a Mary. Dopo averla pugnalata al cuore, anche se quella ferita era più dell’anima che del corpo. L’hai usata per aprirti una strada nella vita del commissario e poi l’hai gettata via, per paura di rimanere incastrato nella tua stessa trappola”.

“Ne sono rimasto incastrato, e mi sono staccato una zampa per fuggire”.

“Come una volpe. Peccato che questo abbia ucciso mia sorella”.

“Che cosa vuoi, Angela?”

“Voglio Paul McMiller”.

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Tensione

Ci siamo spinti oltre il limite, questa barriera non ci fa paura. Alla fin fine i confini non sono che semplici segni nella mente degli uomini, nella realtà c’è sempre qualche pertugio per passare da un versante all’altro.

Ci siamo allungati, stiracchiati, abbiamo steso le dita e cercato di rendere ancora più lunghi i nostri arti. In un primo momento non sapevamo nemmeno che ci saremmo incontrati. È stata la curiosità a spingerci a cercare. Ci siamo messi in viaggio in direzioni opposte, io verso di te, tu verso di me, finché la nostra figura non è comparsa all’orizzonte di entrambi.

Una curiosità generica è diventata una curiosità specifica. Sentivo che un’anima affine mi stava accanto, sapevo che, se ti avessi sfiorato, sarebbe scoppiata quella bolla di solitudine in cui mi sentivo invischiato. Sarebbe stato un vagare senza senso se non ti avessi trovato sulla mia strada.

Forse non potremmo mai camminare insieme, siamo troppo ancorati a questa terra. Ed è meglio così, fidati. Questo sfiorarsi, questa tensione ci rende vivi, alimenta il desiderio di ciò che potrebbe essere perso a ogni momento.

Può una tensione essere positiva? Certo, questo legamene che non si salderà mai, riuscirà a superare la fissità delle radici.

Multiforme – Pt. 5

In una nave la tecnica deve cambiare, anche perché il tempo in luoghi di questo tipo, cambia, si dilata, almeno nella testa dei passeggeri. Non sono possibili gite fuori porta, il paesaggio è una monotona distesa di acqua, e i commensali sono i soliti compagni di viaggio. Quello che hanno bisogni i ricchi fortunati della prima classe è di una distrazione, e se si vuole entrare nelle loro grazie, è meglio trovare il modo per garantirla. E a due giorni dalla partenza ancora non avevo capito come fare: una perdita di tempo inaccettabile.

E Annette, una ragazza piacente che si occupava delle pulizie, costituiva una tessera fondamentale per ottenere le giuste informazioni.

“La duchessa di Greville?” mi chiese dubbiosa mentre si rivestiva. “E chi sarebbe?”

Peccato che la ragazza non avesse nessun interesse per i nomi. Per lei era solo una questione di numeri di camere e di fissazioni di chi vi alloggiava.

“Una vecchia signora, che viaggia da sola verso l’America per incontrare suo nipote” le spiegai.

“Può essere che sia la stanza 106. Più che stanza è un appartamento, ma è evidente che ci sia qualcuno di anziano, vista la quantità di coperte e di corpetti che non vanno più di moda. Una donna sola, comunque: nessuna foto, nessuna lettera da parte di nipoti. Anzi, una foto c’è, messa propria sulla specchiera: è di un cane, uno di quelli piccoli, con gli occhi sporgenti”.

Mi alzai e le cinsi la vita. “Uhm, neppure io ho foto”. “Già, un uomo solo, ma moderno, con una certa passione per i capelli” mi disse con una risata indicando la pomata vicino allo specchio.

“Perché ti interessa quella vecchia?”.

“Magari ho degli strani gusti”. Le diedi un morso scherzo su una spalla e mi affrettai a vestirmi. L’ora del pranzo era vicina.

Da solo – Giorno 14 Real Game

Mentre Andrea seguiva la signora, cercava di ricordare il nome della nuova azienda per cui lavorava Clara: all’improvviso gli sembrò che avesse un nome molto simile a Real Game. Clara lavorava come grafica, ma, pochi giorni prima di scomparire dalla sua vita, aveva cambiato lavoro.

“Mi scusi”, ma la signora continuò spedita varcando l’entrata. Andrea si trovò in una stanza grigia come l’esterno, con la stessa scritta, anche se più piccola, su una parete. La signora gli porse un bicchiere colmo di acqua fresca. “Grazie. Senta, per caso qui lavora una Clara?”

“E a lei, piacerebbe lavorare qui? Badi bene, sarà un grande cambiamento di vita, ma anche la sua Clara non era molto soddisfatta della sua esistenza. Certo, il motivo principale della sua insoddisfazione era lei, ma probabilmente non eravate complementari. Allora, vuole cambiare la sua vita?”

Andrea la guardò un po’ perplesso. “Non so nemmeno di che cosa vi occupiate, né come si chiami lei. E di che cambiamento sta parlando?”

“I suoi dubbi sono leciti”, notò la signora. “Mi chiami pure Bianca. Si trova nella sede di sviluppo di una delle più innovative aziende di giochi virtuali. Siamo un’eccellenza a livello mondiale: i nostri giochi non si limitano a intrattenere, ma danno ai nostri partecipante ciò che vogliono. Tuttavia, i nostri prodotti sono ancora in fase di sperimentazione. Lei ci aiuterebbe a testare il prodotto. Basta che lei si immerga nel gioco, al resto, penseremo noi”.

Andrea la guardava e allo stesso tempo pensava alla possibilità di cambiare vita, nello stesso modo in cui lo aveva fatto Clara.

“Allora?”  insistette Bianca.

Da solo – Giorno 13 Real Game

Il luogo in cui sorgeva Real Game era lontano da qualsiasi centro abitato, non distante da uno svincolo autostradale. La struttura era anonima, come anche il nome: grigia, cubica, senza fronzoli, con poche e minuscole finestre che si aprivano nere verso l’esterno.

Andrea si era fermato durante il viaggio perché si sentiva confuso e era ancora lontano dalla prima area di servizio. Il suo stato di agitazione era dovuto all’impressione di star facendo qualcosa di sbagliato, di star buttando via la vita. Ma ciò che gli toglieva il fiato era la solitudine. Non lo aveva mai ammesso, ma da quando Clara se ne era andata, gli mancava più una presenza in casa la sera che il carisma di Clara.

In primo momento non si era nemmeno accorto dell’edificio che si stagliava davanti alla sua macchina. Si limitava a guardare il volante cercando di ritrovare il ritmo normale del respiro. Solo in un secondo momento si era accorto della scritta blu che campeggiava al di sopra del palazzo, ma non si era incuriosito in modo particolare: pensò che si trattasse di una piccola azienda, talmente a corto di fondi da potersi permettere solo un capannone in un posto sperduto.

Si stava decidendo a partire, quando qualcuno bussò al finestrino. Andrea non aveva visto arrivare quella signora giovane e sofisticata, perfettamente truccata che ora gli sorrideva cortese facendogli segno di abbassare il finestrino.

“Buongiorno signore. Sta bene?”

Andrea la guardò come se fosse una creatura spuntata da una foresta magica.

“Certo, tutto bene, solo un attimo di confusione. Mi scuso per aver occupato il parcheggio”.

“Ma si figuri, c’è molto spazio qui. Perché non entra a prendere un bicchiere d’acqua? Mi sembra pallido”.

In effetti nello spiazzo dove si trovava Andrea si trovavano solo una decina di macchina, probabilmente dei dipendenti di Real Game, anche se la maggior parte di loro sembravano essere polverose, come se non fossero state mosse da qualche giorno.

“Mi sarebbe d’aiuto un po’ d’acqua, sempre che non disturbi”.

La signora si limitò a sorridere e ad avviarsi verso l’entrata, seguita a ruota da Andrea.

Sul fiume

La zattera stava procedendo con dolcezza, seguendo il ritmo del fiume. Non c’erano parole che galleggiavano nell’aria, solo gli arabeschi silenziosi di una libellula che giocava tra le due ragazze. In quella mattina di primavera bastava guardare il cielo per capire che non ci sarebbe stato più un momento come quello. La voce sarebbe risuonata come uno scoppio di fucile e i sogni sarebbero volati via assieme alle illusioni, come uno stormo impaurito di uccelli.

Gli occhi celesti di Anna cercavano i segreti del fiume, si perdevano sulle lievi increspature dell’acqua, mentre ripensava a quell’estate in cui nel suo retino era rimasto impigliato un pesce multicolore. Tra le grida di felicità e dispiacere della piccola Margherita, aveva subito rigettato nella pozza il pesce che si dimenava in agonia mentre il suo corpo scintillava al sole. Margherita avrebbe voluto tenerlo, ma la vita del pesce non meritava una simile tortura. Nessuno meritava di essere messo in una boccia trasparente, dove ogni segreto sarebbe stato esposto agli occhi di tutti.

La pelle abbronzata di Margherita cercava il sole, mentre gli occhi chiusi per non essere feriti dai raggi mattutini ripercorrevano il sentiero nascosto dalla neve che un giorno la portò a bussare alla casa di Anna. Erano inseparabili, sorelle per scelta, amiche per abitudine. La sera d’inverno in cui era entrata nel circolo di luce della casa di Anna, Margherita era scappata dal collegio in cui si trovava. Era sporca di terra e bagnata di neve, aveva gli occhi duri come la terra in inverno. Ma con Anna aveva imparato nuovamente a sorridere.

La vita prosegue, a volte lenta come la barca su un fiume in risorgiva, a volte veloce come un torrente di montagna. La vita sarebbe andata avanti. Ma non quella mattina. Per quella mattina, l’ultima dell’infanzia, sarebbero state ancora una volta solo loro due, Margherita e Anna.

Incontro

Fermo! Non muoverti!

E chi si muove? E se anche fosse, perché non posso andare? Qualcuno me lo vieta? E chi sei tu per vietarmelo? Anzi, chi sei tu?

Ma come, non ti ricordi?

Di cosa dovrei ricordarmi? Di te? E poi non si risponde a una domanda con una domanda, è poco gentile.

Non sei proprio cambiato, sempre puntiglioso e, soprattutto, permaloso.

Permaloso, io? Ma non mi hai ancora detto chi sei.

Ah, giusto, sono Annette.

Annette?

Annette. Lo vogliamo ripetere ancora?

No, solo che non mi dice niente.

Gentile da parte tua.

Non è colpa mia. Potresti esserti sbagliata. E ancora non mi hai detto perché dovrei stare fermo. Cosa che sto facendo, fra l’altro, con un po’ di scomodità.

Perché rischi di cadere.

Cadere? Ma se ho i piedi ben piantati per terra? E non vedo burroni, buchi, depressioni, ostacoli di alcun genere.

Fidati, se ti muovi, cadi. Comunque strano che non ti ricordi di me. Annette, abbiamo frequentato qualche corso assieme all’università.

Mi dispiace, ma non ricordo molti compagni di università. Non sono molto espansivo.

Lo so, ma io mi ricordo di te. Ero sempre qualche fila indietro, odio la prima fila, mi sembra di non avere protezione. E si rischia sempre di cadere, ovviamente, come adesso.

Annette…no, non mi dice niente, mi dispiace. E quando posso muovermi?

Semplice, quando deciderai di cadere.

Prego?

Cadrai, è un dato di fatto. E ti farai anche male, dipende solo da te capire se vuoi cadere subito o se vuoi attendere.

Sai che dico? Penso che tu sia un po’ smarrita.

Gentile sempre tu. Ci vediamo.

Ehi, aiutami! Sono caduto!

Te lo avevo detto. Ah, forse Annette non ti dice niente, ma Cassandra?

Tu sei Cassandra? Ora mi ricordo, ti avevamo dato questo soprannome. Stammi lontana, succedono cose strane dove sei tu.

No, io vedo gli avvenimenti e vi avviso. Siete voi che non ci credete.

Tutti in carrozza – Pt 22

“Tutti in carrozza!”

La voce proveniva soffocata dalla banchina ed era mischiata al rumore della pioggia che rimbalzava sui binari. Il fattorino entrò e uscì senza che Ivonne e Andrea scambiasero una parola. Un rumoroso silenzio era calato fra di loro, alternato al fruscio della paura.

“Tutti in carrozza!”

“Si parte. E la prossima tappa è la nostra. Qual è la tua risposta?”

Andrea guardava fuori dal finestrino in silenzio, sperando che la pioggia gli suggerisse cosa fare.

“Andrea, cosa ti trattiene? Hai perso tutto, amore, amico, città, lavoro. Io non ci prenserei nemmeno: meglio mettere più chilometri possibili tra noi è quel buco puzzolente di villaggio”.

“Casa”.

“Cosa, Andrea?” Invonne stava perdendo la paziente.

“Era casa, per me. E l’America è…lontana”

“Un pensiero profondo. Dammi una risposta subito. Se non ci stai, ho poco tempo per trovarmi un sostituto”.

Andrea sospirò. Era evidente che ci fosse qualcosa di sbagliato in lui. E poi non aveva nulla da perdere, e nessun progetto.

“Ci sto”. “Ottimo”.

Tutti in carrozza – Pt. 21

Strega. Ivonne era la Strega del paese prima che si sposasse mettendo a tacere tutti. Ma le mancavano le sue erbe, e talvolta ne aveva fatto uso per liberarsi di situazioni scomode.

“Io posso essere la tua risposta e tu la mia” spiegò Ivonne. “Io ti ho aiutato, ora tocca a te”

Andrea la guardò, pronto a ribattere, ma vennero interrotti dal capotreno.

“Stiamo arrivando alla prossima stazione, madame. Le faccio portare i bagagli, se mi indica il suo posto”. Stregato dalle parole di cortesia di Ivonne, non si accorse dell’aria stordita di Andrea.

“Ivonne, che cosa vuoi da me? “

“Semplice, che tu diventi un medico vero, ovvio no. Voglio che tu sia il mio lasciapassare per l’America, chiaro? Usciti da quasto treno, noi due saremo alleati”.

“Sarà pericoloso? “

“Cosa non lo è? “

Tutti in carrozza- Pt. 20

“Il mio nome è Andrea. Anch’io sto andando a occidente e voglio imbarcarmi. Terza classe anche questa volta. Non sono un ladro, né un assassino, ma le mie mani hanno ucciso la donna che amavo”.

“Gelosia?” indagò preoccupata Ivonne.

“No. Ero assistente di un medico, e ho imparato molto. Per questo Pierre l’ha portata da me. Perdeva sangue. Capisce, non erano sposati, devono aver tentato di risolvere. Ma lei ora non c’è più. Non potevo rimanere in paese”.

Ivonne sorrise. Era esattamente quello che cercava: un innocente colpevole.

“Neppure le mie erbe avrebbero potuto salvarla, Andrea. Neppure il tuo dottore”.

“Ero bravo sa? Lo aiutavo, per questo mi ha dato la sua vecchia borsa. Mi serve per medicinali e strumenti. Di che erbe parla?”

Un dottore ignorante e una erborista fuggitiva: il destino può essere ironico.

“Io conosco ogni erba, che sia velenosa o benefica. Io sono una erborista”.

“Ma certo. Come ho potuto dimenticare. Ivonne la strega!”

La donna sospirò: odiava quella parola.