Da solo – Giorno 13 Real Game

Il luogo in cui sorgeva Real Game era lontano da qualsiasi centro abitato, non distante da uno svincolo autostradale. La struttura era anonima, come anche il nome: grigia, cubica, senza fronzoli, con poche e minuscole finestre che si aprivano nere verso l’esterno.

Andrea si era fermato durante il viaggio perché si sentiva confuso e era ancora lontano dalla prima area di servizio. Il suo stato di agitazione era dovuto all’impressione di star facendo qualcosa di sbagliato, di star buttando via la vita. Ma ciò che gli toglieva il fiato era la solitudine. Non lo aveva mai ammesso, ma da quando Clara se ne era andata, gli mancava più una presenza in casa la sera che il carisma di Clara.

In primo momento non si era nemmeno accorto dell’edificio che si stagliava davanti alla sua macchina. Si limitava a guardare il volante cercando di ritrovare il ritmo normale del respiro. Solo in un secondo momento si era accorto della scritta blu che campeggiava al di sopra del palazzo, ma non si era incuriosito in modo particolare: pensò che si trattasse di una piccola azienda, talmente a corto di fondi da potersi permettere solo un capannone in un posto sperduto.

Si stava decidendo a partire, quando qualcuno bussò al finestrino. Andrea non aveva visto arrivare quella signora giovane e sofisticata, perfettamente truccata che ora gli sorrideva cortese facendogli segno di abbassare il finestrino.

“Buongiorno signore. Sta bene?”

Andrea la guardò come se fosse una creatura spuntata da una foresta magica.

“Certo, tutto bene, solo un attimo di confusione. Mi scuso per aver occupato il parcheggio”.

“Ma si figuri, c’è molto spazio qui. Perché non entra a prendere un bicchiere d’acqua? Mi sembra pallido”.

In effetti nello spiazzo dove si trovava Andrea si trovavano solo una decina di macchina, probabilmente dei dipendenti di Real Game, anche se la maggior parte di loro sembravano essere polverose, come se non fossero state mosse da qualche giorno.

“Mi sarebbe d’aiuto un po’ d’acqua, sempre che non disturbi”.

La signora si limitò a sorridere e ad avviarsi verso l’entrata, seguita a ruota da Andrea.

Pubblicità

Da solo – Giorno 1

Nemmeno so perché stia tenendo un diario. Dopotutto in questa isola, se di isola si tratta, mi ritrovo da solo. Ho nome solo per poche cose che mi circondano. In primo luogo ho il mio nome: Andrea. E poi c’è sabbia, mare a perdita occhio, alberi e uccelli non meglio definiti. Probabilmente state pensando che stia delirando. Può essere, ma tanto esistete solo nella mia immaginazione. Eppure, pensateci bene: se si conoscono le definizioni di oggetti, animali e piante, allora si hanno più chiare anche le loro proprietà. In questo momento, invece, non so se quel cespuglio produca bacca o frutti, e, se così fosse, non ho la minima idea se siano o meno commestibili. Per ora sono l’unica cavia disponibile, per cui in caso di errore sarò anche l’unica vittima. Bene per gli altri, peggio per me. Magari sono bacche allucinogene.

Ma di una cosa sono certo, mi chiamo Andrea. O Luca? O Marco? Scherzo, scherzo, il sole non mi ha fatto ancora questo effetto. Sono Andrea, e mi ritrovo in una terra da esplorare.

Vi starete chiedendo come ci sono finito in questa situazione. Bella domanda, perché non me lo ricordo. L’unica cosa che so è che mi ritrovo su questa morbida sabbia bianca, davanti a un mare turchese, ma che non sono in villeggiatura o in un viaggio di piacere, almeno così credo. Mi sono svegliato qui, al suono di qualche uccello che volteggiava sopra di me, lontano, nel cielo, magari sperando che io fossi una carcassa. E infatti, quando mi sono svegliato, ha subito cambiato posto. Anche lui non mi sopporta.

E già, perché sembra che nemmeno la mia fidanzata mi sopportasse molto. Prima di ritrovarmi qui, ero un cittadino normale, con una vita normale, e aveva appena scoperto che la mia ragazza si vedeva con un certo Alfredo, nome che, ammetto, è molto più promettente del mio, per scambiare qualcosa di più di semplici parole. Mi disse che le ero venuto a noia. Dal numero dei miei amici, temo che venga a noia a parecchia gente. Ma ne parleremo un’altra volta.

Qui sta calando la notte. Domani cercherò di trovare un punto sopraelevato per capire se questa sia effettivamente un’isola o se ci siano segni di altri umani. Almeno così fanno nei film.

Ossa di giganti

Erano stati ritrovati sul fondo di una palude: ossa fuori misura che dovevano appartenere a creature enormi, mai viste sulla terra, almeno negli ultimi millenni. E invece eccole lì, che spuntavano dalla melma dello stagno che era stato drenato recuperare terreni a fini agricoli. Ma quello che era emerso aveva fermato i lavori e dato il via alla curiosità degli abitanti dei dintorni.

“Sarà qualche bestia del giurassico. Ce ne saranno state di certo da queste parti: guarda mia suocera, ha qualcosa che ricorda un essere preistorico”.

“Ma se qui c’era mare fino a qualche millennio fa. No, deve essere qualche esperimento”.

“Esperimento?”

“Sì, ti dico. Hai presente l’azienda di bovini che stava qua fino a qualche anno fa? Produceva un enorme quantitativo di carne, superiore a quello che avrebbe prodotto utilizzando solo gli animali che dichiarava”.

“Ma è stata chiusa perché obsoleta.  E tu come fai a sapere della quantità di carne prodotta”.

“Ascolto, vedo. Avranno di certo fatto degli esperimenti per rendere più grandi gli animali”.

“Che fantasia che hai!”

“Fidati. Mutazioni orribili per creare bovini mai visti. Crei un animale per produrre il doppio, il triplo della carne. Ho visto strani tipi entrare in quell’azienda”

Le ossa vennero prelevate per essere analizzate in laboratorio. I risultati, però, non vennero mai messi a disposizione, almeno della popolazione locale. C’era persino chi giurava di aver visto impronte gigantesche sui campi recentemente ricavati dall’acquitrino, o chi riteneva di aver sentito strani rumori provenire dal bosco che sorgeva poco lontano.

Nulla di preoccupante: anche il bosco sarebbe stato smantellato per estendere le coltivazioni. E allora, l’essere sarebbe venuto allo scoperto e avrebbe convinto anche i più scettici.

Piedi di piombo

Rick aveva come soprannome Piedi di Piombo non perché fosse una persona molto cauta o perché camminasse lentamente, ma per il suo lavoro. Rick era un palombaro.

Ciò che doveva fare era semplicemente indossare un’armatura, con tanto di elmo tondo e liscio, per poi calarsi nelle profondità marine. Non era semplice curiosità quella che spingeva il suo capo a finanziare quell’immpresa. Rick Piedi di Piombo aveva il preciso compito di cercare tesori sperduti, navi affondate cariche di oro e gioielli.

Per ora l’unico ad arricchirsi era proprio Rick. In primo luogo perché il lavoro era ben pagato. E poi perché ne approfittava per raccogliere conchiglie che a volte contenevano delle perle bianche e luminose come la luna. Ma di tesori, nemmeno l’ombra.

A Rick piaceva starsene laggiù, lontano dai rumori, immerso tra pesci sconosciuti, a volte mostruosi, a volte stupendi.

Finché un giorno non la vide. Non era una nave, ma una città, con guglie e palazzi, strade e piazze. Vi si addentrò sperando che il tubo fosse abbastanza lungo. I muri erano coperti di coralli e madreperla, dagli archi pendevano cortine di alghe.

E Rick vide degli occhi che lo scrutavano curioso per poi scomparire. Li seguì, corse, si affannò per vedere quella creatura così umana, così animale.

Quando ritirarono a bordo Rick, scoprirono che la tuta da palombaro era vuota. Piedi di Piombo era scomparso.

La Capitale

La Capitale del regno non aveva un nome definito, era semplicemente Capitale. Così aveva voluto l’Ordine così l’avevo conosciuta gli abitanti del Regno. Era una delle città più misteriose che fossero state fondate: non si sapeva neppure chi vi abitasse, o se vi abitasse qualcuno, né quale fosse la pianta della città o che aspetto avessero le vie. L’unica cosa certa era il fatto che esistesse, e tanto bastava.

Se qualcuno avesse avuto la possibilità di sorvolare la Capitale, avrebbe notato che si basava su una pianta irregolare, simile a quella di un fagiolo, che era attraversata da una miriade di vie e vicoli. Dall’alto aveva tutto l’aspetto di un labirinto, una sorta di scrigno che custodiva nel suo cuore il Grande Palazzo dell’Ordine. Passeggiando per la città non si poteva percepire questa complessità, ma si aveva l’impressione di trovarsi in una sorta di prigione: muri alti e senza finestre delimitavano le vie, che erano sempre in un perenne stato di semioscurità. Non c’erano lampioni, non c’erano segnalazioni, solo globi di luce sospese nell’aria che guidavano i camion notturni a destinazione.

Solo l’esercito aveva accesso a quelle strade intricate: con sicurezza si innoltravano alla ricerca di depositi e laboratori ai quali consegnare il materiale prelevato da Balste o le varie derrate alimintari o le ricchezze sconosciute che provenivano dai porti. La Capitale era, infatti, abitata da pochi eletti, i fidati collaboratori dell’Ordine. Si trattava di scienziati e di geografi, di militari dai gradi più alti e di burocrati. Tutte le decisioni prese dall’Ordine nel Grande Palazzo venivano comunicati a questa cerchia di persone che subito identificava i mzzi migliori per raggiungere lo scopo.

Ancora meno persone avevano accesso al Grande Palazzo. Se la città aveva un aspetto spettrale, il palazzo sembrava rilucere e scintillare. Era interamente fatto di Cristallo, che prendeva luce dalla vicina Helios, diventando simile a un blocco d’oro. La sola apertura era costituito da una porta minuscola rispetto all’imponenza dell’edifio, sorvegliata giorno e notte da un drappello di uomini armati appartenenti al corpo speciale della guardia dell’Ordine. Era quella la dimora del misterioso Ordine, là viveva la mente che aveva ideato tutta quella follia. Non si sapeva nemmeno se fosse un gruppo di persone o un solo individuo.

C’era persino chi giurava che quell’edificio fosse voto, fosse solo un’illusione cristallizzata.

Astolfo non vuole tornare – Pt 4

Passeggiare per la luna non è poi molto diverso dal passeggiare sulla terra, se si ignora il rumore metallico che sprigiona ogni passo. Astolfo trovò che il paesaggio riservasse, però, molte più sorprese rispetto al mondo che conosceva, e in molto meno spazio.

Vide, per esempio, delle torri immense, alte più di una quercia secolare, più di qualsiasi torre difensiva su cui Astolfo avesse mai messo gli occhi. Ma non erano torri fatte di mattoni, con una logica ben precisa, erano dinoccolate, pericolanti, con rientranze e pendenze. A fare da pietre vi era una miriade di oggetti e di gingilli, che qualcuno avrà dimenticato fuggendo da una stanza, o in una camera d’albergo, o tra l’erba di una radura. Una in particolare attirò l’attenzione di Astolfo: era fatta di vasetti e contenitori, lenti e specchi tutti di vetro, che giocavano con la luce del sole, rinfrangendola e moltiplicandola, fino a diventare essa stessa un raggio accecante.

“Impressionante, vero? Impossibile credere che tra centinaia di anni gli uomini ne costruiranno di simili, e anche abitabili” Disse una voce.

Astolfo sussultò: era convinto che la luna fosse totalmente disabitata, ma quella voce era inequivocabilmente umana, di una donna, non una semplice memoria come i sussurri che lo avevano accolto.

“Chi sei? Fatti vedere!”

Ma nessuno gli rispose. Sentì solo una risata che si allontanava dalle torri di detriti.

Astolfo la seguì.

I Vecchi Compari – Pt. 10 Ognuno per la sua strada

Non fu un giorno felice per i Vecchi Compari. Sia chiaro, si trattava di un bisticcio passeggero, nulla di eccessivamente grave. La tensione per l’approcciarsi del Torneo aveva solo esacerbato qualche spigolo un po’ troppo pronunciato di qualche componente. Tutti sapevano, però, che all’allenamento successivo sarebbero stati presenti i quattro componenti, allegri e agguerriti come sempre. Ma quel giorno no, quel giorno Silvano non si allenò e non tronò da Rachele. Quel giorno Luca si allenò senza schemi e sbagliò tutte le mosse. Quel giorno Pietro non si impegnò e non fece sentire la sua risata ferrosa. Quel giorno Antonio seguitava a lamentarsi.

Quel giorno i Vecchi Compari presero strade differenti.

Iniziamo da Silvano. Silvano non si diresse a casa sua, ma a quella di Luca, scelta ovvia. Oltre a essere offeso per quello che aveva vissuto come un tentato omicidio da parte di Luca, Silvano aveva visto l’opportunità di sostituire effettivamente Luigino: il legittimo marito si sarebbe trattenuto con gli altri due per tutto il tempo dell’allenamento, nel tentativo di far sentire Antonio, se possibile, ancora più colpevole. Silvano aveva, dunque, libero accesso ad Anna che, quando lo vide sulla soglia di casa, lo fece entrare curiosa e preoccupata. Non si scambiarono molte parole, come potete ben immaginare. Anna ritrovò una consolazione e quella passione che i freddi numeri non erano mai riusciti ad accontentare. Silvano ritrovò un corpo caldo e vibrante, che non aveva paura delle fiamme dell’inferno. In quegli abbracci Silvano trovò una donna che chiedeva amore, e Anna trovò un uomo che sapeva amare.

Quando Luca tronò a casa, trovò una moglie sorridente, che non serbava più alcuna traccia di tristezza. Non ci fece molto caso, anche perché non era mai stato molto bravo a capire i sentimenti umani, molto meno chiari dei numeri. Si lanciò invece in un infervorato racconto della giornata, omettendo la boccia che era volata verso Silvano e il pianto disperato di Antonio all’ennesimo rimprovero. Si soffermò sulle sue capacità, sul molleggiamento delle sue ginocchia mai stanche, e sulla goffaggine di Antonio, che per poco non si slogava anche l’altra caviglia. Infine condivise con la moglie il dubbio che qualcuno della squadra nascondesse qualcosa. Era convinto che i segreti fossero come delle talpe: scavavano sotto terra, non viste e non sentite, togliendo terra e stabilità alle fondamenta più solide. Anna lo guardò un po’ accigliata: il marito non aveva mai sospettato di Luigino, o non lo aveva mai dato a vedere. “Non può essere che Pietro” concluse Luca “è lui il nuovo arrivato”.

Che Pietro avesse un segreto era chiaro anche a Antonio. Peccato che il suo negozio fosse fallito: quasi tutti nel paese erano suoi clienti, anche se nessuno voleva che gli altri lo sapessero. E tutti i clienti si lasciavano andare a confidenze o chiedevano consiglio. Luigino era stato il primo, e infatti non era molto contento di trovarsi Antonio in squadra. Ma la fornitura che lui e Alvise garantivano era di prima qualità e Antonio non si era mai fatto sfuggire nulla. Ora, scoprire il segreto di Pietro era diventato il secondo problema fondamentale per Antonio. Il primo rimanevano i debiti e la fuga di Alvise. Sperava con tutto se stesso che il segreto andasse a vantaggio della cotta che Antonio nutriva nei confronti del nuovo compagno di squadra, il che avrebbe spiegato anche l’abbandono del tetto coniugale da parte della moglie. Grazie a questa vaga speranza, Antonio riuscì a riprendersi dal trauma causato da Luca, e iniziò a ideare la sua strategia per capire che cosa nascondesse il bel Pietro.

Antonio era nei pensieri di Pietro, ma non nel senso che Antonio avrebbe sperato. Pietro sapeva che la storia di Clara aveva acceso le malelingue del paese, tra le quali figurava anche Rachele. Ma non era la frigida Rachele e neppure l’innamorato Silvano a preoccuparlo. Antonio sapeva i segreti di tutti, e avrebbe tentato di carpire anche il suo. Guardò verso la fucina spenta e nera, ma rossa e viva nei suoi occhi. Ancora la vedeva, vedeva Clara là davanti, che gli gettava contro una sfilza di ingiurie, come carboni ardenti, la vedeva mentre lo derideva, mentre gli ricordava che mai avrebbe potuto dirsi veramente uomo. E sentiva ancora la soddisfazione quando le sue grida, coperte dal maglio e dal martello, erano state infine inghiottite dal ruggito del fuoco.

Senti?

Non senti il vento?

Sta sussurrando e racconta di terre lontane, sconosciute. Di gente che parla lingue mai sentite. Di vaste distese sabbiose, brulle, aride, in cui l’acqua riemerge come un miraggio, uno zaffiro contornato fra smeraldi, in un mare di desolazione. Senti il calore insopportabile del sole che splende in un cerchio perfetto e impietoso, guarda quella carovana di uomini vestiti di blu. Quasi riesci a percepire la sabbia cedevole sotto i piedi.

A, volte, invece, avvolge il mondo con le dita gelate del nord. Il respiro si fa tagliente e sottile, suoni gutturali degli abitanti dei ghiacci ti fanno sognare i giochi di luce di un’aurora boreale. Vorresti scivolare su lastre umide che una volta erano mare.

Poi percepisci un sentore di sale, l’odore salmastro di un mare lontano. Frammenti di onde trasportate sulla tua pelle. Puoi quasi sentire il rumore di una vela tesa, lo scricchiolio delle gomene.

E il fruscio di un’immensa foresta ti avvolge con il suo mistero. Occhi invisibili ti osservano da lontano, silenziosi. I loro sguardi ti avvolgono, si imprimono sulla tua carne. E vorresti perderti in questo verde labirinto fatto di sussurri e radici, di nodosi arbusti e di rami flessibili.

Mondi nascosti, arcani.

Senti nascere il desiderio di andare, di inseguire quelle storie, di vedere a chi appartenga quella risata rubata da vento.

Senti? Il vento ha risvegliato la tua anima nomade.