Filottete

Il mare infinito non parla. Tutte le creature che lo abitano hanno perso la voce e non si fanno vedere. L’isola è muta da quando gli altri se ne sono andati, lasciandomi qui a marcire assieme al mio dolore.

Se qualcosa cambia, si è condannati all’isolamento. La mia forza è stata abbattuta da una ferita, i miei amici sono stati sconfitti dall’orrore per la malattia, alla vista della realtà che potrebbe abbattersi su tutti loro, a seconda del desiderio del fato.

Il mio è stato esacerbato dall’eroe che eroe non voleva essere, e che eroe non è. Non si è fatto troppi scrupoli a privarmi di tutto, a lasciarmi su questa arena. Non attendo che la morte. Ma prima, all’orizzonte, comparirà anche lui, il sagace guerriero che con la voce vincerebbe mille battaglie, e con l’inganno sbaraglierebbe interi eserciti.

Non riesce a sopportare la sofferenza. Eppure anche lui dovrà patire mali e si ritroverà solo, nudo, abbandonato su una spiaggia che non conosce. Forse in quei momenti si ricorderà di Filottete, lo sfortunato eroe ferito in un incidente.

Perché il malato vi fa così paura? Cosa temete? Cosa temi Ulisse: forse di non tornare in patria? O di tornarvi mutato?

Tornerai, non solo in patria, ma qui. Tornerai dal mefitico eroe. Lo so. Qui con me ho l’arco senza il quale neppure le tue macchinazioni possono realizzarsi.

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Da solo – Giorno 1

Nemmeno so perché stia tenendo un diario. Dopotutto in questa isola, se di isola si tratta, mi ritrovo da solo. Ho nome solo per poche cose che mi circondano. In primo luogo ho il mio nome: Andrea. E poi c’è sabbia, mare a perdita occhio, alberi e uccelli non meglio definiti. Probabilmente state pensando che stia delirando. Può essere, ma tanto esistete solo nella mia immaginazione. Eppure, pensateci bene: se si conoscono le definizioni di oggetti, animali e piante, allora si hanno più chiare anche le loro proprietà. In questo momento, invece, non so se quel cespuglio produca bacca o frutti, e, se così fosse, non ho la minima idea se siano o meno commestibili. Per ora sono l’unica cavia disponibile, per cui in caso di errore sarò anche l’unica vittima. Bene per gli altri, peggio per me. Magari sono bacche allucinogene.

Ma di una cosa sono certo, mi chiamo Andrea. O Luca? O Marco? Scherzo, scherzo, il sole non mi ha fatto ancora questo effetto. Sono Andrea, e mi ritrovo in una terra da esplorare.

Vi starete chiedendo come ci sono finito in questa situazione. Bella domanda, perché non me lo ricordo. L’unica cosa che so è che mi ritrovo su questa morbida sabbia bianca, davanti a un mare turchese, ma che non sono in villeggiatura o in un viaggio di piacere, almeno così credo. Mi sono svegliato qui, al suono di qualche uccello che volteggiava sopra di me, lontano, nel cielo, magari sperando che io fossi una carcassa. E infatti, quando mi sono svegliato, ha subito cambiato posto. Anche lui non mi sopporta.

E già, perché sembra che nemmeno la mia fidanzata mi sopportasse molto. Prima di ritrovarmi qui, ero un cittadino normale, con una vita normale, e aveva appena scoperto che la mia ragazza si vedeva con un certo Alfredo, nome che, ammetto, è molto più promettente del mio, per scambiare qualcosa di più di semplici parole. Mi disse che le ero venuto a noia. Dal numero dei miei amici, temo che venga a noia a parecchia gente. Ma ne parleremo un’altra volta.

Qui sta calando la notte. Domani cercherò di trovare un punto sopraelevato per capire se questa sia effettivamente un’isola o se ci siano segni di altri umani. Almeno così fanno nei film.

Una vecchia

Vista da fuori la casa non prometteva nulla di buona. Una volta entrati, l’opinione non poteva che peggiorare, e l’inquilina era in sintonia con quell’atmosfera, come se fosse un complemento d’arredo di quelle tetre stanze. Quella vecchia aveva tutto l’aspetto di una strega, e forse lo era: di quei tempi stranezza e stregoneria venivano spesso confuse. La casa si trovava nel cuore della città, ma di urbano non aveva nulla, a partire dalle coinquiline che dimoravano nella cucina: sei galline ben pasciute, che svolazzavano con la fierezza delle padrone di casa, posandosi ora sul tavolo, ora sul ripiano della cucina, e raramente sui propri giacigli che si trovavano vicino alla credenza. Dall’odore, però, sembrava che in quelle stanze dimorasse anche qualche altro animale, magari passato a miglior vita da qualche giorno. Tra piume e paglia si potevano intravvedere dei quadernini minuscoli, in cui la vecchia annotava con mano incerta guadagni e spese, un lapis consunto, una lanterna a olio incrostata e spenta.

Le altre stanze non se la passavano meglio. Davanti alla cucina si apriva un salotto di infime dimensioni, con una sola finestra perennemente chiuse che lasciava filtrare una luce offuscata dallo strato di sporcizia dei vetri. Gli unici mobili rintracciabili erano una sedia, un tavolinetto su cui poggiava il telefono non funzionante, dal momento che in quella casa non c’era elettricità, una poltrona sfondata decorata con quello che sembrava un motivo floreale, e una sedia a dondolo che aveva visto giorni migliori.

Era proprio su questa sedia che avreste trovato lei, la padrona di casa. A vederla, sembrava essere la settima gallina in quelle stanze, magra e rugosa, con le palpebre cascanti e il collo scarnificato. Sarebbe sembrata una mummia, se non fosse stato per gli occhi che rilucevano neri, ma scintillanti come dei tizzoni ardenti nella penombra della sala. Le labbra sottili si perdevano nella voragine senza denti della bocca, tirandosi in un ghigno sinistro. Al di sotto del groviglio scomposto e sudicio dei capelli, si intravvedeva un solo orecchino di perla, a destra, invece, il lobo pendeva diviso in due lembi.

Arianna

Perché non lo vedo più? Quel filo dorato che percorre la mia vita? Che risplende debolmente nell’oscurità e segna la via anche nei luoghi più tenebrosi?

Una volta scelsi di donarlo a quel giovane straniero. Un semplice ragazzo venuto da lontano, dagli occhi profondi, colmi di intelligenza e di furbizia. Fui io a salvarlo, fu la mia traccia dorata a guidarlo fuori dal labirinto. Io gli diedi quella matassa d’oro, me ne privai.

E me ne pento. Adesso la rabbia mi offusca la vista.

Eppure ora più che mai avrei bisogno del mio prezioso filo. Mi sono persa nel mio labirinto, più intricato di quello di Dedalo e nessuno viene in mio soccorso. Vorrei tornare a casa, ma non so quale sia la strada. Non vedo una luce che possa guidarmi. Non so da che parte volgermi. Mura vertigionose mi stringono da ogni parte. Mi trovo continuamente in qualche vicolo cieco. Le mie dita non stringono più niente.

Sono sola. Mi sente abbandonata. Scelsi di seguire gli occhi color del mare, ma ne fui ingannata.

Qui non c’è nessuno. Sono in un’isola deserta. Nessuno che senta le mie preghiere. Vedo solo una nave perdersi nell’orizzonte. Dietro di sé la scia del tradimento.

Ecco qual è la mia ricompensa: tradimento.

Se solo qualcuno per una volta mi aiutasse.

Possibile? Sarà la mia immaginazione, ma sento dei passi portati dal vento. Vedo una figura avvicinarsi. Porta con sé l’odore di mosto.

Che sia un miraggio?

In mano stringe qualcosa di luminoso. E me lo porge. È lui, è il mio filo.

Ora non ho più paura. So che strada percorrere.

Eccomi ora, mentre seguo questo nuovo straniero. Magari questa volta andrà meglio.