Campi Elisi – Pt. 7

“Ancora mi chiedo come sia possibile che quella lingua di serpe sia stata accolta fra gli amati dagli dei. Ci sono momenti in cui ho dubitato dell’esistenza di qualsiasi tipo di divinità capace di garantire ordine e giustizia. Non ho visto giustizia nella mia vita, solo morte e perdite. L’ordine è solo un’idea di cui non ho visto l’applicazione. Ma l’infida mente è tornata a casa e ora gode di ogni onore anche qui, nell’oltretomba”.

“Dicono abbia sofferto grandi patimenti”.

“Tra tutte, anche tu, vecchia, sprechi parole in sua difesa?”

“Non in sua difesa. Ma ormai la vita non ci appartiene più, il nostro corpo è solo un ricordo sbiadito. Io che sono stata anche una cagna nera colma d’ira, sono stanca di latrare maledizioni”.

“E tu poeta, senti le nostre voci? Sei felice del destino infelice che queste due donne, ignoranti di guerra, ridotte a impersonare poveri momenti patetici in un mare in tempesta, hanno dovuto subire?”

Non conoscono pace queste anime tristi, neppure ora che la sabbia di Troia ha dimenticato il sangue che l’ha impregnata. Eppure molti sembrano aver da ridire sui miei versi, quei versi che li hanno resi immortali, nonostante siano solo un cumulo di ossa, tendini e muscoli.

“Andromaca, la guerra è violenza, ed è fatta da sconfitte e dolori, ma alla fine cerchiamo di ricordare solo la vittoria. Hai sofferto, ma guarda Ettore: ora è là con Achille”.

“Ettore, il mio amato, il figlio di questa donna che tutto ha perso, che ha sepolto uno dopo l’altro i suoi figli, Ettore ha smarrito il senno oltre al corpo. Non ha nemmeno il coraggio di guardarmi. Io conoscevo Achille meglio di lui: mi rubò il padre e i fratelli. Glielo dissi, lo avvisai di limitarsi alla difesa ma una donna non deve proferire parola sulla guerra. Materia fatta per gli uomini dall’intelletto fino”.

“Adromaca, mia cara, non inveire contro un cantastorie. Con mille voci ha navigato i secoli per portare i nostri lamenti come monito ai posteri”.

“Certo, monito. E poi dimmi, Omero, che tutto sai anche se nulla vedi. Perché Odisseo è qua, perché quell’ingannatore gode del favore degli dei? È l’assassino di mio figlio, le sue parole, non le sue mani hanno fatto cadere Astianatte. Perché il pusillanime non ne avrebbe mai avuto il coraggio”.

“I piani degli dei mi sono sconosciuti, Andrmaca, e non difenderò i miei versi, sarebbe un’apologia tardiva”.

“Le ninfe diventano alberi e roccia, il loro dolore si fonde e si perde nella natura, trova pace nel canto degli uccelli, nel fruscio delle foglie e nel mormorio dei fiumi. Perché il mio dolore deve rimanere qui, nel petto, a ruggire forte, anche ora che del petto e del cuore sono rimasti solo i vaghi ricordi? Ho perso tutto, padre, fratelli, amore e figlio, anche la dignità. Ma nessun dio mi trasformò in foglia per sottrarmi alla misera fine”.

I piani degli dei sono imperscrutabili, sempre che ci siano effettivamente dei piani e degli dei. Forse sono solo parole di uomini che cercano di rispondere a domande che non hanno risposte.

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Il fabbricante di bambole – Pt. 13

Materia ineffabile il sogno, in pochi attimi si può trasformare in un incubo. L’avventura di Faber si stava rivelando più pericolosa del previsto, soprattutto per la sua volontà di vedere ciò che non avrebbe dovuto. Ci sono leggi ed equilibri che devono essere mantenuti, glielo aveva fatto capire Nestor, ma la curiosità, o la disperazione, possono mettere in comunicazione dimensioni indipendenti.

Eleonor non c’era più, faceva parte della polvere del passato, un semplice ricordo relegato in un angolo del cuore. Faber si era ribellato a questa evidenza, aveva visto nella prima bambola, quella appartenuta alla ragazza, un frammento della risata cristallina, lo scintillio dello sguardo sognante, il respiro di una vita strappata troppo presto. L’uomo tranquillo, fatto di terra e di sassi, aveva rifiutato la realtà, e si era creato un mondo di bambole e fate, di ragazze sorridenti e perfette che non lo avrebbero mai abbandonato.

Faber aveva voluto rendere immortale Eleonor, facendole vivere quelle mille vite tra le quali avrebbe dovuto scegliere se solo ne avesse il caso le avesse concesso questa possibilità. Il fabbricante aveva costruito con le sue mani e la sua disperazione un inganno che aveva la parvenza di sogno.

Ma se Eleonor non era più viva, perché se la trovava là davanti, fianco a fianco a Nestor?

Arianna

Perché non lo vedo più? Quel filo dorato che percorre la mia vita? Che risplende debolmente nell’oscurità e segna la via anche nei luoghi più tenebrosi?

Una volta scelsi di donarlo a quel giovane straniero. Un semplice ragazzo venuto da lontano, dagli occhi profondi, colmi di intelligenza e di furbizia. Fui io a salvarlo, fu la mia traccia dorata a guidarlo fuori dal labirinto. Io gli diedi quella matassa d’oro, me ne privai.

E me ne pento. Adesso la rabbia mi offusca la vista.

Eppure ora più che mai avrei bisogno del mio prezioso filo. Mi sono persa nel mio labirinto, più intricato di quello di Dedalo e nessuno viene in mio soccorso. Vorrei tornare a casa, ma non so quale sia la strada. Non vedo una luce che possa guidarmi. Non so da che parte volgermi. Mura vertigionose mi stringono da ogni parte. Mi trovo continuamente in qualche vicolo cieco. Le mie dita non stringono più niente.

Sono sola. Mi sente abbandonata. Scelsi di seguire gli occhi color del mare, ma ne fui ingannata.

Qui non c’è nessuno. Sono in un’isola deserta. Nessuno che senta le mie preghiere. Vedo solo una nave perdersi nell’orizzonte. Dietro di sé la scia del tradimento.

Ecco qual è la mia ricompensa: tradimento.

Se solo qualcuno per una volta mi aiutasse.

Possibile? Sarà la mia immaginazione, ma sento dei passi portati dal vento. Vedo una figura avvicinarsi. Porta con sé l’odore di mosto.

Che sia un miraggio?

In mano stringe qualcosa di luminoso. E me lo porge. È lui, è il mio filo.

Ora non ho più paura. So che strada percorrere.

Eccomi ora, mentre seguo questo nuovo straniero. Magari questa volta andrà meglio.

Metà

A prima vista sembrava un uomo come tanti. Un signore distinto, elegante e gentile. In realtà, pochi potevano affermare di conoscerlo o semplicemente di avergli parlato.

Viveva isolato nella sua casupola. Lo si poteva vedere mentre curava il giardino e il magnifico roseto che era stato tanto desiderato da sua moglie. A maggio quello scheletro di rovi che in inverno esprimeva con i suoi steli il freddo del clima, si scaldava con i colori del sole, del fuoco,divampava creando una macchia felice e scomposta in quel giardino così ordinato e monocromo.

Spesso, però, rimaneva in casa. A volte quando usciva indossava un cappello che gli nascondeva gli occhi. Era, in effetti, l’unica particolarità che lasciava i suoi vicini un po’ perplessi.

Aveva cominciato a isolarsi in seguito alla perdita di sua moglie. Al funerale era rimasto impassibile, non un muscolo si era mosso. Non aveva parlato, aveva solo stretto le mani di chi gli si avvicinava. Alcuni avrebbero giurato, però, che l’occhio sinistro fosse umido, arrossato e gonfio. Anche l’angolo della bocca ora sembrava piegarsi in una smorfia di dolore, ora tremava leggermente.

Ma poteva darsi che fosse solo un’impressione.

Seduto sulla poltrona, chiuse tutte le imposte, il signore sospirò e scrutò il suo volto allo specchio. Non era più tornati normale. L’occhio destro era limpido, terso come il cielo liberato da un venti di primavera. L’altro era opaco, offuscato da una nuvola di dolore, sempre pronta a lasciarsi andare a una pioggia di calde lacrime.

Anche la bocca era rimasta deformata. Una metà appariva distesa, l’altra perennemente triste, serrata, sottile.

Solo quando si affacciava a vedere le rose fiorite gli sembrava di sentire la voce della sua amata che lo chiamava ad ammirare quello splendore spinoso.

E allora le labbra si stiravano in un pallido sorriso, e l’occhio ferito tornava a vedere la luce.

Rabbia e paura

Al dolore è seguita la rabbia. O la rabbia si è affiancata al dolore e con la sua massa ingombrante l’ha assorbita e piegata al suo volere. Non lo so, ma di certo l’ira ha preso il sopravvento.

Lo stupore e l’incredulità hanno maturato frutti pieni di fiele, che con forza e violenza corrodono le carni.

Ti ho sempre voluto bene, più di quanto io potessi solo immaginare. Eri quella solidità che si dava per scontata, quel porto tranquillo anche quando il mare chiama a sé con violenza. Mai errore è stato più grande. Mai sottovalutare una fortuna così grande.

C’è stata quella maledetta tempesta che ha spazzato via il porto. Nulla da fare, nulla da ricostruire, solo un vuoto da colmare ricolmo di ricordi.

Non posso perdonare. Perché sei stato testimone alle mie vittorie, perché non mi hai visto cadere e farmi male, davvero male. Perché non hai visto le miei sconfitte e perché non mi hai potuto consolarmi con i tuoi modi un po’ burberi che mi piacevano così tanto. Non hai potuto vedere la mia rabbia e la mia forza.

E ho paura che i ricordi si affievoliscano, che mi rimangano impressi negli occhi solo gli ultimi istanti.

Non serve a nulla ricordare un passato perduto, vero? Bisogna imparare a costruire un futuro migliore. Ma è difficile e per ora i tentativi sono falliti.

Non ti ho perdonato, ma ti terrò sempre con me.

Buio

A volte i miei pensieri mi fanno paura, volano nella direzione sbagliata. Trovano una comoda dimora in un groviglio di rovi e la luce, per qualche lungo attimo, si spegne. Non riesco a trovare motivi per riaccenderla, la voce si smorza, le labbra si muovono mute, come in un vecchio film, come pesce che saltella alla ricerca di acqua. I bronchi si chiudono, il fiato diventa affanno, la mente si offusca e avanzano gli spettri.

Davanti lo scheletro di un uomo, semplice ombra di ciò che è stata, ormai privo di qualsiasi forza vitale. Scheletro di una persona che tanto ho amato, che tanto mi manca, e di cui, forse, non ho mai superato la scomparsa.

Segue lo spettro ghignante di chi non mi ha mai sostenuta, incoraggiata, relegandomi in una zona grigia di indifferenza e mediocrità. E io chino la testa e lo ascolto: è vero, sono solo una delle tante ombre che non porterà nulla a termine.

E lì, vicino, la maschera grottesca dei fallimenti. La voce che rimbomba elenca uno ad uno tutti gli errori e le stupidità che ho commesso. E l’eco si premura e ripeterli all’infinito.

E su tutte troneggiano le figure di Rancore e del suo compagno Paura. Rancore nei confronti di chi si è dimostrato più furbo, di chi è stato capace di conquistare cuori e non solo grazie al suo fascino. Paura per questo livore che non voglio che mi appartenga. Paura di trasformarmi in un meschino essere roso dall’invidia. Paura di trovare il mio posto e rimanere nel limbo.

Alla fine, però, quello scheletro mi sorride benevolo, come una volta. Lo spettro arretra stupito. La maschera cade muta a terra. Rancore e Paura diventano minuscoli esseri. La luce torna. A volte a gran fatica.