Ma vaff…

Ebbene sì, cominciamo la settimana con il botto e con una bell’invito a intraprendere un viaggio di sola andata verso un paese molto affollato.

Visto che è lunedì e che quest’estate sta prendendo una piega non proprio gradita, cosa che, comunque, era in programma, lasciatemi sfogare un po’. Tanto, i destinatari di questo invito sono al di fuori del blog.

Questo impeto di amore è sorto da una persona che dovrebbe rientrare tra gli amici. Ma sembra che sia un’amicizia a una sola direzione, la sua. Quando ha un problema, divento la spalla su cui piangere, quando ottiene qualche vittoria, ecco che si dilunga in lunghe descrizioni delle sue vicende. I ruoli, tuttavia, non si capovolgono mai. Le mie vittorie sono sempre inferiori alle sue, se sono in difficoltà la risposta è stata “non so cosa dirti”.

E anche ora, dopo anni che non ci incontriamo nel mondo reale, in due mesi non ha trovato un’ora da passare insieme. Sempre troppo occupata, mentre io non faccio nulla, si sa.

E avrei anche qualche suggerimento per compagni di viaggio.

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Campi Elisi – Pt. 7

“Ancora mi chiedo come sia possibile che quella lingua di serpe sia stata accolta fra gli amati dagli dei. Ci sono momenti in cui ho dubitato dell’esistenza di qualsiasi tipo di divinità capace di garantire ordine e giustizia. Non ho visto giustizia nella mia vita, solo morte e perdite. L’ordine è solo un’idea di cui non ho visto l’applicazione. Ma l’infida mente è tornata a casa e ora gode di ogni onore anche qui, nell’oltretomba”.

“Dicono abbia sofferto grandi patimenti”.

“Tra tutte, anche tu, vecchia, sprechi parole in sua difesa?”

“Non in sua difesa. Ma ormai la vita non ci appartiene più, il nostro corpo è solo un ricordo sbiadito. Io che sono stata anche una cagna nera colma d’ira, sono stanca di latrare maledizioni”.

“E tu poeta, senti le nostre voci? Sei felice del destino infelice che queste due donne, ignoranti di guerra, ridotte a impersonare poveri momenti patetici in un mare in tempesta, hanno dovuto subire?”

Non conoscono pace queste anime tristi, neppure ora che la sabbia di Troia ha dimenticato il sangue che l’ha impregnata. Eppure molti sembrano aver da ridire sui miei versi, quei versi che li hanno resi immortali, nonostante siano solo un cumulo di ossa, tendini e muscoli.

“Andromaca, la guerra è violenza, ed è fatta da sconfitte e dolori, ma alla fine cerchiamo di ricordare solo la vittoria. Hai sofferto, ma guarda Ettore: ora è là con Achille”.

“Ettore, il mio amato, il figlio di questa donna che tutto ha perso, che ha sepolto uno dopo l’altro i suoi figli, Ettore ha smarrito il senno oltre al corpo. Non ha nemmeno il coraggio di guardarmi. Io conoscevo Achille meglio di lui: mi rubò il padre e i fratelli. Glielo dissi, lo avvisai di limitarsi alla difesa ma una donna non deve proferire parola sulla guerra. Materia fatta per gli uomini dall’intelletto fino”.

“Adromaca, mia cara, non inveire contro un cantastorie. Con mille voci ha navigato i secoli per portare i nostri lamenti come monito ai posteri”.

“Certo, monito. E poi dimmi, Omero, che tutto sai anche se nulla vedi. Perché Odisseo è qua, perché quell’ingannatore gode del favore degli dei? È l’assassino di mio figlio, le sue parole, non le sue mani hanno fatto cadere Astianatte. Perché il pusillanime non ne avrebbe mai avuto il coraggio”.

“I piani degli dei mi sono sconosciuti, Andrmaca, e non difenderò i miei versi, sarebbe un’apologia tardiva”.

“Le ninfe diventano alberi e roccia, il loro dolore si fonde e si perde nella natura, trova pace nel canto degli uccelli, nel fruscio delle foglie e nel mormorio dei fiumi. Perché il mio dolore deve rimanere qui, nel petto, a ruggire forte, anche ora che del petto e del cuore sono rimasti solo i vaghi ricordi? Ho perso tutto, padre, fratelli, amore e figlio, anche la dignità. Ma nessun dio mi trasformò in foglia per sottrarmi alla misera fine”.

I piani degli dei sono imperscrutabili, sempre che ci siano effettivamente dei piani e degli dei. Forse sono solo parole di uomini che cercano di rispondere a domande che non hanno risposte.

Il fabbricante di bambole – Pt. 13

Materia ineffabile il sogno, in pochi attimi si può trasformare in un incubo. L’avventura di Faber si stava rivelando più pericolosa del previsto, soprattutto per la sua volontà di vedere ciò che non avrebbe dovuto. Ci sono leggi ed equilibri che devono essere mantenuti, glielo aveva fatto capire Nestor, ma la curiosità, o la disperazione, possono mettere in comunicazione dimensioni indipendenti.

Eleonor non c’era più, faceva parte della polvere del passato, un semplice ricordo relegato in un angolo del cuore. Faber si era ribellato a questa evidenza, aveva visto nella prima bambola, quella appartenuta alla ragazza, un frammento della risata cristallina, lo scintillio dello sguardo sognante, il respiro di una vita strappata troppo presto. L’uomo tranquillo, fatto di terra e di sassi, aveva rifiutato la realtà, e si era creato un mondo di bambole e fate, di ragazze sorridenti e perfette che non lo avrebbero mai abbandonato.

Faber aveva voluto rendere immortale Eleonor, facendole vivere quelle mille vite tra le quali avrebbe dovuto scegliere se solo ne avesse il caso le avesse concesso questa possibilità. Il fabbricante aveva costruito con le sue mani e la sua disperazione un inganno che aveva la parvenza di sogno.

Ma se Eleonor non era più viva, perché se la trovava là davanti, fianco a fianco a Nestor?

Una realtà

Gli avevano sempre parlato della realtà, unica e sola versione in cui si potesse vivere, che piacesse o meno. Marc aveva creduto a queste parole, almeno finché non si era tuffato in un’altra realtà, un’alternativa che non era stata menzionata da nessuno e che fino a pochi mesi prima non esisteva nemmeno.

Nella vita di Marc la realtà si era sdoppiata, perdendo unicità. C’era quella in cui si svegliava ogni mattina e quella in cui si ritrovava ogni sera. C’era quella che subiva e tollerava perché inevitabile e quella che sceglieva e amava.

Marc chiamava casa la seconda realtà, dovere la prima. Nella sua realtà aveva creato un mondo a suo misura, eliminando qualsiasi antipatia o invidia, rimuovendo preoccupazioni e incapacità. Quando entrava a casa diventava un’altra persona, la versione migliore di quella che trascinava in giro per il mondo.

Aveva amici, aveva amori ed era simpatico, alla mano, brillante, tutte caratteristiche che si offuscavano nel mondo di terra e acqua su cui poggiava i piedi. Era una persona importante, era apprezzato.

Ma poi riapriva gli occhi e quella realtà immensa veniva fagocitata di una realtà minuscola e gretta.

Vengo in pace

Ciao. Questa volta vengo in pace. Ehi, perché le mie bolle sono tutte storte?

Oh, questa volta non lasciamo passare neppure un mese, vedo. Sei in corsivo perché così capiamo meglio chi parla. Tu pesce in corsivo, io umana nel solito noioso carattere. E non protestare, non è che ne abbia molta voglia.

Di questa storia delle bolle storte ne parleremo un’altra volta, va bene. Sempre che me ne ricordi. Ricordo, invece, che cosa ti dissi qualche tempo fa: non sperarci troppo.

Uf, avevi ragione, contento? Sarebbe stato bello, però, non credi? Insomma, hai visto l’alternativa qual è? E sappiamo già come andrà finire: nulla di fatto. Stavo solo sperando di fare finalmente qualcosa che mi piacesse.

Anch’io speravo di liberarmi dei pesci tropicali, e invece guardami, devo sempre litigare con il pesce pagliaccio: non riesco mai a capire se sia serio o se stia scherzando.

Ti capisco. Se fosse andata bene avrei potuto dedicarti un bell’acquario tutto per te. E invece avrò a che fare con dei piranha travestiti da pesce pagliaccio.

 Messa così non cambierei i miei compagni con i tuoi. E poi magari ti aspetta qualcosa di meglio.

Sì certo, anche a te: essere rinchiuso a vita nello scrigno.

Non scherzare: soffro di claustrofobia io. Posso avanzare una proposta?

Spara.

Slubump!

Non dicevo letteralmente.

Non fare il pesce pagliaccio! Comunque, potresti togliere almeno il pesce palla? È un insopportabile c…sblurp

Carassius! Insomma modera il linguaggio!

Dai, che ci ridiamo su lo stesso! Sblurp!

Il trapasso

Homer Wells, ascoltando Big Dot Taft, si sentiva simile alla sua voce: intontito. Wally era via, Candy era via, e l’anatomia del coniglio non era, dopo Clara, impegnativa; i migranti, da lui tanto attesi, erano semplicemente gente che lavora sodo; la vita era solo fatica. Lui era cresciuto senza accorgersi del trapasso, dunque? Non c’era nulla di notevole, in tale trapasso?

Da Le regole della casa del sidro, John Irving

Questione di acquario

Come rispondere a una semplice domanda: “come stai?”.

Di solito mi limito a sorridere “tutto bene”. È la risposta che tutti vogliono sentire e che di solito apre la strada a un lungo racconto di disgrazie altrui, che prevede, secondo copione, il mio stupore, sostegno, consiglio. Anche perché, in genere, chi mi sta vicino mi considera l’imperturbabile, forte, fredda ragazza che se la cava benissimo da sola. Non ho bisogno di aiuto, ho le soluzioni in tasca.

Quando, però, infilo le mani in tasca e non trovo più niente, beh, lì cominciano i guai.

“Come stai?”

“In verità non molto bene”?

Anche così non ha funzionato. È seguita una filippica su quanto stesse peggio l’interlocutore. Non mi piace fare a gara sulle disgrazie. E quindi ancora stupore, sostegno, consiglio.

“Come stai?”

Parole di vuota formalità, lo so bene. Ma sono piccoli spilli che si aggiungono, piano piano. All’inizio è solo fastidio, poi diventa un dolore, infine si trasforma in tortura.

E questi giorni hanno reso ancora più acuminati gli spilli. Ho dovuto abbandonare una città che ho odiato e amato e a cui penso con nostalgia. Ho perso il lavoro, ho lasciato colleghi, ho rinunciato alla mia autonomia. “Sei stata un’importante risorsa” ma quella è la porta. Belle parole, pochi fatti.

E mi sento sola. Insomma, rimpiango i pesci tropicali e anche quelli pagliaccio. Dopotutto alcuni si sono rivelati amici, altri avevano iniziato ad apprezzare le mie scontate squame rosse.

Come stai?

Beh, a dirla tutta, l’acquario potrebbe essere molto migliore.