Il fabbricante di bambole – Pt. 13

Materia ineffabile il sogno, in pochi attimi si può trasformare in un incubo. L’avventura di Faber si stava rivelando più pericolosa del previsto, soprattutto per la sua volontà di vedere ciò che non avrebbe dovuto. Ci sono leggi ed equilibri che devono essere mantenuti, glielo aveva fatto capire Nestor, ma la curiosità, o la disperazione, possono mettere in comunicazione dimensioni indipendenti.

Eleonor non c’era più, faceva parte della polvere del passato, un semplice ricordo relegato in un angolo del cuore. Faber si era ribellato a questa evidenza, aveva visto nella prima bambola, quella appartenuta alla ragazza, un frammento della risata cristallina, lo scintillio dello sguardo sognante, il respiro di una vita strappata troppo presto. L’uomo tranquillo, fatto di terra e di sassi, aveva rifiutato la realtà, e si era creato un mondo di bambole e fate, di ragazze sorridenti e perfette che non lo avrebbero mai abbandonato.

Faber aveva voluto rendere immortale Eleonor, facendole vivere quelle mille vite tra le quali avrebbe dovuto scegliere se solo ne avesse il caso le avesse concesso questa possibilità. Il fabbricante aveva costruito con le sue mani e la sua disperazione un inganno che aveva la parvenza di sogno.

Ma se Eleonor non era più viva, perché se la trovava là davanti, fianco a fianco a Nestor?

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Perdersi

Si dice che, perdendosi in un bosco, sia probabile tornare sui propri passi senza volerlo. Al posto di procedere, di seguire un’immaginaria linea dritta, si gira attorno allo stesso punto, come una trottola impazzita. Si vedono le stesse rocce, le stesse radici, alberi dall’aspetto ormai familiare, terreno conosciuto. Ma queste forme note non danno sicurezza, ma solo un senso di sconforto e di insicurezza.

Eccoci qui, quindi, allo stesso punto di un momento creduto passato. Vano il pensiero che forse la storia non si stia ripetendo, illusoria l’idea che questa volta le cose seguiranno un percorso diverso. C’è sempre la speranza che sussurra parole di miele, che nella mente si trasformano in indicibili promesse. Promesse che si spera non vengano disattese.

Non si può smettere di sperare e di sognare. Ma queste rocce hanno forma così riconoscibile. Magari venti simili con destinazioni diverse le hanno modellate.

In attesa

La preghiamo di rimanere in attesa.

L’umanità della richiesta era pari a quella della voce che la pronunciava: nessuna. Eppure veniva pregato di aspettare altri minuti, con la mente e la testa rintontiti dall’assordante musichetta, impostata probabilmente da qualcuno che peccava in udito.

E sul più bello che la colonna sonora dell’inferno si interrompeva lasciando presupporre che l’attesa non era stata vana, le uniche parole metalliche che venivano ripetute lo pregavano di rimanere in attesa. Ancora in attesa.

In attesa di cosa? Di una risposta, di una soluzione? E mentre se ne stava passivamente in attesa, i minuti passavano. Era da stolti rinunciare all’attesa e continuare la propria vita, o non demordere e sperare di parlare con qualche voce umana.

La preghiamo di rimanere in attesa.

E chi si muove? L’urgenza di parlare era al massimo, la sua pazienza al minimo, come anche il volume del telefono. Il tutto nell’inutile tentativo di rendere più tollerabile quel limbo.

O forse non era il limbo, era un girone vero e proprio, il girone di coloro che attendono funestati dalla speranza che qualcosa cambierà pur nell’attesa, dilaniati da una voce artificiale, sferzati da una cantilena urlata.

Il girone degli immobili.

La preghiamo di rimanere in attesa.

Magari ci sarebbe andato, ma più tardi. Per ora, decise di riattaccare.

Alla ricerca dell’errore

Ho sempre avuto la convinzione che, quando qualcosa non riusciva ad andare per il verso giusto, tutto dipendesse da un errore. Bastava semplicemente individuare quel punto fallace, per risolvere la questione e raggiugnere l’obiettivo.

Questa teoria ha funzionato raramente.

In effetti, quasi tutte le mie convenzioni non hanno mai funzionato benissimo. Erano più che altro castelli stupendi privi di fondamenta: al primo assalto della vita, venivano rasi al suolo senza alcuna pietà. Non sempre me ne rendevo conto subito, poiché continuavo a visualizzare quella costruzione ormai divenuta irreale, e a pensare che continuasse a reggere bene.

Errore e duro lavoro erano le chiavi per il successo. Errore da risolvere con il duro lavoro, per essere più precisa. Piccolo problema: il duro lavoro non sempre viene ricompensato, e l’errore non è così facile da individuare.

Se solo riuscissi a capire dove si trovi questo maledetto errore, potrei ricostruire il castello. Magari, questa volta, con le fondamenta.

Arriverà, arriverà, vedrai che arriverà

Photo by Brett Sayles on Pexels.com

Erano ormai giorni che il sole non faceva capolino dalla coltre scura di nubi. Erano passati così tanti giorni che ormai si stava parlando di settimane. I saggi, coloro che sapevano e che avevano imparato, tuonavano più alti dei borbottii celesti che riempivano l’aria: sostenevano che qualche divinità, o la forza della natura stessa, si stava rivoltando contro quella contrada a causa di un qualche misfatto, di un peccato terribile, che andava espiato il prima possibile. Quale fosse il peccato, però, rimaneva un mistero, come anche le modalità con le quali mondare questa così turpe macchia.

“Tornerà, tornerà, vedrete che tornerà”.

A gracchiare non era stato il solito esperto che sentiva l’impellente necessità di proporre la propria versione dello strano fenomeno di precipitazione. Era un vecchio, piegato su una sedia, che passava la maggior parte del suo tempo a sorridere con aria dolcemente assente mentre guardava di sottecchi l’orizzonte che si affacciava alla sua finestra. Era conosciuto semplicemente come il Vecchio, poiché ormai nessuno si ricordava più quale fosse il suo nome. Nemmeno il Vecchio stesso sarebbe stato in grado di indicare quale fosse stato il suo nome perché erano anni che viveva sospeso tra il mondo dei vivi e quello dei morti senza decidersi di fare il passo risolutivo: la sua mente ricordava tempi remoti e nomi divenuti polvere, il presente non trovava più spazio in quella coscienza, ma il suo corpo sembrava essere saldamente ancorato al mondo terreno.

“Chi tornerà?”

La cura del Vecchio era affidata a un ragazzino di una povera famiglia. Non doveva fare molto: solo assicurarsi che mangiasse qualcosa e che la casupola rimanesse in ordine. Inoltre lo accompagnava a dormire ogni sera e lo aiutava a raggiungere la sua sedia ogni mattina. Spesso sentiva borbottare il Vecchio: per il giovane erano parole senza senso anche quando un senso, in realtà, c’era. Raccontava di storie lontane, di persone che il giovane non conosceva, di battaglie e di sconfitte.

“Eh, eh, chi vuoi che torni dopo la pioggia?”

Il giovane non diede tropo ascolto a quelle parole. Magari nella gioventù del vecchio dopo la pioggia si affacciava alla porta l’amata o qualche amico. Per il giovane quella pioggia era maledetta, nulla su cui ridere come faceva il Vecchio. Il terreno si era rammollito troppo, impossibile lavorare i campi. Sarebbe stato un altro anno di magra per la sua famiglia. Un altro anno di fame.

“Chi vuoi che arrivi dopo la pioggia? Al massimo la fame! Ora devo andare. A stasera”.

“Arriverà, arriverà, vedrai che arriverà”.

Aiutare il Vecchio non dispiaceva al ragazzo, forse perché gli permetteva di allontanarsi dalla sua famiglia per un po’, allontanarsi da quelle facce stanche e deluse, invecchiate prima del tempo. Anche al giovane sarebbe toccato un destino simile, lo sapeva bene. Avrebbe dovuto piegare la schiena, esporla al sole e lavorare sodo per rimanere comunque in uno stato di povertà. O almeno quello era il suo destino primo che le piogge incessanti avessero trasformato il suo mondo in melma. Almeno il Vecchio con le sue farneticazioni riusciva a trasportarlo in un mondo in cui il sole ancora splendeva e illuminava strani personaggi che sembravano sapere esattamente cosa fare per ottenere un riscatto.

E chi mai sarebbe dovuto tornare dopo la pioggia? Forse anche il Vecchio voleva rivedere il sole: sarebbe stato ben triste spegnersi senza aver rivisto l’oro impalpabile del cielo.

Poi un giorno smise di piovere. Senza necessità di espiare nessuna colpa. Senza compiere sacrifici o sacrificare un colpevole. E arrivò. Esattamente come aveva predetto il vecchio arrivò. L’arcobaleno.

“Hai visto? È arrivato, vero?”

“Sì, Vecchio è arrivato”.

“Allora è tempo che io vada”.

Arbusto

Sii forte, resisti, sempre. Anche nelle terre lontane, selvagge. Anche nei luoghi più impervi, là dove non c’è acqua con cui dissetarsi, né ossigeno da respirare.

Devi sopravvivere dove pianta non cresce, né creatura osa avventurarsi.

Diventa arbusto, spinoso, secco, ma resistente, infaticabile, inestirpabile.

Ad un primo sguardo sembri morto, un semplice ramo rinsecchito, nodoso, senza vita che spunta dal terreno sterile.

Ma la primavera arriverà anche per te, con il suo carico di vita e di calore.

E allora anche l’arbusto si infiammerà con gemme delicate e fragili, preziose e umili. Le sue spine verranno addolcite da teneri petali danzanti al vento. Dirà al mondo intero che esiste anche lui, che la sua bellezza caduca e passeggera può sconfiggere l’oblii.

Una macchia di colore. Un barlume di vita. Una speranza delicata e tenace.

Diffondi questa tua vita anche qui, tra queste terre arse e spoglie.