Il fabbricante di bambole – Pt. 13

Materia ineffabile il sogno, in pochi attimi si può trasformare in un incubo. L’avventura di Faber si stava rivelando più pericolosa del previsto, soprattutto per la sua volontà di vedere ciò che non avrebbe dovuto. Ci sono leggi ed equilibri che devono essere mantenuti, glielo aveva fatto capire Nestor, ma la curiosità, o la disperazione, possono mettere in comunicazione dimensioni indipendenti.

Eleonor non c’era più, faceva parte della polvere del passato, un semplice ricordo relegato in un angolo del cuore. Faber si era ribellato a questa evidenza, aveva visto nella prima bambola, quella appartenuta alla ragazza, un frammento della risata cristallina, lo scintillio dello sguardo sognante, il respiro di una vita strappata troppo presto. L’uomo tranquillo, fatto di terra e di sassi, aveva rifiutato la realtà, e si era creato un mondo di bambole e fate, di ragazze sorridenti e perfette che non lo avrebbero mai abbandonato.

Faber aveva voluto rendere immortale Eleonor, facendole vivere quelle mille vite tra le quali avrebbe dovuto scegliere se solo ne avesse il caso le avesse concesso questa possibilità. Il fabbricante aveva costruito con le sue mani e la sua disperazione un inganno che aveva la parvenza di sogno.

Ma se Eleonor non era più viva, perché se la trovava là davanti, fianco a fianco a Nestor?

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Ingranaggi inceppati

Che cos’è questo rumore? Stride, borbotta, gorgheggia. Un frastuono che non si può sentire.

Qualcosa non va, qualcosa si è inceppato. Una guarnizione? Una cinghia? O forse una rotellina si è bloccata?

Con un ansimo da animale ferito ricerca i suoi utensili: cacciavite, olio, chiave inglese, pezzi di ricambio. Deve fare tutto da solo. Il suo creatore ormai si disinteressa di lui, è occupato con creazioni ben più complesse e raffinate.

Un sibilio, un altro sbuffo.

Seduto su una panca di legno che ha visto tempi migliori, cerca di capire che cosa non vada.

Lubrifica le giuntura. Ora lo stridore non c’è più. Smonta il delicato meccanismo installato nella testa. Qualche rotella è andata fuori posto, ma ora sembra funzionare tutto. Adesso i suoi processi sembrano essere più chiari,

Anche la cinghia nel petto era ormai logora. E poi, con un panno, via la ruggine, le macchie, i graffi.

Visto da lontano sembra un tragico guerriero intento a lucidare la sua vecchia armatura.

Ma per quanto riparasse, sostituisse, lubrificasse, un lamento persistente continua ad alzarsi dal suo involucro. Niente, non se ne va.

Sembra provenire dal suo stanco petto. Chissà, magari, con il tempo, anche questo rumore se ne andrà.

Metà

A prima vista sembrava un uomo come tanti. Un signore distinto, elegante e gentile. In realtà, pochi potevano affermare di conoscerlo o semplicemente di avergli parlato.

Viveva isolato nella sua casupola. Lo si poteva vedere mentre curava il giardino e il magnifico roseto che era stato tanto desiderato da sua moglie. A maggio quello scheletro di rovi che in inverno esprimeva con i suoi steli il freddo del clima, si scaldava con i colori del sole, del fuoco,divampava creando una macchia felice e scomposta in quel giardino così ordinato e monocromo.

Spesso, però, rimaneva in casa. A volte quando usciva indossava un cappello che gli nascondeva gli occhi. Era, in effetti, l’unica particolarità che lasciava i suoi vicini un po’ perplessi.

Aveva cominciato a isolarsi in seguito alla perdita di sua moglie. Al funerale era rimasto impassibile, non un muscolo si era mosso. Non aveva parlato, aveva solo stretto le mani di chi gli si avvicinava. Alcuni avrebbero giurato, però, che l’occhio sinistro fosse umido, arrossato e gonfio. Anche l’angolo della bocca ora sembrava piegarsi in una smorfia di dolore, ora tremava leggermente.

Ma poteva darsi che fosse solo un’impressione.

Seduto sulla poltrona, chiuse tutte le imposte, il signore sospirò e scrutò il suo volto allo specchio. Non era più tornati normale. L’occhio destro era limpido, terso come il cielo liberato da un venti di primavera. L’altro era opaco, offuscato da una nuvola di dolore, sempre pronta a lasciarsi andare a una pioggia di calde lacrime.

Anche la bocca era rimasta deformata. Una metà appariva distesa, l’altra perennemente triste, serrata, sottile.

Solo quando si affacciava a vedere le rose fiorite gli sembrava di sentire la voce della sua amata che lo chiamava ad ammirare quello splendore spinoso.

E allora le labbra si stiravano in un pallido sorriso, e l’occhio ferito tornava a vedere la luce.

Rabbia e paura

Al dolore è seguita la rabbia. O la rabbia si è affiancata al dolore e con la sua massa ingombrante l’ha assorbita e piegata al suo volere. Non lo so, ma di certo l’ira ha preso il sopravvento.

Lo stupore e l’incredulità hanno maturato frutti pieni di fiele, che con forza e violenza corrodono le carni.

Ti ho sempre voluto bene, più di quanto io potessi solo immaginare. Eri quella solidità che si dava per scontata, quel porto tranquillo anche quando il mare chiama a sé con violenza. Mai errore è stato più grande. Mai sottovalutare una fortuna così grande.

C’è stata quella maledetta tempesta che ha spazzato via il porto. Nulla da fare, nulla da ricostruire, solo un vuoto da colmare ricolmo di ricordi.

Non posso perdonare. Perché sei stato testimone alle mie vittorie, perché non mi hai visto cadere e farmi male, davvero male. Perché non hai visto le miei sconfitte e perché non mi hai potuto consolarmi con i tuoi modi un po’ burberi che mi piacevano così tanto. Non hai potuto vedere la mia rabbia e la mia forza.

E ho paura che i ricordi si affievoliscano, che mi rimangano impressi negli occhi solo gli ultimi istanti.

Non serve a nulla ricordare un passato perduto, vero? Bisogna imparare a costruire un futuro migliore. Ma è difficile e per ora i tentativi sono falliti.

Non ti ho perdonato, ma ti terrò sempre con me.

Ferite

Ferite che non si rimarginano, ma che rimangono vive, rosse e pulsanti.

Dolori che non scompaiono, ma anno dopo anno mutano, cambiano natura, magari per un attimo si affievoliscono, ma solo per tornare più mordenti nei momenti di debolezza.

Gocce di sangue che stillano dalle fessure, come rubini liquidi.

Piaghe invisibili, nascoste sotto spesse bende di serenità.

Sangue scuro, nero,viscoso, in cui nostalgia, inadeguatezza, paura, nostalgia, rabbia e dolore si mescolano creando un intruglio doloroso e corrosivo, che lascia lentamente dietro di sé striature ardenti e profonde.

Ferite che si imprimono nel cuore, che stringono i polmoni e tagliano le viscere.

Ferite che si infettano diventando sempre più profonde.

Ma non mostrarle mai, non lasciarle intravedere a nessuno. Debolezze dolorose che possono causare imbarazzi, che possono gettarti a terra.

Buio

A volte i miei pensieri mi fanno paura, volano nella direzione sbagliata. Trovano una comoda dimora in un groviglio di rovi e la luce, per qualche lungo attimo, si spegne. Non riesco a trovare motivi per riaccenderla, la voce si smorza, le labbra si muovono mute, come in un vecchio film, come pesce che saltella alla ricerca di acqua. I bronchi si chiudono, il fiato diventa affanno, la mente si offusca e avanzano gli spettri.

Davanti lo scheletro di un uomo, semplice ombra di ciò che è stata, ormai privo di qualsiasi forza vitale. Scheletro di una persona che tanto ho amato, che tanto mi manca, e di cui, forse, non ho mai superato la scomparsa.

Segue lo spettro ghignante di chi non mi ha mai sostenuta, incoraggiata, relegandomi in una zona grigia di indifferenza e mediocrità. E io chino la testa e lo ascolto: è vero, sono solo una delle tante ombre che non porterà nulla a termine.

E lì, vicino, la maschera grottesca dei fallimenti. La voce che rimbomba elenca uno ad uno tutti gli errori e le stupidità che ho commesso. E l’eco si premura e ripeterli all’infinito.

E su tutte troneggiano le figure di Rancore e del suo compagno Paura. Rancore nei confronti di chi si è dimostrato più furbo, di chi è stato capace di conquistare cuori e non solo grazie al suo fascino. Paura per questo livore che non voglio che mi appartenga. Paura di trasformarmi in un meschino essere roso dall’invidia. Paura di trovare il mio posto e rimanere nel limbo.

Alla fine, però, quello scheletro mi sorride benevolo, come una volta. Lo spettro arretra stupito. La maschera cade muta a terra. Rancore e Paura diventano minuscoli esseri. La luce torna. A volte a gran fatica.