Paura di faticare

Ho sempre avuto un concetto un po’ vecchio stile secondo cui, se si vuole ottenere qualcosa, bisogna faticare. Sono stata cresciuta con questo principio, e mi ha guidata in molte delle mie scelte. Se voglio raggiungere un obiettivo, sono capace di mettere in campo ogni briciola di determinazione e di forza.

Ho incontrato molti che condividevano questa mia visione forse un po’ masochistica della vita: niente viene regalato, tutto dipende dalle proprie capacità. Eppure in questo strano e affascinante viaggio che ho intrapreso, mi sono ritrovata con dei compagni che sembrano appartenere a un’altra dimensione. La fatica deve essere evitata a qualsiasi costo, non è ammissibile che qualcosa possa essere ottunuto con sudore.

La vita non è, però, un parco giochi, e le persone che ne solcano le acque possono voler causare delle onde inaspettate. E allora che cosa si fa di fronte a questi impervisti? La mia risposta si trova nel lavoro, in una bella remata forte che potrebbe portarmi dritta dritta negli abissi, senza che nessuno si degni di lanciare un salvagente. E poi c’è chi se ne sta ben lontano dal pericolo, ma anche dalla meta, e tenta di trovare qualche scorciatoia, qualche modo per aggirare l’ostacolo.

Quale delle due strade sia più efficiente, però, non mi è ancora ben chiaro.

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Occhi vuoti

Guardare negli occhi di Persefone significa immergersi nel nulla, perdersi negli anfratti della morte e riemergere senza fiato in un mondo che non ha più calore. Guardare negli occhi di Persefone lacera l’anima, che ne rimane mutilata.

Sembrava di fissare un grande baratro quando il proprio sguardo incrociava quello della vecchia. Gli occhi azzurri, chiari come una lastra di ghiaccio, riflettevano vacui un mondo che non era quello terreno. Per questo l’avevano chiamata Persefone, anche se il suo vero nome si era perso nelle pieghe dei ricordi. Si diceva che chi fosse stato in grado di sostenere quel contatto avrebbe potuto scoprire il proprio futuro, il destino che gli era stato assegnato nel grande libro della vita. Altri sostenevano che si trattasse solo di una povera vecchia, un po’ persa, che aveva perso la vista nelle cataratte.

Ognuno osserva il mondo e lo interpreta a modo proprio. C’è chi vi intravvide una traccia di magia, chi un anelito divino e chi un tanto complesso quanto perfetto meccanismo. Eppure erano in molti a sostenere che la vecchia avesse dei poteri, anche prima di varcare la soglia del declino. Non parlava quella donna, e non si aveva memoria di mariti o figli, ma la sua sola presenza riempiva la stanza e faceva crollare nel silenzio anche il più logorroico dei narratori.

Persefone non aveva paura della morte, nonostante il suo futuro non prevedesse molte altre possibilità. L’avrebbe accolta come una compagna che finalmente la grazia con una visita tanto attesa. Aveva finito il suo gioco, era ora di andare.

Gli occhi vuoti di Persefone perseguitano i vivi, che tanto temono quelle perle nere incorniciate da un freddo mare di incertezza.

Vertigini

Le grandi altezze hanno sempre il loro fascino terrorizzante, tanto che questo ammaliante fascino ha un suo nome, vertigini.

Non ho mai amato le altezze, ho persino il terrore di salire le scale a pioli o quei ritrovati architettonici che prevedono la scomparsa dell’alza di un gradino. Eppure, tra le cose da fare prima che qualche malanno o qualche sfortuna me lo impediscono, la maggior parte coinvolge le vertigini, probabilmente perché la paura spesso nasconde un desiderio più grande.

Il desiderio di vedere da un’altra prospettiva un mondo che sembra troppo piccolo e che si racchiude sui suoi occupanti come uno scrigno geloso. O forse il desiderio di sentire il vuoto. Perché le vertigini alla fine sono questo, sono il vuoto che chiama, sono il corpo che si sente allo stesso tempo pesante come un macigno e leggero come una piuma. E queste sensazioni inebriano la mente, la spaventano e la paralizzano, con un miscuglio di sentimenti che zittiscono il semplice e selvaggio istinto alla sopravvivenza.

Forse, il selvaggio istinto alla curiosità e al pericolo può sconfiggere anche le inibizioni più consolidate.

Paura del buio

Da piccolo aveva paura del buio, e anche ora che non poteva certo dirsi bambino quel timore continuava a tormentarlo. Era una paura del tutto legittima: il buio nasconde qualsiasi cosa, anche le ombre, annulla lo spazio, benda gli occhi e riempie il vuoto di suoni e sussurri.

Era stata sua mamma a rendere sopportabile quella fobia, regalandogli un lumino capace di illuminare gentilmente la stanza. Allora la notte si popolava di forme e di immagini in bianco e nero, veniva abitata da creature che non lo facevano mai sentire solo.

Ancora aveva bisogno di quella luce, anche se non doveva essere per forza reale. Bastava chiudere gli occhi e accendere una dopo l’altra centinaia di lucine, fiaccole e candele. Nella sua mente la notte diventava cielo stellato e il buio veniva squarciato con forza inaudita da mille lucciole impazzite.

Con unghie e denti

Aveva lottato. Gli avevano detto di resistere, di non arrendersi mai. E lui aveva seguito i consigli, non aveva mollato mai. Aveva resistito e cercato di portare a casa una vittoria, strappandola con le unghie e con i denti.

A vederla ora, quella vittoria aveva un aspetto ben misero e macilento. A forza di tirarla e spingerla, di aggrapparsi a quella vittima con ogni forza possibile, l’aveva ridotta ad uno straccio, che manteneva una certa decadente bellezza.

E ora, nel momento del bilancio, quella vittoria doveva essere soppesata e valutata. Il pericolo che lo sforzo non avesse portato nient’altro se non fatica era molto alto e quasi inevitabile.

Immagini

Davanti agli occhi, o forse dentro la sua testa, scorrevano lampi di colori, come un film impazzito che tentava di seguire il battito folle del cuore di un colibrì.

La fontana di una casa che non esisteva più gli bagnava le mani paffute e rosse per il freddo, ed era felice.

Una risata si spandeva per l’aria, forse un po’ troppo acuta, forse un po’ troppo rumorosa, ma non aveva problemi, non aveva confini.

Quel sorriso galleggiava sopra di lui, e si sentiva protetto.

I giochi vennero rimpazziati da libri, fogli, carte, penne. E scoprí nuovi mondi, alcuni affascinanti, altri terribili, alcuni spaventosamente reali, altri magicamente falsi. E sogno si confuse con realtà, realtà scivolò in immaginazione, e immaginazione spiegò le ali per raggiungere l’universo.

E c’era anche lei, il suo sorriso, le sue parole, la carne e il respiro. Lei era il sogno che si era svegliato al momento sbagliato, che aveva assaggiato la fiele del mondo credendo che fosse nettare. La delusione gli tolse il fiato.

Ma il film doveva continuare. Racchiuse l’amore per lei nel cuore, come i petali di una rosa racchiudono il proprio segreto, e vide scivolare via altri giganti e anche qualche nano.

Vide le vittorie e le sconfitte. Vide re umani e regni di api. Era tutto così veloce, tutto così confuso. Strinse le mani a mille persone senza volto, sorrise e pianse.

Per ogni vertebra vide una storia, per ogni respiro sentì una voce. E sperò di non vedere la fine di quella strana commedia.

Squalo nello stagno

Strano vedere uno squalo in uno stagno. Meno strano è l’aspetto perito e sconsolato dello squalo, che si aggira senza tregua come se da qualche parte, persa in quel piccolo regno, potesse trovare una spiegazione valida per la sua triste condizione.

Neppure allo squalo è chiaro il motivo per cui sia ancora vivo: sapeva che il suo fisico fosse adatto agli oceani, o comunque all’acqua salata, non certo a quella pozza di acqua dolce. E poi c’era il problema del cibo, mai sufficiente per il suo corpo. Le rane e i pesciolini lo potevano anche sostentare per un breve periodo, ma non aveva la minima speranza di poter resistere ancora a lungo. I viveri stavano scarseggiando e anche l’ossigeno dell’acqua si era fatto più rado. Lo stagno sembrava essere diventato più denso, tiepido e pesante, come una trappola.

Lo squalo non poteva sperare in qualche aiuto. Per quanto fosse in difficoltà, per quanto fosse disperato, incuteva timore in chi lo vedeva sguazzare irrequieto nella melma. Avrebbero aspettato come semplici spettatori che lo squalo si disintegrasse da solo, sorridendo soddisfatti a vedere un così temibile nemico soffrire e agonizzare.

Era questo, quindi, il destino che spettava allo squalo: accontentarsi di un mondo troppo piccolo, o soccombere a esso.

Sopravvissuti

Non è semplice uscire dalla tana, guardare di nuovo il cielo azzurro, e riconoscere, infine, che si è sopravvissuti. Non è facile voltare le spalle al passato, a quello che sembrava essere l’unico mondo degno di essere vissuto. Nonostante la deflagrazione, nonostante il tornado, sei sopravvissuto, hai lasciato a terra compagni, hai visto quel limite avvicinarsi, talvolta hai pensato che forse avresti potuto valicare quel limite.

Strane creature, i sopravvissuti: sembrano vergognarsi di essere ancora là, di avere polmoni capaci di respirare, di sentire il calore del sangue fluire nelle vene, di toccare il mondo con mani tremanti e timide. Non accettano il fatto di esistere, mentre tanti altri sono stati avvolti dalla bruma del nulla. I sopravvissuti non si sentono degni di stare ritti in piedi, di camminare, di parlare. La loro voce è un sussurro che non vuole essere ascoltato, il loro passo non osa tramutarsi in danza, l’animo non vuole conoscere amore.

Eppure dovrebbero essere proprio i sopravvissuti ad avere una riserva senza fine di coraggio. Chi altri potrebbe gridare al mondo la gioia della vita? Hanno visto la morte, ne hanno percepito l’alito dolce, ma sono riusciti ad allontanarsene incolumi, magari spaventati, ma incolumi. L’aria è loro, la primavera, le melodie proibite, i piaceri sono tutti loro.

A volte i sopravvissuti non capiscono di potersi alzare e correre, di poter sorridere ancora una volta.

Morire

La mia paura è non riuscire più a vedere le stelle, oppressa dall’oscurità.

La mia paura è non vivere e non saper vivere.

È brancolare nel buio senza una meta.

La mia paura è non sapere cosa voglio. È volere tutto e non volere niente.

La mia paura è la solitudine. Una solitudine che ho costruito con le mie mani e che ora fatico a demolire.

La mia paura e morire vivendo.

È non trovare la via.

E non c’è nessuno che sia disposto a porgermi una mano.