Via il vecchio, avanti il nuovo

Grandi cambiamenti si stanno susseguendo, e non è così facile affrontarli. Aggiungetici qualche imprevisto per nulla gradito, ma molto costoso, e avrete la formula perfetta per un umore pessimo. Almeno la prospettiva non è così malvagia come potrebbe sembrare, basta tenere duro, mettercela tutta, e andare avanti.

Ma per procedere è necessario fare un po’ di spazio, lasciar andare la zavorra, come una mongolfiera. Mi sono sempre piaciute le mongolfiere: non ci salirei mai, dato che non mi attrae l’idea di viaggiare in un cesto di vimini sostenuto da una fiamma, ma le ho sempre guardate con la curiosità di una bambina stupefatta. Loro in cielo e io ben piantata per terra.

Tornando a noi, ho dovuto fare spazio, anche fisicamente, e penso che sia solo l’inizio. E per me fare spazio non vuol dire spostare, ma eliminare fisicamente ciò che non mi serve più. Ammetto che si è trattato di una grande fatica, molto simile a un lutto. In primo luogo perché ho eliminato le tracce della mia fatica. Anni di lavoro, che poi si è rivelato nella pratica inutile, stralciati in pochi minuti, in appena una mattina.

Davanti ai cumuli di quella che era diventata mera cianfrusaglia, mi sono sentita persa: tutto quella fatica per diventare cosa? Solo un grande insieme di carta e qualche mucchietto di plastica. E in quella collinetta c’erano ore di studio e di impegno, che ora giacevano scomposti a terra.

Ma è bastato buttare tutto nei bidoni per sentirmi alleggerita. Lo sconforto iniziale è mutato diventando sollievo e un po’ eccitazione per ciò che quegli scaffali avrebbero custodito da ora in poi.

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Spazi vitali

Abbiamo bisogno del nostro spazio. Non è certo una novità, come dimostra, tra gli altri, anche Virginia Woolf in A Room of One’s Own. Per quanto siano passati diversi anni, molti dei problemi che la scrittrice aveva messo nero su bianco permangono, e non solo nel mondo letterario. Gli spazi vitali, la capacità di intagliarsi uno spazio nella vita privata, così come nella società, è sempre stato un problema che accomuna tutti, e in particolar modo le donne. Tra famiglia e doveri di vari tipo che vengono convenzionalmente attribuiti al ruolo femminile, poche sono le occasioni in cui si riesce a chiudersi nella propria stanza.

Non mi addentrerò in una dettagliata analisi della questione, per quello c’è il libro della Woolf, che, oltre a essere di grande ispirazione, è anche abbastanza complesso da rendere superflua ogni mia aggiunta. Negli ultimi giorni, però, ho sentito la mancanza di questa famosa stanza in cui ritirarsi per dedicarsi a ciò che più aggrada, o semplicemente per non sentire il cicaleccio del mondo e di persone a malapena tollerate. In primo luogo perché la mia stanza è stata momentaneamente ceduta per un bene superiore, dal quale bisogna sempre diffidare, e in secondo luogo per i doveri sociali che si impongono con ferrea decisione.

Sembra di essere in un perenne stato di soffocamento, non solo fisico, ma anche mentale. I pensieri sbiadiscono, diventano pesanti, e si fatica a respirare, come se l’aria diventasse rarefatta. Senza contare la capacità di qualcuno di ritenersi degno di poter criticare ogni singolo aspetto.

Ho passato una vita a cercare la mia stanza, con scarsi o precari risultati. Ma mai perdere la speranza.

Squalo nello stagno

Strano vedere uno squalo in uno stagno. Meno strano è l’aspetto perito e sconsolato dello squalo, che si aggira senza tregua come se da qualche parte, persa in quel piccolo regno, potesse trovare una spiegazione valida per la sua triste condizione.

Neppure allo squalo è chiaro il motivo per cui sia ancora vivo: sapeva che il suo fisico fosse adatto agli oceani, o comunque all’acqua salata, non certo a quella pozza di acqua dolce. E poi c’era il problema del cibo, mai sufficiente per il suo corpo. Le rane e i pesciolini lo potevano anche sostentare per un breve periodo, ma non aveva la minima speranza di poter resistere ancora a lungo. I viveri stavano scarseggiando e anche l’ossigeno dell’acqua si era fatto più rado. Lo stagno sembrava essere diventato più denso, tiepido e pesante, come una trappola.

Lo squalo non poteva sperare in qualche aiuto. Per quanto fosse in difficoltà, per quanto fosse disperato, incuteva timore in chi lo vedeva sguazzare irrequieto nella melma. Avrebbero aspettato come semplici spettatori che lo squalo si disintegrasse da solo, sorridendo soddisfatti a vedere un così temibile nemico soffrire e agonizzare.

Era questo, quindi, il destino che spettava allo squalo: accontentarsi di un mondo troppo piccolo, o soccombere a esso.