Caverna

C’è una piccola caverna oscura, un diamante nero incastonato tra il cuore e il polmone. In questo anfratto vive una creatura mostruosa, minuscola, certo, ma potente. Sembra uno sbuffo di fuliggine, con zampette dotate di artigli e vispi occhi luccicanti. O forse è più simile a una creatura tentacolare, che si avvinghia con forza e stritola anche le rocce.

In un punto ben preciso del petto c’è lo sconfinato regno di una creatura subdola e scaltra. Il suo è un potere incontrastato. Il nome oscilla da rabbia a vendetta, talvolta muta anche in invidia. Difficile da domare, impossibile da addomesticare.

La caverna è minuscola, quasi impercettibile, ma la posizione è ottima. Comanda il cuore, toglie il fiato, accelera il ritmo, lo riduce al minimo. A euforia amara segue un dolore profondo che smorza il respiro.

È una strana creatura. E quando decide di uscire è meglio prepararsi al peggio.

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Schadenfreude

Non esiste una corrispettiva parola in italiano per Schadenfreude. È la tendenza a gioire delle disgrazie altrui. In altre parole, è l’usupatore della compassione, intesa come provare sentimenti affini a chi si trova in momenti di difficoltà.

Ammettiamolo, tutti prima o poi abbiamo sorriso compiaciuti alla disfatta di qualcuno, magari nascondendoci per non rendere palese la nostra soddisfazione. Dopotutto siamo imperfetti e non ci può essere simpatica l’intera umanità. Magari siamo solo contenti che la lezione della sconfitta venga impartita anche a chi non sembra conoscere il fallimento.

Quando, però, questo atteggiamento si protrae nel tempo e diventa esultanza, può creare sofferenza. Vedere giganti in ginocchio può far piacere, infierire su chi è già a terra è cattiveria.

E così i topi della discarica più mefitica si divertiranno a nutrirsi delle carni di aquila.

Stelle assenti

“C’è una stella sopra di noi”.

Era la frase che veniva detta con fin troppa frequenza dalla coinquilina. Anna riteneva che la stella fosse più che altro una sfacciata fortuna.

E se ci fosse davvero questa stella dagli influssi benefici, dove si era nascosta la sua? Molto probabilmente era stata sostituita con un meteorite portatore di sventure, ne era certa. Soprattutto negli ultimi tempi Anna si era trasformata in un terremoto ambulante: aveva rotto bicchieri, scheggiato la cucina, si era tagliata e bruciata cucinando, senza contare i mal di schiena e lo scivolone del giorno prima.

Di stelle non ce ne era neppure uno scintillio. E quando la coinquilina le raccontava le sue fortune, Anna si intristiva e si chiedeva come fosse possibile che a qualcuno andassero sempre tutte per il verso giusto.

“C’è una stella sopra di noi”, ma quella volta la luce che vide la coinquilina non era né luce divina né luce celeste. Era talmente terrestre, da lasciare tutti senza fiato.

La luce che vide era quella di una lama. E Anna teneva saldamente il manico mentre metteva a tacere quella storie di stelle. Per sempre. Ora il meteorite si sarebbe schiantato per bene.

Anna venne denunciata e scontò la pena per tentato omicidio.

Tentato. Perché la coinquilina sopravvisse per poter dire a tutti coloro che le capitavano a tiro “C’è proprio una stella in cielo!”.

Squalo nello stagno

Strano vedere uno squalo in uno stagno. Meno strano è l’aspetto perito e sconsolato dello squalo, che si aggira senza tregua come se da qualche parte, persa in quel piccolo regno, potesse trovare una spiegazione valida per la sua triste condizione.

Neppure allo squalo è chiaro il motivo per cui sia ancora vivo: sapeva che il suo fisico fosse adatto agli oceani, o comunque all’acqua salata, non certo a quella pozza di acqua dolce. E poi c’era il problema del cibo, mai sufficiente per il suo corpo. Le rane e i pesciolini lo potevano anche sostentare per un breve periodo, ma non aveva la minima speranza di poter resistere ancora a lungo. I viveri stavano scarseggiando e anche l’ossigeno dell’acqua si era fatto più rado. Lo stagno sembrava essere diventato più denso, tiepido e pesante, come una trappola.

Lo squalo non poteva sperare in qualche aiuto. Per quanto fosse in difficoltà, per quanto fosse disperato, incuteva timore in chi lo vedeva sguazzare irrequieto nella melma. Avrebbero aspettato come semplici spettatori che lo squalo si disintegrasse da solo, sorridendo soddisfatti a vedere un così temibile nemico soffrire e agonizzare.

Era questo, quindi, il destino che spettava allo squalo: accontentarsi di un mondo troppo piccolo, o soccombere a esso.

Nell’antro del poeta

Elena era così eccitata. Fin troppo, pensò Marco, che continuava a guardare con sospetto il luccichio negli occhi della sua fidanzata. Peccato che quell’emozione non fosse stata causata da Marco, ma da un altro uomo. Il che rendeva ancora più uggioso l’umore già contrariato di Marco. Partecipare alla presentazione di un libro era già una dura prova per Marco, che non considerava la lettura un’attività in cui perdere troppo tempo. A quanto pareva, però, quel bell’imbusto di poeta sortiva un effetto del tutto diverso sulla sua ragazza, che sembrava aver raggiunto l’Eden. Se ne stava lì a contemplare…come si chiamava quel tipo?

Arturo Verboni presenta la sua ultima fatica letteraria “L’antro del poeta”

Giusto, Verboni: Marco non poteva certo far finta di non conoscere il nome del protagonista, dal momento che grandi striscioni ricordavano continuamento all’uditorio il tema della serata. L’ego dell’autore doveva essere spropositato, pensò il ragazzo mentre sfogliava distratto il libro oggetto della presentazione. Per lo più le pagine erano bianche, con poche righe che risplendevano sulla carta di prima qualità. Perché spendere soldi per così poco? Era la domanda che tormentava Marco da quando aveva regalo quella raccolta di poesie a Elena.

“La mia poetica è tipicamente e puramente leopardiana, più che pascoliana. Metricamente parlando, prediligo il verso illimitato, che trascende la metrica stessa…”

Invidiò Elena: sembrava immersa nella parlantina di Verboni, mentre lui, Marco, non poteva fare a meno di pensare che quelle parole fossero senza senso. Non ci stava capendo nulla.

“L’Io si immerge, sprofonda nelle acque di Lete, per assurgere immanentemente alle alte vette dell’Es…”

No, decisamente quel poeta non faceva per lui. Eppure Elena non l’aveva mai guardato con gli stessi occhi con cui scrutava Arturo Verboni. Provò una fitta di gelosia.

“E per chi, fra di voi, lo desiderasse, sarei onorato a passare una leggiadra serata a sorseggiare dalla coppa di Calliope. E anche da quella di Dioniso, perché no”.

Elena si alzò senza degnare di uno sguardo Marco, e si riservò un posto per l’aperitivo poetico. Come se si fosse ricordata improvvisamente di qualcosa, trasalì e aggiunse in fretta anche il nome del fidanzato.

“Ho preso un posto per entrambi, così possiamo approfondire la conoscenza di Arturo, che dici?”

E da quando chiamava quel poeta mezzo matto per nome?

“Perfetto Elena, non vedo l’ora. Quanto pensi durerà?”

“Oh, il più possibile. Ho conosciuto Arturo a lezione di metrica: è una persona stupenda”.

Ecco perché lo conosceva per nome, lo aveva già conosciuto. Un crampo torse le viscere di Marco. E dal saluto che Verboni riservò a Elena, Marco ipotizzò che anche il bel poeta si ricordasse della sua ragazza.

“Miss Elena, che piacere vederti anche qui. Ci delizi con la tua presenza nel nostro antro del poeta? Vieni, ti ho designato un posto d’onore, mia musa”.

Musa? Musa di chi? Marco fece per seguirli, ma Verboni lo gelò con uno sguardo.

“L’antro del poeta è al completo, mi spiace”.

Verboni misi un braccio sulle spalle di Elena, e assieme entrarono nella stanza del locale riservata alle muse e ai fauni del poeta.

Marco maledisse tutta la stirpe di poeti e insegnanti di metrica.

Invidia

Una ruggine che corrode anche i metalli più nobili. Scava, corrode, indebolisce, piega e spezza. È un processo lungo, logorante che agisce su due fronti, colpisce vittima e carnefice.

Affonda le sue radici nel cuore. Prima fini ramificazioni, del tutto innocue a prima vista. Poi si irrobustiscono, si diramano. Dal cuore vanno alle arterie e da lì conquistano tutto il corpo, il cervello, i polmoni. Si insedia e inizia a germogliare. Fiori neri, pesanti e velenosi. Quando si schiudono, la mente si annebbia, gli occhi si incupiscono, la voce diventa roca. Non è più possibile guardare in faccia le persone. Chiunque ha qualcosa di desiderabile, tutti hanno troppo. Nasce l’insano desiderio di privarli della loro felicità, della loro famiglia, dei loro averi, così che siano costretti a vivere nella miseria e nel dolore.

Ma è un male tentacolare, e così colpisce anche l’invidiato. A poco poco sgretola tutto ciò che incontra. Divide gli amanti, sminuisce le capacità, rende piccolo il grande, affonda chi sta cercando di galleggiare, abbatte chi vuole volare. E così tutto decade, tutto si sgretola, senza alcuna possibilità di frenare il processo di distruzione.

L’invidia è crudele, scivola silente, colpisce senza preannuncio. È capace di uccidere, screditare. L’invidia è subdola.

Tempo di mostri e di storie

È arrivato il momento che vi racconti di un tempo lontano, in cui la fantasia non veniva derisa, in cui il soprannaturale era all’ordine del giorno. In cui gli elfi abitavano i boschi, i nani scavavano cunicoli nel ventre delle montagne, i demoni tentavano gli innocenti e le fenici rinascevano dalle ceneri. Un tempo in cui una semplice svista aveva il potere di trasformare un serpente in mitica creatura.

Ebbene, in questo passato senza tempo, viveva una fabbro. Non era un eroe, era un semplice uomo, come tutti noi. Non era neppure particolarmente conosciuto, ma conduceva una vita tranquilla. Nel suo petto dimorava, però, la voglia di dimostrare al mondo quanto valesse. In ogni cosa mettesse mano, cercava di dare il meglio: i suoi campi erano sempre in ordine, la sua casa curata. Nelle opere che realizzava metteva anima e corpo, sia che dovesse semplicemente ferrare un cavallo sia che dovesse realizzare qualche ornamento per allietare i sognorotti locali.

In effetti chi ricorreva ai suoi servigi, ne rimaneva favorevolmente colpito. Tuttavia la sua vita rimaneva invariata: non c’era donna che lo amasse, non c’era amico che lo ascoltasse, non c’era signore che lo elogiasse. Ogni giorno uguale a se stesso, sempre a faticare, ad affannarsi alla ricerca della perfezione o della svolta. Ma non era mai abbastanza.

Badate, non era un uomo malvagio. Tuttavia la sua integrità iniziò a sgretolarsi, come argilla troppo seccata al sole. Si crepò, si ruppe, divenne polvere. Queste crepe di solitudine si indurirono e formarono una corazza che neppure la spada più affilata o la freccia più accuminata sarebbero riusciti a scalfire.

Un giorno vide un menestrello. Stupendo nei suoi vestiti sgargianti. Una voce da usignolo, delle storie fantastiche sempre a disposizione. Il seguito di ammiratori era sempre molto nutrito. Chi mai avrebbe fatto caso al fabbro sudato e solitario. Una tristezza rancorosa emerse, tingendo di nero quelle scaglie impenetrabili.

Vide donne impazzire per uomini senza virtù, e uomini cambiare compagna repentinamente. Nessuna, però, lo degnava di una minima attenzione. Vide persone sperperare beni senza ritegno, mentre lui nella sua casa, si chiedeva se sarebbe riuscito a campare dignitosamente. Sentì elogi destinati al menestrello, al buffone, alla dama civettuola.

E a furia di ingoiare delusioni, in grumo di fuoco si formò nel suo petto, tanto caldo da poter sciogliere il ferro che lavorava..

Un giorno si specchiò e vide le scaglie, color pece e le lingue di fuoco. Non si riconobbe ed ebbe paura. Voleva scappare, ma come?

Fu allora che gli spuntarono le ali. Non colorate e piumate, ma pesanti, fatte di membrana, dotate di aculei.

E si alzò in volo, carico di livore, finché non trovò un monte cavo in cui sfogare la sua ira.