Metamorfosi quotidiane

Dafne è diventata un albero, senza emettere un suono, senza nemmeno accorgersi. Le sue gambe che stavano fuggendo da Apollo si sono ancorate alla terra, il suo corpo flessibile è mutato in corteccia ruvida e le dita affusolate si sono allungate in rame. Dafne non esiste più, la sua anima ora scorre come linfa nel tronco in un lauro silente. E ad Apollo non resta che il ricordo di una ninfa disinteressata e di una caccia senza onore.

Gli animi cambiano, c’è chi diventa albero, chi pianta, chi invece roccia o animale. Per lo più non sono cambiamenti momentanei, ma permangono nell’eternità. Una fonte è una madre privata dei suoi figli, un fiore zampilla dal sangue di un giovane ucciso dall’invidia, la voce dei monti non è che un’innamorata che non trova requie.

Per quanto irreversibili, talvolta le metamorfosi avvengono a gradi, compiono piccoli passi verso la stabilità. È come se la forma di partenza versasse in uno stato di irrequieta instabilità e cercasse, mutando, di ritrovare un equilibrio in cui passare il resto della propria esistenza. Piccole mutazioni che portano quella signora a disinteressarsi al mondo di fuori, a rinunciare alla curiosità, per poi trasformarsi in sasso. Mentre quell’altro uomo continua a emettere un suono senza senso, ma insistente e petulante. Ronza, ronza e si muove in traiettorie concentriche, senza mai allontanarsi troppo dal destinatario delle sue attenzione. Ecco che quest’uomo diventa mosca. D’altro canto, non tutti i bruchi riescono a diventare farfalle.

Le metamorfosi delle fiabe sono palesi, urlano a divinità e mortali che nel cambiamento la loro natura è stata preservata, nel mondo reale, le metamorfosi si riducano a piccole gocce, che con costanza riescono a creare un solco anche nelle rocce più resistenti.

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Campi Elisi – Pt. 8

“Di risposte è fatta la mia vita”.

Ma certo, chi meglio di Edipo potrebbe parlare di risposte. Dopotutto la sua vita era punteggiata da punti interrogativi da dover risolvere, e a ogni risposta piombava sempre più a fondo in un baratro di dolore e di fraintendimenti. Eccolo, quindi, cieco e maledetto, perché nemmeno gli occhi gli hanno permesso di vedere l’inganno e la rovina piombare su di lui.

“Pensavo di essere superiore agli altri per intelletto. Liberai Tebe dalla sfinge, ho visto quell’essere antico e saggio chinarsi alla mia intelligenza mortale. Edipo il salvatore, Edipo il re. Ero indebriato dalla gloria, asuefatto dal successo. Ero un uomo che si sentiva invincibile e immortale. Ma ero cieco ancor prima di strapparmi gli occhi: non vedevo le mani sporche di sangue e non riconoscevo neppure mia madre. Ero senza vista, anche se potevo ammirare il sole e vedere i volti dei miei figli fratelli”.

A volte il fato sa essere crudele e non perdona nemmeno chi ha compiuto atrocità senza sapere di essere un mostro.

“Spiegami Omero: chi è più mostro, il parricida che sposò la madre, o una chimera che sputa lingue di fuoco? La seconda segue solo la sua natura, anche se tremenda, il primo sovverte l’ordine, anche se senza volerlo”.

Ma sono solo un cieco poeta che non ha voglia di rispondere. Ho cercato di cucire nei versi dei suggerimenti, delle risposte, che potessero illuminare la strada offuscata di qualche umano. Un cieco che guida un esercito di ciechi non ottiene la vittoria con facilità.

“La fine mi colse e mi portò qui, dopo una vita di povertà e disperazione. Anche questa è una risposta”.

Maia

Splendo in cielo insieme alle mie sorelle: siamo conosciute come Pleiadi e siamo in continua fuga da un cacciatore, Orione, che ci ha impaurito con il guaito del suo cane e con la sua bramosia. Si fosse limitato ai cervi, noi avremmo mantenuto il nostro aspetto. Come mio figlio, ora anch’io sono costretta a correre senza sosta, ma non ho alcun messaggio da portare, solo paura.

Fui amata da Zeus e in una grotta diedi alla luce lo scaltro Hermes, messaggero degli dei, protettore dei viandanti, dei mercati e anche dei ladri, in continuo viaggio tra il mondo dei morti e quello dei vivi. Non ha avuto il compito di accompagnare la mia di anima nell’Ade, perché il mio amante Zeus mi volle in cielo, ma lontano dall’Olimpo. Potrebbe essere un onore, se non sentissi sempre il latrato di quel cane, il suo fiato sul tallone e la mano di Orione sul braccio.

Ora tocca a voi badare a Hermes. Fin da piccolo ha cercato l’inganno, rubando una mandria ad Apollo e riscattando il dio con un semplice giocattolo, un guscio di tartaruga in cui aveva teso delle corde. Il dio accettò, e io feci finta di credere all’innocenza di mio figlio. Conoscevo la sua irrequietezza, e infatti fu l’unico a essere in grado di allevare il piccolo Dioniso. Il dio dell’inganno e dei morti strinse un’alleanza con il dio dell’ebbrezza e della rinascita. I tempi stanno cambiando, lo sento. Le vecchie divinità sono divenute stelle, in immobile movimento, i giovani dei stanno sovvertendo un ordine che scricchiola.

Io sono Maia, la madre di Hermes, una della Pleiadi, e nella mia eternità non ho trovato pace.

Conturbante

Dioniso è conturbante.

È quella forza che spinge un ragazzo ad arrampicarsi su un abete per vedere ciò che non gli è permesso. Senza usare parole convince una regina a scappare nei boschi, una madre a smembrare la sua creatura. Fa innamorare ragazzi e fanciulle, indica una via tanto desiderata quanto proibita.

Dioniso è conturbante.

È uno specchio che svela una realtà più vera di quella che riflette. Mette a nudo, toglie le maschere e demolisce le corazze. Indica le paure e porge i piaceri. Rende selvatici gli animali addomesticati, spezza le catene e libera le belve. E il suo passaggio lascia il segno, a volte rosso come il vino e il sangue.

Ma cosa succede quando a essere conturbante non è un’antica divinità persa nel mito?

Dioniso era un dio isolato. Se ne andava in giro con il suo carro trainato da pantere e con i suoi satiri. Nessun dio dell’Olimpo lo accompagnava.

Ecco, l’elemento conturbante ne condivide il destino, viene isolato, diventa simbolo di quel qualcosa che si vorrebbe negare. La morte, la malattia, l’istinto. Poteri che si ritengono addomesticati, ma che sono pronti a esplodere in una danza folle e incontenibile da menade.

Niente pantere, niente satiri. Solo una scomoda verità.

Ingordigia

Ebbro di vino, di vita, di cibo e di felicità. Rido sguaiatamente in faccia al nemico, al mio fratello troppo serio, ad un padre che dall’alto giudica ed osserva, ad una madre che ha chiesto troppo.

Vago per le terre con il mio seguito di adulatori. Creature strane che danzano con una goffa eleganza suonando strani strumenti, fanciulle quasi divine che si affacciano dai boschi attratte da questi rozzi suoni, bestie selvatiche rese docili dal mio incedere.

Seguitemi, seguitemi. Abbandonate i vostri strumenti ed unitevi a me. Brindate e bevete dalla larga coppa della vita.

Non abbiate paura, non abbiate timori. Siate ingordi, egoisti, insaziabili. E con passo malfermo procedete, tentando di mantenere il mio ritmo.

Accorrete tutti. Ma attenti: la coppa piena vi inebrierà, vi farà desiderare di attingere nuova linfa. Vi farà impazzire, perdere il controllo. E voi ne chiederete ancora, sempre di più, sempre di più.

E un procedere traballante diventerà un rovinoso capitombolo. La risata della vita si trasformerà in ghigno beffardo. La rozza musica della vittoria tacerà vergognosamente.

Tempo di mostri e di storie

È arrivato il momento che vi racconti di un tempo lontano, in cui la fantasia non veniva derisa, in cui il soprannaturale era all’ordine del giorno. In cui gli elfi abitavano i boschi, i nani scavavano cunicoli nel ventre delle montagne, i demoni tentavano gli innocenti e le fenici rinascevano dalle ceneri. Un tempo in cui una semplice svista aveva il potere di trasformare un serpente in mitica creatura.

Ebbene, in questo passato senza tempo, viveva una fabbro. Non era un eroe, era un semplice uomo, come tutti noi. Non era neppure particolarmente conosciuto, ma conduceva una vita tranquilla. Nel suo petto dimorava, però, la voglia di dimostrare al mondo quanto valesse. In ogni cosa mettesse mano, cercava di dare il meglio: i suoi campi erano sempre in ordine, la sua casa curata. Nelle opere che realizzava metteva anima e corpo, sia che dovesse semplicemente ferrare un cavallo sia che dovesse realizzare qualche ornamento per allietare i sognorotti locali.

In effetti chi ricorreva ai suoi servigi, ne rimaneva favorevolmente colpito. Tuttavia la sua vita rimaneva invariata: non c’era donna che lo amasse, non c’era amico che lo ascoltasse, non c’era signore che lo elogiasse. Ogni giorno uguale a se stesso, sempre a faticare, ad affannarsi alla ricerca della perfezione o della svolta. Ma non era mai abbastanza.

Badate, non era un uomo malvagio. Tuttavia la sua integrità iniziò a sgretolarsi, come argilla troppo seccata al sole. Si crepò, si ruppe, divenne polvere. Queste crepe di solitudine si indurirono e formarono una corazza che neppure la spada più affilata o la freccia più accuminata sarebbero riusciti a scalfire.

Un giorno vide un menestrello. Stupendo nei suoi vestiti sgargianti. Una voce da usignolo, delle storie fantastiche sempre a disposizione. Il seguito di ammiratori era sempre molto nutrito. Chi mai avrebbe fatto caso al fabbro sudato e solitario. Una tristezza rancorosa emerse, tingendo di nero quelle scaglie impenetrabili.

Vide donne impazzire per uomini senza virtù, e uomini cambiare compagna repentinamente. Nessuna, però, lo degnava di una minima attenzione. Vide persone sperperare beni senza ritegno, mentre lui nella sua casa, si chiedeva se sarebbe riuscito a campare dignitosamente. Sentì elogi destinati al menestrello, al buffone, alla dama civettuola.

E a furia di ingoiare delusioni, in grumo di fuoco si formò nel suo petto, tanto caldo da poter sciogliere il ferro che lavorava..

Un giorno si specchiò e vide le scaglie, color pece e le lingue di fuoco. Non si riconobbe ed ebbe paura. Voleva scappare, ma come?

Fu allora che gli spuntarono le ali. Non colorate e piumate, ma pesanti, fatte di membrana, dotate di aculei.

E si alzò in volo, carico di livore, finché non trovò un monte cavo in cui sfogare la sua ira.