Ombre di paura

E se avessi paura? Adesso più che mai.

Paura di sbagliare, proprio ora. Paura di perdersi, di imboccare un vicolo cieco, di non trovare la strada, di smarrirla o di sbagliarla.

Paura di cambiare e di rimanere uguali, di partire e di fermarsi. Di errare senza bussola in luoghi sconosciuti.

Paura della solitudine, del silenzio, della lontananza. Di vivere e di morire.

Paura di farsi male e di fare del male. Di essere inopportuna, di osare troppo o troppo poco.

Paura di sognare e di rimanere intrappolata nei sogni.

Paura di diventare un essere meschino e piccolo.

Paura di essere amata. Di non essere all’altezza. Di non essere mai abbastanza.

Paura della sconfitta, della mediocrità, del grigiore quotidiano.

Sono le ombre che infestano la notte e che tolgono il fiato nei momenti di tranquillità. Non se ne sono mai andate, ma ora si ergono davanti a me più corporee che mai.

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Scale

Una lunga, ininterrotta fila di scale si snodava a perdita d’occhio. Davanti si inerpicava su una parete rocciosa, fiancheggiando un abisso vuoto. Dietro si perdeva nell’oscurità.

I gradini erano irregolari, a volte alti, a volte bassi, squadrati e lisci, frastagliati e irregolari. Alcuni umidi, scivolosi, come se avesse appena piovuto. Altri secchi, polverosi, aridi.

Salirci era un’impresa difficile. Si rischiava di perdere l’equilibrio o di scivolare e farsi male. Le cadute del passato proiettavano una cupa ombra di paure e timori sul percorso ancora da affrontare. E il piede si faceva più pesante e più incerto, procedeva lento, con il terrore di precipitare nel nulla o di invertire il cammino e tornare indietro.

Per questo si era seduta. Solo momentaneamente, però. O almeno così sosteneva. E se non fosse stata una semplice pausa? Se questa interruzione l’avesse rovinata, infiacchita?

Non le restava che alzarsi. Dolorante, insoddisfatta. Sola.

Ma doveva salire.

Scalino dopo scalino.

Perché se il punto dove si trovava la rendeva così triste, tanto valeva lasciarselo alle spalle e sperare in qualche cosa di meglio.

Paralisi

Una statua di sale che si sta voltando, spinta dalla curiosità, dal desiderio di capire il motivo del divieto, di salutare la città che era stata la sua casa.

Una statua sterile, immobile, senza voce, con gli occhi sgranati per l’orrore, ecco che cosa si sentiva dentro il petto.

Certo, il cuore continuava a pulsare, i polmoni a dilatarsi, il sangue a irrorare ogni singola cellula del suo corpo. Camminava, correva, rideva e parlava, tutto nella normalità.

Eppure, ora, si sentiva intrappolata in una gabbia troppo stretta. Non riusciva a capire dove andare, quale direzione prendere, a chi chiedere. Non riusciva a mettere a fuoco la meta.

Per questo si era voltata indietro.

Era stato un errore, perché le vette conquistate le apparivano così insulse, le sconfitte abissali, gli errori imperdonabili. Aveva davanti a sé un deserto, dietro delle rovine, una terra bruciata dalle sue stesse scelte.

Non era stata capace di capire quale fosse il suo luogo, o quale fosse la via da seguire. Si sentiva rifiutata e spaesata. La bussola non segnava il nord, ma l’ago girava vorticosamente come se fosse impazzito.

E poi doveva fare i conti con quella paura che le stringeva lo stomaco, le pugnalava il ventre e la soffocava in una lenta agonia. Il timore di non farcela, di non aver osato abbastanza, di non aver volato.

Si sentiva minuscola, inerme, nuda. E sola. Terribilmente sola. In quel mondo pullulante di creature ciarliere non era riuscita ad amare, a farsi amare.

Ma in futuro sarebbe andata meglio. Certo. Il tempo avrebbe aperto porte, indicato la strada.

Sarebbe andata meglio.

Sarebbe andata meglio.

Meglio.

Buio

A volte i miei pensieri mi fanno paura, volano nella direzione sbagliata. Trovano una comoda dimora in un groviglio di rovi e la luce, per qualche lungo attimo, si spegne. Non riesco a trovare motivi per riaccenderla, la voce si smorza, le labbra si muovono mute, come in un vecchio film, come pesce che saltella alla ricerca di acqua. I bronchi si chiudono, il fiato diventa affanno, la mente si offusca e avanzano gli spettri.

Davanti lo scheletro di un uomo, semplice ombra di ciò che è stata, ormai privo di qualsiasi forza vitale. Scheletro di una persona che tanto ho amato, che tanto mi manca, e di cui, forse, non ho mai superato la scomparsa.

Segue lo spettro ghignante di chi non mi ha mai sostenuta, incoraggiata, relegandomi in una zona grigia di indifferenza e mediocrità. E io chino la testa e lo ascolto: è vero, sono solo una delle tante ombre che non porterà nulla a termine.

E lì, vicino, la maschera grottesca dei fallimenti. La voce che rimbomba elenca uno ad uno tutti gli errori e le stupidità che ho commesso. E l’eco si premura e ripeterli all’infinito.

E su tutte troneggiano le figure di Rancore e del suo compagno Paura. Rancore nei confronti di chi si è dimostrato più furbo, di chi è stato capace di conquistare cuori e non solo grazie al suo fascino. Paura per questo livore che non voglio che mi appartenga. Paura di trasformarmi in un meschino essere roso dall’invidia. Paura di trovare il mio posto e rimanere nel limbo.

Alla fine, però, quello scheletro mi sorride benevolo, come una volta. Lo spettro arretra stupito. La maschera cade muta a terra. Rancore e Paura diventano minuscoli esseri. La luce torna. A volte a gran fatica.

Incertezza

Incertezza. È questa la parola che meglio descrive la situazione in cui mi trovo,

L’incertezza per non aver fatto le scelte vincenti. Accompagnata dal timore di aver intrapreso una strada che porta al fallimento e dalla quale non si può tornare indietro. Non ho capito, non ho colto le occasioni giuste, ho sottovalutato alcune mie propensioni e sopravvalutato altre.

Incertezza perché non vedo un futuro. Guardo avanti la via sotto i miei piedi si sfuma nel buio. Solo tanta oscurità.

Incertezza. Perché affianco non ho nessuno che abbia scelto di amarmi,che mi aiuti, mi ascolti, mi parli, si faccia ascoltare, co divida gioie e sofferenze, vittorie e sconfitte. Che mi mi tenda la mano quando necessita di aiuto o che me la porga nelle difficoltà. Nessuno con con cui condividere.

Incertezza di chi sono,sempre attanagliata dalla paura di vedere in me una persona grigia e scialba, spenta, senza alcuna voglia di brillare. Senza traguardi da festeggiare.

Incertezza che paralizza, che ammutulisce. Che mi fa sussurrare e che smorza il fiato. Che mi rimpicciolisce cercando di farmi occupare meno spazio possibile.

Dietro di me solo tanta fatica e poche soddisfazioni. Affianco un vuoto che ogni giorno si fa più nero, pesante, rumoroso. Davanti un’oscurità che potrebbe nascondere un abisso.

Specchio di verità. Parte 1: il viaggio inizia

Le scivolò dalle mani, in un attimo raggiunse il suolo dove, con un limpido tintinnio di mille campanelle d’argento, andò in frantumi. Schegge di cielo danzarono nell’aria, frammenti scintillanti si sparsero ovunque, pezzi di smeraldo rotolarono tra l’erba. Finalmente era libera.

La strada era ancora lunga e polverosa, ma non c’era possibilità di tornare indietro. Aveva deciso di abbandonare la sua piccola casa, il focolare caldo e sicuro, per cercare una meta sconosciuta, certo, ma piena di promesse. Era stata avvertita: il cammino sarebbe stato difficile, i suoi compagni di viaggio non certo gentili. Ci sarebbero stati briganti, furfanti, truffatori. Perché lasciare la sua vita tranquilla, all’insegna della normalità, per rischiare di perdersi nell’intrico del mondo di fuori?

Quel paesino, però, non le bastava. Voleva di più, voleva spingersi oltre, andare lontano, scoprire e toccare mondi nuovi, vedere colori mai pensati, sentire lingue arcane, sconosciute. Liberarsi finalmente dai benpensanti che volevano renderla simile a loro.

E quindi eccola, avvolta in un pesante mantello, ricurva mentre portava con sé un fagotto che sembra essere troppo pesante. Era riuscita a chiudere la porta del suo passato, non senza fatica o rimpianti. Ma per non morire, per non soffocare, doveva partire e, un passo dopo l’altro, allontanarsi dalle sue certezze.

Unica compagna fu la paura. La paura di non farcela, di cadere e di non alzarsi più, di perdersi, di smarrire la via. Ma la meta lontana la spronava, le dava la forza ogni giorno, la guidava per sentieri impervi.