Erano ormai giorni che il sole non faceva capolino dalla coltre scura di nubi. Erano passati così tanti giorni che ormai si stava parlando di settimane. I saggi, coloro che sapevano e che avevano imparato, tuonavano più alti dei borbottii celesti che riempivano l’aria: sostenevano che qualche divinità, o la forza della natura stessa, si stava rivoltando contro quella contrada a causa di un qualche misfatto, di un peccato terribile, che andava espiato il prima possibile. Quale fosse il peccato, però, rimaneva un mistero, come anche le modalità con le quali mondare questa così turpe macchia.
“Tornerà, tornerà, vedrete che tornerà”.
A gracchiare non era stato il solito esperto che sentiva l’impellente necessità di proporre la propria versione dello strano fenomeno di precipitazione. Era un vecchio, piegato su una sedia, che passava la maggior parte del suo tempo a sorridere con aria dolcemente assente mentre guardava di sottecchi l’orizzonte che si affacciava alla sua finestra. Era conosciuto semplicemente come il Vecchio, poiché ormai nessuno si ricordava più quale fosse il suo nome. Nemmeno il Vecchio stesso sarebbe stato in grado di indicare quale fosse stato il suo nome perché erano anni che viveva sospeso tra il mondo dei vivi e quello dei morti senza decidersi di fare il passo risolutivo: la sua mente ricordava tempi remoti e nomi divenuti polvere, il presente non trovava più spazio in quella coscienza, ma il suo corpo sembrava essere saldamente ancorato al mondo terreno.
“Chi tornerà?”
La cura del Vecchio era affidata a un ragazzino di una povera famiglia. Non doveva fare molto: solo assicurarsi che mangiasse qualcosa e che la casupola rimanesse in ordine. Inoltre lo accompagnava a dormire ogni sera e lo aiutava a raggiungere la sua sedia ogni mattina. Spesso sentiva borbottare il Vecchio: per il giovane erano parole senza senso anche quando un senso, in realtà, c’era. Raccontava di storie lontane, di persone che il giovane non conosceva, di battaglie e di sconfitte.
“Eh, eh, chi vuoi che torni dopo la pioggia?”
Il giovane non diede tropo ascolto a quelle parole. Magari nella gioventù del vecchio dopo la pioggia si affacciava alla porta l’amata o qualche amico. Per il giovane quella pioggia era maledetta, nulla su cui ridere come faceva il Vecchio. Il terreno si era rammollito troppo, impossibile lavorare i campi. Sarebbe stato un altro anno di magra per la sua famiglia. Un altro anno di fame.
“Chi vuoi che arrivi dopo la pioggia? Al massimo la fame! Ora devo andare. A stasera”.
“Arriverà, arriverà, vedrai che arriverà”.
Aiutare il Vecchio non dispiaceva al ragazzo, forse perché gli permetteva di allontanarsi dalla sua famiglia per un po’, allontanarsi da quelle facce stanche e deluse, invecchiate prima del tempo. Anche al giovane sarebbe toccato un destino simile, lo sapeva bene. Avrebbe dovuto piegare la schiena, esporla al sole e lavorare sodo per rimanere comunque in uno stato di povertà. O almeno quello era il suo destino primo che le piogge incessanti avessero trasformato il suo mondo in melma. Almeno il Vecchio con le sue farneticazioni riusciva a trasportarlo in un mondo in cui il sole ancora splendeva e illuminava strani personaggi che sembravano sapere esattamente cosa fare per ottenere un riscatto.
E chi mai sarebbe dovuto tornare dopo la pioggia? Forse anche il Vecchio voleva rivedere il sole: sarebbe stato ben triste spegnersi senza aver rivisto l’oro impalpabile del cielo.
Poi un giorno smise di piovere. Senza necessità di espiare nessuna colpa. Senza compiere sacrifici o sacrificare un colpevole. E arrivò. Esattamente come aveva predetto il vecchio arrivò. L’arcobaleno.
“Hai visto? È arrivato, vero?”
“Sì, Vecchio è arrivato”.
“Allora è tempo che io vada”.