Una testa colma di pioggia

Era da un pezzo che sentiva la testa strana, come se fosse piena di una sostanza liquida. Anzi, per essere più precisi, si sentiva la testa piena di pioggia.

Era una pioggia pesante, come quella che cade nei giorni di inverno, con gocce pesanti che esplodono quando toccano una foglia, senza nemmeno scivolare a terra. E la sua testa, allo stesso modo, era simile a una boccia colma di acqua. C’era poco da fare, non poteva certo svuotare il capo per liberarsi da quel fastidio liquido. Se lo doveva tenere.

Gli effetti non erano certo piacevoli. Se ne stava tutto il giorno con un senso di pesantezza e i pensieri non fluivano come avrebbero dovuto, ma venivano lentamente a galla, un po’ tumefatti, gonfiati da quella ondata anomala di pioggia. E sapevano anche di temporale, erano scuri come le nubi che scaricano sulla terra la propria ira.

Con testa piena di pioggia c’è poco da fare. Bisogna solo evitare che gli altri se ne accorgano, perché il loro scettici stupore potrebbe causare un’ondata anomala.

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Riparo

Il cielo si stava sfogando, anche se senza ira, senza violenza. Si era limitato a nascondere il sole, ad avvolgere il mondo con un manto grigio e a lasciar cadere con calma una pioggia che non rallentava la corsa. Le strade luccicavano e il rumore delle fontane faceva a gara con quella delle gocce.

Non era un giorno triste, era un giorno come ogni altro, solo con qualche rumore in meno. Nella pioggia si perdono le voci delle chiacchere, le persone si rifugiano all’interno di case e locali, e se qualcuno si avventura fuori, accelera per arrivare a destinazione il prima possibile. Il mondo cambia e si ritira in un pigro letargo, almeno per un giorno.

Ma in un angolo della città, tra i tavolini gocciolanti di un bar, piccoli passeri saltellavano esagitati. Il giorno di pioggia era per loro un giorno di diversità, di gioco. Arruffavano le penne e cercavano qualche briciola. Nessun piede li scacciava, nessun bambino li rincorreva.

In un giorno di pioggia, in un giorno di tristezza, frammenti di allegria zampettavano sul selciato.

Aprire l’ombrello

“È un po’ strana quella”. “Hai ragione, non c’è da fidarsi”. “Giulio, torna qui, non avvicinarti alla signora, non sta bene”. “Meglio allontanarsi, non si sa mai cosa potrebbe fare una come lei”.

In realtà Angela non era pericolosa, non aveva mai fatto del male a nessuno, nonostante nella sua lunga vita ne avesse avuto le occasioni e anche la tentazione. Angela era anziana, era abituata ai bisbigli e alle risatine che la inseguivano ovunque andasse.

L’unico errore commesso da Angela stava in un ombrello, un grande ombrello nero che portava con sé notte e giorno ovunque andasse. L’altra persona che aveva questa singolare abitudine era Diego, ma era scomparso anni prima, lasciandola, oltre che vedova, anche sola.

A dirla tutta, non era neanche l’ombrello che destava scalpore, ma il fatto che lo aprisse e chiudesse di continuazione, soprattutto quando parlava con gli altri. Non con Diego, però: la prima volta che si erano parlati pioveva, ma si dimenticarono di aprire gli ombrelli e mai una loro conversazione venne condivisa con quello strumento.

“Perché porti in giro sempre l’ombrello?”

“La tua mamma sa che sei qui?”

“No. Anch’io porto sempre il mio orsetto, ma lui è morbido”.

“L’ombrello è utile”.

“Solo se piove”.

“Bimbo mio, sei troppo giovane per capire. La pioggia bagna solo. Puoi prenderti un raffreddore, puoi inzupparti, ma alla fine è solo acqua. La maldicenza e la falsità, quando cadono, possono sotterarti. Ma io sono pronta a tenerle lontane”.

Il bambino rise e corse via.

Pregano le foglie

Ho sentito le foglie invocare la pioggia, la chiamavano, la volevano. Era un sussurro appena percepibile, appena ascoltabile. Pregano le foglie.

Chiamano a gran voce la piaggia, ne riproducono il rumore e il gorgoglio, vogliono sentire sulla loro superficie il liquido tocco di una goccia, ne vogliono sentire il fruscio quando scivola per perdersi nel nulla. Pregano le foglie verso il cielo, verso le nubi che veloci si allontanano per portare refrigerio a qualche altro angolo di mondo.

Pregano le foglie che la polvere venga spazzata via, chentorni alla sua terra per non lasciare alcun filtro fra sè e il sole. Pregano una tregua da quella sfera che ruota silenziosa nel cielo e che brucia le vene colme di linfa. Le foglie pregano, e pregando cantano.

Soave è il canto che ho sentito. Non portava guerra, non portava lacrime, solo una richiesta, tenue e innocente. Era il canto legittimo di un’anima che prega.

Arriverà, arriverà, vedrai che arriverà

Photo by Brett Sayles on Pexels.com

Erano ormai giorni che il sole non faceva capolino dalla coltre scura di nubi. Erano passati così tanti giorni che ormai si stava parlando di settimane. I saggi, coloro che sapevano e che avevano imparato, tuonavano più alti dei borbottii celesti che riempivano l’aria: sostenevano che qualche divinità, o la forza della natura stessa, si stava rivoltando contro quella contrada a causa di un qualche misfatto, di un peccato terribile, che andava espiato il prima possibile. Quale fosse il peccato, però, rimaneva un mistero, come anche le modalità con le quali mondare questa così turpe macchia.

“Tornerà, tornerà, vedrete che tornerà”.

A gracchiare non era stato il solito esperto che sentiva l’impellente necessità di proporre la propria versione dello strano fenomeno di precipitazione. Era un vecchio, piegato su una sedia, che passava la maggior parte del suo tempo a sorridere con aria dolcemente assente mentre guardava di sottecchi l’orizzonte che si affacciava alla sua finestra. Era conosciuto semplicemente come il Vecchio, poiché ormai nessuno si ricordava più quale fosse il suo nome. Nemmeno il Vecchio stesso sarebbe stato in grado di indicare quale fosse stato il suo nome perché erano anni che viveva sospeso tra il mondo dei vivi e quello dei morti senza decidersi di fare il passo risolutivo: la sua mente ricordava tempi remoti e nomi divenuti polvere, il presente non trovava più spazio in quella coscienza, ma il suo corpo sembrava essere saldamente ancorato al mondo terreno.

“Chi tornerà?”

La cura del Vecchio era affidata a un ragazzino di una povera famiglia. Non doveva fare molto: solo assicurarsi che mangiasse qualcosa e che la casupola rimanesse in ordine. Inoltre lo accompagnava a dormire ogni sera e lo aiutava a raggiungere la sua sedia ogni mattina. Spesso sentiva borbottare il Vecchio: per il giovane erano parole senza senso anche quando un senso, in realtà, c’era. Raccontava di storie lontane, di persone che il giovane non conosceva, di battaglie e di sconfitte.

“Eh, eh, chi vuoi che torni dopo la pioggia?”

Il giovane non diede tropo ascolto a quelle parole. Magari nella gioventù del vecchio dopo la pioggia si affacciava alla porta l’amata o qualche amico. Per il giovane quella pioggia era maledetta, nulla su cui ridere come faceva il Vecchio. Il terreno si era rammollito troppo, impossibile lavorare i campi. Sarebbe stato un altro anno di magra per la sua famiglia. Un altro anno di fame.

“Chi vuoi che arrivi dopo la pioggia? Al massimo la fame! Ora devo andare. A stasera”.

“Arriverà, arriverà, vedrai che arriverà”.

Aiutare il Vecchio non dispiaceva al ragazzo, forse perché gli permetteva di allontanarsi dalla sua famiglia per un po’, allontanarsi da quelle facce stanche e deluse, invecchiate prima del tempo. Anche al giovane sarebbe toccato un destino simile, lo sapeva bene. Avrebbe dovuto piegare la schiena, esporla al sole e lavorare sodo per rimanere comunque in uno stato di povertà. O almeno quello era il suo destino primo che le piogge incessanti avessero trasformato il suo mondo in melma. Almeno il Vecchio con le sue farneticazioni riusciva a trasportarlo in un mondo in cui il sole ancora splendeva e illuminava strani personaggi che sembravano sapere esattamente cosa fare per ottenere un riscatto.

E chi mai sarebbe dovuto tornare dopo la pioggia? Forse anche il Vecchio voleva rivedere il sole: sarebbe stato ben triste spegnersi senza aver rivisto l’oro impalpabile del cielo.

Poi un giorno smise di piovere. Senza necessità di espiare nessuna colpa. Senza compiere sacrifici o sacrificare un colpevole. E arrivò. Esattamente come aveva predetto il vecchio arrivò. L’arcobaleno.

“Hai visto? È arrivato, vero?”

“Sì, Vecchio è arrivato”.

“Allora è tempo che io vada”.

Pioggia

Infine la tensione si è sciolta, l’attesa è finita. Le pesanti nubi si alleggeriscono, l’aria satura si rinfresca e una piacevole pioggia iniziare a scendere.

Senti la musica delle goccia che danzano sui tetti, piroettano per le strade, scivolando sui muri. Ascolta il trillo allegro e ininterrotto che riempe le orecchie. Per un attimo il caos che ti circonda cessa, tutto si ferma, il compagno troppo rumoroso tace. Ascoltano tutti quella liquida melodia.

I colori si smorzano, diventano quasi metallici. Perdono la loro vivezza trasformandosi in acquerelli. Eppure tutto sembra più netto, meno aggressivo.

Scende l’acqua purificatrice, quasi a voler lavar via tutto lo sporco e la bruttezza. Trascina con sé odori e detriti degli umani, sparge il profumo del cieli.scioglie il nero del nostro scellerato inquinamento.

Poi rallenta la sua corsa e si ferma. Torna la solitudine. Nessun altro rumore se non quello degli uomini. La contaminazione è ancora lì, solo che ha cambiato posto.