Aprire l’ombrello

“È un po’ strana quella”. “Hai ragione, non c’è da fidarsi”. “Giulio, torna qui, non avvicinarti alla signora, non sta bene”. “Meglio allontanarsi, non si sa mai cosa potrebbe fare una come lei”.

In realtà Angela non era pericolosa, non aveva mai fatto del male a nessuno, nonostante nella sua lunga vita ne avesse avuto le occasioni e anche la tentazione. Angela era anziana, era abituata ai bisbigli e alle risatine che la inseguivano ovunque andasse.

L’unico errore commesso da Angela stava in un ombrello, un grande ombrello nero che portava con sé notte e giorno ovunque andasse. L’altra persona che aveva questa singolare abitudine era Diego, ma era scomparso anni prima, lasciandola, oltre che vedova, anche sola.

A dirla tutta, non era neanche l’ombrello che destava scalpore, ma il fatto che lo aprisse e chiudesse di continuazione, soprattutto quando parlava con gli altri. Non con Diego, però: la prima volta che si erano parlati pioveva, ma si dimenticarono di aprire gli ombrelli e mai una loro conversazione venne condivisa con quello strumento.

“Perché porti in giro sempre l’ombrello?”

“La tua mamma sa che sei qui?”

“No. Anch’io porto sempre il mio orsetto, ma lui è morbido”.

“L’ombrello è utile”.

“Solo se piove”.

“Bimbo mio, sei troppo giovane per capire. La pioggia bagna solo. Puoi prenderti un raffreddore, puoi inzupparti, ma alla fine è solo acqua. La maldicenza e la falsità, quando cadono, possono sotterarti. Ma io sono pronta a tenerle lontane”.

Il bambino rise e corse via.

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Stranezze

“È un uomo strano” ardii dire a Guglielmo.

“È, o è stato, per molti aspetti, un grande uomo. Ma proprio per questo è strano. Sono solo gli uomini piccoli che sembrano normali”.

Umberto Eco, Il nome della rosa.

Non muoverti. Non puoi muoverti, fermo.

Continuava a ripetersi questa litania, imbarazzato, sentendosi del tutto fuori luogo.

Intorno a lui centinaia di esserini si agitavano come una marea disordinata e scura. Correvano, senza guardare i compagni, dritti per la loro strada. Cercavano solo di non urtare gli altri, di non cadere per portare a termine il proprio compito. Parole poche. Discorsi vacui. Sono un lavorio ininterrotto.

E lui lì, fermo. Non poteva alzare un dito, allungare le gambe, sospirare, perché avrebbe causato uno scompiglio non indifferente. Allibito, guardava i suoi piccoli compagni che si affannavano per fini inutili, senza alzare gli occhi, nascondendosi dal sole, evitando qualsiasi confronto, dando per scontato quella falce argentea che sorrideva sornione.

A volte succedeva che ci fosse un po’ di guazzabuglio: avidità, invidia, rozzezza si aggiravano fra quelle anime. Dopo che si erano scatenate, lasciavano a terra gli sconfitti. Poi la normalità prendeva il sopravvento e tutti tornavano al solito affanno.

Finché non si stancò.

Fermo, gli dicevano. Mostro, lo chiamavano.

Ora basta, però. Si alzò. Gli omini vicino alzarono lo sguardo stupiti. Alcuni un po’ crebbero pure loro, altri, i più, lo sbeffeggiarono.

Mosse le mani, parlò, rise, corse, suonò e cantò.

Ogni volta un piccolo grande sconvolgimento investiva i suoi vicini. Chi si scontrava, chi era costretto a cambiare strada, chi si arrampicava per cercare di raggiungerlo. Chi lo sfuggiva, perché troppo strano, chi lo ammirava e apprazzava, chi,ancora, faceva finta di non vederlo, e, in segreto, lo imitava.