Multiforme – Pt. 3

Le navi sono luoghi sospesi in un limbo di indeterminatezza. Basta così poco per spingerle fuori rotta o per farle crollare nell’oblio degli abissi marini. Non che avessi molte aspettative da questo viaggio: il mio intento era solo quello di divertirmi, prendere spunto per dare al conte Mortmer un passato abbastanza affascinante per qualche signora della buona società del paese in cui tutto era possibile. L’Inghilterra era diventata troppo stretta per una mente come la mia e soprattutto per i miei misfatti. C’era un poliziotto, un mero commissario, che si stava interessando un po’ troppo ai casi in cui ero coinvolto, e che stava facendo dei legami che mi avrebbero potuto causare problemi.

Ma per essere un ottimo truffatore bisogna avere ottime spie, anche tra coloro che dovrebbero darti la caccia e impedirti di continuare a compiere misfatti. E quindi mi imbarcai a spesi del conte Mortimer. Anche se ancora non sapevo che questo viaggio si sarebbe rivelato tanto pericoloso quanto proficuo.

Se doveste mai affrontare un viaggio transatlantico, vi consiglio la prima classe: non vi accorgerete neppure che state galleggiando su un guscio di noce in mezzo a un deserto liquido. Il personale poi è squisito: si sono comportati in modo ineccepibile con il conte Mortimer, soprattutto una cameriera giovane e carina, probabilmente attratta dal titolo e dalla prospettiva di una mancia cospicua, che ovviamente ricevette. Altra regola fondamentale è farsi amici tra camerari e governanti: hanno orecchie e occhi ovunque, sono custodi di segreti molti utili.

La piccola e non certo innocente Annette: tanto utile quanto pericolosamente chiacchierona. Se fosse stata più discreta, non avrei dovuto sporcarmi le mani anche in questo viaggio.

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Astolfo non vuole tornare – Pt 9

C’era una cosa che a re Carlo mancava in tutta quella vicenda: era il suo palazzo dalle vaste sale, con scribi e saggi dalle mani sempre sporche d’inchiostro. Non che fosse un grande studioso, il re, per niente, ma gli piaceva trovarsi fianco a fianco con queste brillanti menti piene di conoscenze antiche. Sapeva che in qualche monastero esistevano uomini che dedicavano il proprio tempo a copiare opere di persone diventate cenere, per evitare l’oblio di centinaia di volumi. Insomma, a re Carlo mancava la tranquillità. Sembrava quasi che fosse stanco di quella guerra, ma nessuno dei suoi uomini o dei nemici lo avrebbe mai saputo.

Mentre re Carlo si perdeva nei corridoi del suo palazzo fatto di memoria, Astolfo si perdeva del meandro di quella cattedrale di conoscenze inutili in quanto perdute. Pochi erano i volumi, i libri fatti di pagine di pergamena che talvolta aveva tenuto fra le mani. La maggior parte di quel sapere era racchiuso in rotoli, alcuni lunghi, altri più brevi, in tavolette o anche su pezzi di cuoio o pietre.

Srotolò il primo rotolo che gli capitò: era pieno di immagini incolonnate, uomini, simboli, animali si susseguivano fitti, senza che Astolfo potesse comprendere di che cosa narrasse. Aveva solo la sensazione di trovarsi in un altro polveroso tempo, al caldo, con profumi del tutto sconosciuti. Altri rotoli erano più familiari, con piccoli simboli alfabetici, talvolta anche con lettere a lui note, ma non aveva idea di che storie stessero narrando C’erano poi tavolette con degli strani cunei, incisioni su roccia, stoffe annodate, persino lastre d’oro incise fittamente. Tutti questi oggetti urlavano il loro sapere, ma il vuoto della dimenticanza impediva a quel suono di propagarsi.

Sentendosi un po’ stanco, Astolfo uscì dall’edificio. Quel silenzio gli ricordava un sepolcro pronto ad accoglierlo.

“Qui tutto è morto, anche se ognuno di questi oggetti desidera così ardentemente tornare sulla terra, da rifiutarsi di scomparire. Per questo è nato questo posto. E tu, sei qui, ma ancora la terra ti reclama, Astolfo. Cosa stai facendo?” intervenne la voce misteriosa.

“Domanda lecita. Almeno dimmi perché conosci il mio nome”.

“Te lo sei già dimenticato una volta, non farmi cadere ancora nell’oblio”. E la voce tacque.

Astolfo non vuole tornare – Pt 8

Non, non avete capito male. Il lago chiaccherava, e non smetteva un momento di parlare, parlare, parlare. Solo che Astolfo non se ne era reso conto perché era troppo concentrato sui suoi pensieri per capire che le voci provenivano dall’acqua.

Astolfo si inginocchiò per sentire che cosa dicessero e se effettivamente fosse acqua quella che vedeva. Al tatto si rivelò essere una sostanza ad Astolfo del tutto sconosciuta, fluida come un liquido, ma che non lasciava tracce umide sulle dita. Inoltre, anche avvicinandosi, non riusciva a comprendere nemmeno una parola di ciò che veniva detto, ma qualche frammento gli risultava vagamente familiare.

Era del tutto normale che il cavaliere non capisse nulla: in quel lago fluttuavano tutte le lingue del mondo, che non venivano più utilizzate e che erano cadute nella dimenticanza. Magari in un futuro qualche sventurato avrebbe cercato di resuscitarle, ma, almeno per ora, se ne stavano lì, assieme alle parole arcaiche di lingue ancora in uso. Era un buffo modo per passare i secoli: cercare di comunicare con una miriade di presenze che parlano una lingua conosciuta ai defunti.

L’attenzione di Astolfo venne catturata dal riflesso di un’enorme costruzione di marmo bianco. Alzò lo sguardo e vide che si trattava di una sorta di tempio.

“Sapevo che lo avresti trovato interessante, saggio Astolfo”, disse la voce della donna invisibile.

“Di cosa si tratta?”

“Di una biblioteca, che contiene tutto il sapere umano andato perduto”.

“Abbiamo smarrito così tanto?”

“E tanto ancora smarrirete”.

L’ultima sfida

Chiuse gli occhi.

Aveva visto troppe volte quello spettacolo per poter provare ancora ammirazione. Il canto, la dolce e ritmata musica continuavano a cullarlo, assieme a quel profumo tanto conosciuto quanto a volte odiato.

Avrebbe atteso ore fermo, così, in attesa, mentre il vento giocava con i suoi capelli canuti. Davanti a lui il suo peggior nemico, il suo alleato più prezioso, la sua vita, la sua morte.

Ed ecco, si trovava tra i flutti, sospinto dal vento. Le onde si infrangevano sulle gambe, lo spingevano ad avanzare. Sentiva il richiamo. Da un po’ di tempo gli giungeva flebile, timido, ma ora si era fatto ruggito.

Era la sfida del mare, del suo signore.

E capì.

Capì che era tempo di andare, di salutare quelle amate pietre, quell’isola tanto sognata e attesa. La patria rimpianta era diventata una prigione. L’orizzonte era così misterioso, pronto a essere esplorato.

E il mare chiamava. Con i suoi enigmi, con il suo carattere volubile.

Voleva di nuovo peccare, infrangere confini e divieti. Vedere terre sconosciute, sentire dialetti, essere chiamato ospite e straniero. Quella sterile terra lo aveva trattenuto a lungo, ma ora voleva tornare a rimpiangerla.

Aprì gli occhi. Il mare potente, vasto, era di fronte a lui. Un cavallo irrequieto che lo stava sfidando. Un’ultima epica impresa.

Avanzava nell’acqua spinto da un canto più affascinante di quello delle sirene. Gli raccontava di posti lontani e sconosciuti, di uomini da conoscere, di dei da rispettare, di mostri da annientare.

Quel mare maledetto lo stava facendo ancora, lo stava strappando dalla sua famiglia.

Ma lui procedeva, vecchio, stanco, privo di quelle forze che lo avevano sostenuto da giovane. Ma procedeva. Perché anche quella volta avrebbe vinto. Il dio del mare non avrebbe mai avuto la meglio.

Le acque spalancarono le fauci e lui vi entrò.

“Padre!”, “amore!”, “sire!”, “Odisseo!”. Ho tanti nomi, e nessun nome.

Mi dispiace, ma questa volta non tornerò.