Astolfo non vuole tornare – Pt 9

C’era una cosa che a re Carlo mancava in tutta quella vicenda: era il suo palazzo dalle vaste sale, con scribi e saggi dalle mani sempre sporche d’inchiostro. Non che fosse un grande studioso, il re, per niente, ma gli piaceva trovarsi fianco a fianco con queste brillanti menti piene di conoscenze antiche. Sapeva che in qualche monastero esistevano uomini che dedicavano il proprio tempo a copiare opere di persone diventate cenere, per evitare l’oblio di centinaia di volumi. Insomma, a re Carlo mancava la tranquillità. Sembrava quasi che fosse stanco di quella guerra, ma nessuno dei suoi uomini o dei nemici lo avrebbe mai saputo.

Mentre re Carlo si perdeva nei corridoi del suo palazzo fatto di memoria, Astolfo si perdeva del meandro di quella cattedrale di conoscenze inutili in quanto perdute. Pochi erano i volumi, i libri fatti di pagine di pergamena che talvolta aveva tenuto fra le mani. La maggior parte di quel sapere era racchiuso in rotoli, alcuni lunghi, altri più brevi, in tavolette o anche su pezzi di cuoio o pietre.

Srotolò il primo rotolo che gli capitò: era pieno di immagini incolonnate, uomini, simboli, animali si susseguivano fitti, senza che Astolfo potesse comprendere di che cosa narrasse. Aveva solo la sensazione di trovarsi in un altro polveroso tempo, al caldo, con profumi del tutto sconosciuti. Altri rotoli erano più familiari, con piccoli simboli alfabetici, talvolta anche con lettere a lui note, ma non aveva idea di che storie stessero narrando C’erano poi tavolette con degli strani cunei, incisioni su roccia, stoffe annodate, persino lastre d’oro incise fittamente. Tutti questi oggetti urlavano il loro sapere, ma il vuoto della dimenticanza impediva a quel suono di propagarsi.

Sentendosi un po’ stanco, Astolfo uscì dall’edificio. Quel silenzio gli ricordava un sepolcro pronto ad accoglierlo.

“Qui tutto è morto, anche se ognuno di questi oggetti desidera così ardentemente tornare sulla terra, da rifiutarsi di scomparire. Per questo è nato questo posto. E tu, sei qui, ma ancora la terra ti reclama, Astolfo. Cosa stai facendo?” intervenne la voce misteriosa.

“Domanda lecita. Almeno dimmi perché conosci il mio nome”.

“Te lo sei già dimenticato una volta, non farmi cadere ancora nell’oblio”. E la voce tacque.

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Io, Carassius Auratus

Fino ad ora avete parlato tutti, poeti, sentimenti, impressioni, tragedie. Eppure io, il presunto protagonista di questo mondo che è ancora allo stato di brodo primordiale, devo ancora far sentire la mia voce.

Ebbene, io sono Carassius Auratus, quel pesce rosso che tutti voi avete sempre snobbato, considerato banale. Certo, non posso fare a meno di giustificarvi: di auratus c’è ben poco nel mio misero aspetto. Spesso sono di quel colore rossiccio aranciato che non dice molto.

Decisamente meglio questi miei compagni, con le loro vaste code svolazzanti che si muovono sinuose nell’acqua disegnando labirinti dalle mille sfumature, con i loro colori che ricordano mondo lontani, terre calde. Frammenti di cielo scintillano tra le scaglie, coralli attraversano il corpo, raggi di sole danzano con mille riflessi tra le pinne.

Lo ammetto, molto affascinanti. Si aggirano in questo mondo come se fossero padroni dell’universo. Creature stupende che attirano l’attenzione e che amaliano tutti. Chi mai spenderebbe un minuto del suo tempo ad ammirare me, piccola creatura monocroma che si aggira con poca grazia nel regno di questi esseri perfetti,dal carattere travolgente?

Vi ricordo, però, che l’universo in cui questi pesci arlechino si aggirano, non è altro che una prigione dalle pareti trasparenti. Vi ricordo anche che quelle foreste in cui spuntano come lampi multicolore non sono altro che piante che crescono tra fasulle, minuscole anfore di terracotta.

E alla fine chi rimarrà? Questi vacui sogni di colori o la semplice creatura che si adatta a tutto?

Ascoltate adesso la mia voce, signori. Carassius Auratus ha deciso di urlare al mondo, anche quello fuori dalla sua boccia, la sua aurea versione.