Oreste

Guardatemi, guardate le mie mani? Non vedete il sangue che le imbrattano? È il sangue di mia madre, Clitemnestra, e del suo amante, l’empio Egisto, l’usurpatore del trono di mio padre, del mio trono. Siamo di stirpe divina, dicono, eppure questo sangue continua a rimanere impresso, indelebile: di notte vedo gli occhi di lei che mi supplicano e che mi maledicono, sento le urla echeggiare nel palazzo, i servitori scomparsi, allontanati da una follia che non sembrava avere fine. Vedo mia sorella, la giovane Ifigenia, che chiede vendetta, vedo nostro padre, il forte Agamennone ucciso da mano di donna, chiedere vendetta, vedo le Erinni, le furie, che chiedono anche loro vendetta. Chiedono il mio sangue, e io glielo concederei, pur di non vedere ogni giorno, ogni notte la morte e il dolore.

Guardatemi. È forse questa la ricompensa per aver rispettato il volere degli dei? Non agii certo da solo in questa mia battaglia. Andai a Delfi, chiesi ad Apollo, che tutto sa, e questo chiese anche al padre degli dei e dell’ordine, e commisi un’empietà che ora questi stessi dei non riescono a perdonarmi. Se ho sbagliato, allora non ho capito dove e quando questo errore sia stato commesso.

Non mi resta che errare come un dannato, senza la corona che mi spetta, lasciando il trono di Micene vuoto dopo averne ucciso il vile usurpatore. Le mie sofferenze devono ripagare molti torti: quello di una sorella ingannata e sgozzata come un agnello, quello di un padre abbattuto come un toro, quella di una madre stroncata come un vitello, e pure il tuo, Egisto, che tante disgrazie hai arrecato a questa famiglia.

Non ho più casa, non ho più patria, né famiglia. Non mi resta che riporre la speranza in una giustizia che conosca il sangue e la carne, una giustizia umana.

Erinni

Tutto può trasformarsi, mutare, diventare il contrario. Il mondo è liquido, instabile, si adatta alle nuove esigenze.

Anche noi, delle dee, siamo soggette a questa legge. Siamo state terribili, orribili a vedersi e a sentirsi. I capelli arruffati, come serpi pronte a pietrificare il colpevole. I nostri occhi da folli non perdevano mai di vista il malcapitato. Rossi come il sangue, gonfi, profondi come voragini che chiamano a sé i passanti, erano capaci di scovare la nostra vittima anche a grande distanza. Pelle bianca, cadaverica, raggrizzinta. Infine la bocca sdentata si apriva in una nera fessura che rigurgitava maledizioni, anatemi dalla voce acuta e stridula.

Eravamo segugi, pronte a perseguitare gli assassini. Come sanguisughe ci attacavamo alla coscienza, al rimorso, al rimpianto, e non mollavamo la presa. Poche volte ci riposammo, chiudemmo gli occhi. Con ogni forza inseguimmo il parricida.

Anche quel giovane aveva le mani grondanti di sangue. Uccise un uomo che accusava di essere un usurpatore. Uccise sua madre, che per dolore e vendetta, accecata dall’ira, dalla furia, diede la morte al marito con le sue stesse mani.

Non gli perdonammo questo gesto. Seguimmo la traccia insanguinata fino a questa città. Il suo cuore era lacerato, la sua mente dubbiosa. E noi, portatrici di leggi antiche, non avemmo pietà.

Ma questa è una città singolare. Votarono, misero in dubbio le nostre leggi. E lui fu dichiarato innocente. La vendetta divenne inutile. Il filo di sangue fu spezzato.

Tutto può mutare, tutto può diventare opposto. Anche noi fummo accolte in quel borgo. Le Benevole ci chiamano, Eumenidi. Siamo state addomesticate, ci hanno rese innocue, chiuse in questo tempio dorato.

Attenti, però, tutto può cambiare. Siamo nate per la vendetta. La nostra primigena natura può sempre ridestarsi,