Ridere

“Sai che ti dico: ho bisogno di ridere, e quindi, perfavore, fammi ridere. Ti pago per questo”.

La lamentela proveniva da uno spettatore dell’ultimo spettacolo ed era rivolta al pagliaccio in scena. Non era un semplice pagliaccio, era il meglio che si potesse trovare, almeno in quel continente. A difesa del pagliaccio, c’è da ammettere che l’ora si era fatta tarda, ed è difficile ridere dopo una giornata di lavoro.

“Signore, se non mi lascia lavorare, non la potrò far ridere, quindi, la prego, taccia”.

Il pagliaccio era un po’ scontroso, ma abbiamo detto che era ormai sera. Inoltre da un po’ di tempo si chiedeva come mai la gente trovasse divertenti i pagliacci: nelle mani di scellerati scrittori erano diventati ora pazzi assassini, ora pedofili, e poi cinici senza cuore, malinconici sull’orlo del suicidio, e anche psicopatici. Eppure tutti volevano ridere con il pagliaccio.

“Ridi, che ti passa la paura”.

Non era lo spettatore a parlare, e neppure il pagliaccio. Era sua mamma che elargiva conoscenza a chiunque la ascoltasse, o a suo figlio, che era costretto a prestarle attenzione.

Forse il signore aveva semplicemente paura.

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Un clown

Ho passato una vita a pensare al tempo, a rispettare qualsiasi cosa dovesse essere rispettata. Ho saltato e ballato, ho sorriso e anche pianto, anche se di nascosto. Ho imparato a capire che cosa gli altri si aspettassero, per evitare di creare delusioni.

Un giorno ho scoperto che le gambe erano stanche, pesanti, il sorriso tirato e falso, la voce sempre modulata, ma inespressiva. Ero diventato un domatore di bestie, ma ero stanco. Allora mi sono seduto su un sasso e ho fatto il pagliaccio.

Non è stato faticoso. Il trucco aiuta molto, il cerone già lo conoscevo. Ho liberato la voce, l’ho fatta salire, l’ho trasformata in un fischio. Le belve non mi ascoltavano più, ma neppure mi attaccavano. Ero diventato il loro zimbello, ero un passatempo. Non mi dispiaceva, per nulla: anch’io avevo il mio passatempo, osservare le belve.

Si capisce molto quando si è seduti su questa scomoda roccia. Si capisce anche troppo, quando i colori sgargianti del viso e il fagotto arcobaleno rendono invisibili. Si capisce che i pagliacci sono contagiosi, soprattutto quelli che tentano di nascondere in tutti i modi la loro anima di clown. Si capisce che sono pericolosi, con le loro maschere, con le loro maniere che suggeriscono un’amicizia, ma che cercano solo un tornaconto. Si capisce che nessuno si è mai seduto su un sasso.

E allora me ne rimango qui, a guardare e a suonare un’allegra tarantella che mi accompagnerà fino alla fine.