“Sai che ti dico: ho bisogno di ridere, e quindi, perfavore, fammi ridere. Ti pago per questo”.
La lamentela proveniva da uno spettatore dell’ultimo spettacolo ed era rivolta al pagliaccio in scena. Non era un semplice pagliaccio, era il meglio che si potesse trovare, almeno in quel continente. A difesa del pagliaccio, c’è da ammettere che l’ora si era fatta tarda, ed è difficile ridere dopo una giornata di lavoro.
“Signore, se non mi lascia lavorare, non la potrò far ridere, quindi, la prego, taccia”.
Il pagliaccio era un po’ scontroso, ma abbiamo detto che era ormai sera. Inoltre da un po’ di tempo si chiedeva come mai la gente trovasse divertenti i pagliacci: nelle mani di scellerati scrittori erano diventati ora pazzi assassini, ora pedofili, e poi cinici senza cuore, malinconici sull’orlo del suicidio, e anche psicopatici. Eppure tutti volevano ridere con il pagliaccio.
“Ridi, che ti passa la paura”.
Non era lo spettatore a parlare, e neppure il pagliaccio. Era sua mamma che elargiva conoscenza a chiunque la ascoltasse, o a suo figlio, che era costretto a prestarle attenzione.
Forse il signore aveva semplicemente paura.