La società si sforza di incasellare, di dare a tutto e a tutti un’etichetta, in modo da poter giudicare se poter inglobare il soggetto nel proprio universo o se, invece, sia necessario escluderlo. Semplice logica di sopravvivenza: ciò che non ha un nome non può essere compreso nell’immediato, necessita di una curiosità che oltrepassi i confini della logica.
Pietro per lavoro cercava di etichettare tutto, posizionava gli oggetti del giusto ordine, attribuendo loro l’esatta collocazione spaziale e temporale. In altre parole era un archeologo, anche se il lavoro era ben lontano dalle sue aspettative: niente campagne all’aria aperta, niente scavi, solo ore polverose passate ad analizzare e catalogare, a identificare il minimo particolare capace di dare un suggerimento sulla sua provenienza. Nessun reperto era degno di particolare nota, non gli affidavano certo i ritrovamenti più importanti o le opere di innestimabile valore. Era l’ultimo arrivato, senza nemmeno molta esperienza. Poco importava che fosse il migliore del suo corso e che avesse dato prova di avere un certo talento.
A nessuno importa il talento, pensava mentre cercava di indovinare le vite degli sparuti passeggeri del treno notturno. Anime vagabonde, che si ostinavano a fissare il finestrino anche quando questo si limitava a ridare una pallida immagine della realtà.
C’era il ragazzo che cercava consolazione in qualche sostanza, l’impiegato che si è attardato in ufficio per qualche capriccio di un cliente, il turnista, una donna dagli occhi vuoti. Tutti frammenti di persone che aspettavano la propria etichetta.
