Abbiamo bisogno del nostro spazio. Non è certo una novità, come dimostra, tra gli altri, anche Virginia Woolf in A Room of One’s Own. Per quanto siano passati diversi anni, molti dei problemi che la scrittrice aveva messo nero su bianco permangono, e non solo nel mondo letterario. Gli spazi vitali, la capacità di intagliarsi uno spazio nella vita privata, così come nella società, è sempre stato un problema che accomuna tutti, e in particolar modo le donne. Tra famiglia e doveri di vari tipo che vengono convenzionalmente attribuiti al ruolo femminile, poche sono le occasioni in cui si riesce a chiudersi nella propria stanza.
Non mi addentrerò in una dettagliata analisi della questione, per quello c’è il libro della Woolf, che, oltre a essere di grande ispirazione, è anche abbastanza complesso da rendere superflua ogni mia aggiunta. Negli ultimi giorni, però, ho sentito la mancanza di questa famosa stanza in cui ritirarsi per dedicarsi a ciò che più aggrada, o semplicemente per non sentire il cicaleccio del mondo e di persone a malapena tollerate. In primo luogo perché la mia stanza è stata momentaneamente ceduta per un bene superiore, dal quale bisogna sempre diffidare, e in secondo luogo per i doveri sociali che si impongono con ferrea decisione.
Sembra di essere in un perenne stato di soffocamento, non solo fisico, ma anche mentale. I pensieri sbiadiscono, diventano pesanti, e si fatica a respirare, come se l’aria diventasse rarefatta. Senza contare la capacità di qualcuno di ritenersi degno di poter criticare ogni singolo aspetto.
Ho passato una vita a cercare la mia stanza, con scarsi o precari risultati. Ma mai perdere la speranza.
