Kalypso

Lo vado là, tra gli scogli, che guarda il mare. Desidera una mortale, e per questo rifugge l’immortalità.

Sogna una piccola isola di rocce, disdegnando i bei prati che offre questa terra.

Rimpiange un bimbo divenuto ormai uomo.

Pensavo di aver trovato finalmente qualcuno che avrebbe spezzato la solitudine che mi attanaglia.

Gli ho offerto tutto. Il mio corpo, i miei sentimenti, la mia dimora. Avrebbe potuto godere di limpidi ruscelli, di una fertile terra che regala i suoi frutti senza bisogno di lavorarla, di alberi frondosi che offrono carichi di frutti in qualsiasi periodi dell’anno.

Ma io la sento. Sento la voce del mare. Ogni giorno si fa più forte. Lo chiama a sé.

Il mio cuore è ora come la mia dimora: una grotta vasta, con sale e anfratti. Ma di dura e fredda pietra, vuota. Solo eco a volte viene a farmi compagnia, ripetendo senza tregua crudele i miei sospiri. Non sento ormai più il cinguettio mattutino, ma solo il silenzio di un vuoto incolmabile.

Me ne sto qua a tessere, copia divina di un’imperfetta umana che gode di un amore perfetto.

Sento anche te, messaggero. Ne sono consapevole, il giorno è arrivato. Il vento soffia più forte, il mare chiama con insistenza. Pure tu hai intrapreso un lungo viaggio.

Che gli alberi delle mie terre vengano abbattuti. Che la tela che tesso diventi vela.

Straniero. Mio amato. È ora. L’orizzonte ti inghiotterà. Sei libero, ma condanni me alla prigione della malinconia.

E a me cosa resta? Una fertile, generosa e stupenda terra che diventi dimora della mia solitudine. Un’immortalità che non conoscerà amore. Una bellezza mai elogiata.