Una statua di sale che si sta voltando, spinta dalla curiosità, dal desiderio di capire il motivo del divieto, di salutare la città che era stata la sua casa.
Una statua sterile, immobile, senza voce, con gli occhi sgranati per l’orrore, ecco che cosa si sentiva dentro il petto.
Certo, il cuore continuava a pulsare, i polmoni a dilatarsi, il sangue a irrorare ogni singola cellula del suo corpo. Camminava, correva, rideva e parlava, tutto nella normalità.
Eppure, ora, si sentiva intrappolata in una gabbia troppo stretta. Non riusciva a capire dove andare, quale direzione prendere, a chi chiedere. Non riusciva a mettere a fuoco la meta.
Per questo si era voltata indietro.
Era stato un errore, perché le vette conquistate le apparivano così insulse, le sconfitte abissali, gli errori imperdonabili. Aveva davanti a sé un deserto, dietro delle rovine, una terra bruciata dalle sue stesse scelte.
Non era stata capace di capire quale fosse il suo luogo, o quale fosse la via da seguire. Si sentiva rifiutata e spaesata. La bussola non segnava il nord, ma l’ago girava vorticosamente come se fosse impazzito.
E poi doveva fare i conti con quella paura che le stringeva lo stomaco, le pugnalava il ventre e la soffocava in una lenta agonia. Il timore di non farcela, di non aver osato abbastanza, di non aver volato.
Si sentiva minuscola, inerme, nuda. E sola. Terribilmente sola. In quel mondo pullulante di creature ciarliere non era riuscita ad amare, a farsi amare.
Ma in futuro sarebbe andata meglio. Certo. Il tempo avrebbe aperto porte, indicato la strada.
Sarebbe andata meglio.
Sarebbe andata meglio.
Meglio.