La Capitale

La Capitale del regno non aveva un nome definito, era semplicemente Capitale. Così aveva voluto l’Ordine così l’avevo conosciuta gli abitanti del Regno. Era una delle città più misteriose che fossero state fondate: non si sapeva neppure chi vi abitasse, o se vi abitasse qualcuno, né quale fosse la pianta della città o che aspetto avessero le vie. L’unica cosa certa era il fatto che esistesse, e tanto bastava.

Se qualcuno avesse avuto la possibilità di sorvolare la Capitale, avrebbe notato che si basava su una pianta irregolare, simile a quella di un fagiolo, che era attraversata da una miriade di vie e vicoli. Dall’alto aveva tutto l’aspetto di un labirinto, una sorta di scrigno che custodiva nel suo cuore il Grande Palazzo dell’Ordine. Passeggiando per la città non si poteva percepire questa complessità, ma si aveva l’impressione di trovarsi in una sorta di prigione: muri alti e senza finestre delimitavano le vie, che erano sempre in un perenne stato di semioscurità. Non c’erano lampioni, non c’erano segnalazioni, solo globi di luce sospese nell’aria che guidavano i camion notturni a destinazione.

Solo l’esercito aveva accesso a quelle strade intricate: con sicurezza si innoltravano alla ricerca di depositi e laboratori ai quali consegnare il materiale prelevato da Balste o le varie derrate alimintari o le ricchezze sconosciute che provenivano dai porti. La Capitale era, infatti, abitata da pochi eletti, i fidati collaboratori dell’Ordine. Si trattava di scienziati e di geografi, di militari dai gradi più alti e di burocrati. Tutte le decisioni prese dall’Ordine nel Grande Palazzo venivano comunicati a questa cerchia di persone che subito identificava i mzzi migliori per raggiungere lo scopo.

Ancora meno persone avevano accesso al Grande Palazzo. Se la città aveva un aspetto spettrale, il palazzo sembrava rilucere e scintillare. Era interamente fatto di Cristallo, che prendeva luce dalla vicina Helios, diventando simile a un blocco d’oro. La sola apertura era costituito da una porta minuscola rispetto all’imponenza dell’edifio, sorvegliata giorno e notte da un drappello di uomini armati appartenenti al corpo speciale della guardia dell’Ordine. Era quella la dimora del misterioso Ordine, là viveva la mente che aveva ideato tutta quella follia. Non si sapeva nemmeno se fosse un gruppo di persone o un solo individuo.

C’era persino chi giurava che quell’edificio fosse voto, fosse solo un’illusione cristallizzata.

Ghela

A prima vista, se un qualche straniero avesse potuto mettere piede nel regno, avrebbe di certo considerato questo mondo ammantato da un’aurea di tristezza e di obblighi. Eppure c’era una città che l’Ordine aveva riservato al divertimento, Ghela.

Di aspetto Gehela non era una città diversa dalle altre: era anonima nelle sue casupole grigie, nelle vie che tagliavano geometricamente il paese, nei lampioni che stanchi e opachi si accendevano la sera, gettando una luce spettrale a tutto il paesaggio. A fare la differenza erano gli abitanti. Questi rifiutavano qualsiasi vestito che fosse nero, grigio o marrone, preferendo di gran lunga vesti sgargianti, multicolori, scintillanti, che ben si intonavano con le acconciature più disparate e fantasiose. Anche con il trucco non scherzavano: uomini e donne amavano imbellettarsi e rendere ancora più simpatici i loro volti giovali.

A Ghela si rideva. Passeggiando per le strade non si poteva ignorare questo rumore cristallino che sembrava provenire dal cuore della città. A Ghela la tristezza era vietata e veniva anche punita con l’esilio a vita. Nessun abitante poteva cedere allo sconforto, o avere un rimpianto, ma tutti dovevano cooperare a mantenere alto l’umore dell’Ordine e dei suoi sudditi. Gli abitanti di Ghela erano, infatti, tra i pochi che potevano muoversi fra le varie zone del regno: si spostavano su mezzi buffi, trainati da lenti buoi addobbati con nastri colorati e carri che potevano gareggiare con il periodo della fioritura a Blaste.

Il compito di queste chiassose carovane era portare una scheggia di felicità in zone che a stento conoscevano che suono avesse una risata. Ghela era una città fantasma, con abitanti itineranti, che temevano la tristezza e che facevano finta di non conoscerla.

Urania

Il ritmo del tempo è silenzioso, ma non invisibile. Ogni essere vivente, ogni pietra, ogni città ha una clessidra, che scorre inevitabile verso la rovina. Qualsiasi elemento ha un suo tempo, e l’Ordine voleva conoscere in ogni particolare questo enigma.

Nel cuore del legno, poco lontano dalla Capitale, si trovava una città senza fondamenta, che non si occupava certo del mondo terreno, ma si protendeva verso il cielo. Era chiamata Urania, e i suoi abitanti erano versati nell’arte dello studio degli astri. Aveva un aspetto singolare questa cittadina: la pianta era perfettamente circolare, divisa in spicchi che convergevano nella costruzione centrale, un binocolo usato per gli studi più accurati e per osservare pianeti lontani.

Ogni spicchio aveva una funzione. Uno ospitava le dimore degli studiosi, alti palazzi di cristallo che sembravano voler toccare la volta celeste. Un altro era adibito alla realizzazione di carte celesti, depositate e custodite nella biblioteca di un altro spicchio ancora. C’erano poi i laboratori di osservazione, la zona di telescopi minori e quella dedita alla creazione di strumenti per la navigazione, non destinati ai pescatori. Cronometri e clessidre erano creati in uno spicchio che si trovava a fianco delle fabbriche di ingranaggi e vetri. Mense e locali trovavano casa nei pressi di piccoli orti, mentre la scuola di astronomia occupava lo spicchio adiacente alle residenze dei giovani.

A Urania tutto sembrava scorrere al contrario: la luce era una nemica, quindi gli abitanti pallidi come la luna iniziavano a uscire al crepuscolo, per poi rincasare prima dell’alba. La notte raccontava segreti e futuro, mentre il giorno accecava anche la vista più acuta.

Urania era la città del tempo e della paura della fine.

Upotalia

Nessuno aveva memoria dei grandi lavori che erano stati necessari per la realizzazione del serpente marino, Ofis, e nessuno si ricordava più quale fosse il nome originario di Upotalia, una città morta, ma che in passato aveva conosciuto la vita, così come l’aveva conosciuta l’altro ricordo, Osteia, che continuava a giacere come uno scheletro alle pendici della montagna. Se la morte di Osteia era stata causata da una qualche potente, ma sconosciuta, arma, la fine di Upotalia era evidente: era stata sommersa dal mare, probabilmente a seguito dei mutamenti di marea causati da Ofis

Non che fosse del tutto disabitata, qualche essere vivente si avventurava tra quelle rovine. Per lo più si trattava di pesci, molluschi e anche piccoli delfini che avevano occupato i vasti saloni del palazzo centrale, le stanze private delle case, le piazze che si spalancavano come occhi stupiti verso il mare. Di tanto in tanto vi si avventuravano anche degli umani, alcuni per curiosità, altri alla ricerca di perle, altri ancora richiamati dall’oro. La loro bramosia non era vana. Upotalia aveva l’aspetto, infatti, di una città opulenta, vasta e ricca. Era nata da un porto, e dal porto aveva ottenuto fama e commerci, prima che il mare diventasse un estraneo, un nemico, prima che le navi venissero bloccate da una muraglia invisibile.

Upotalia era annegata, nel silenzio e nell’indifferenza dell’Ordine, che non tollerava la presenza di una città talmente bella da competere con la stessa capitale. I palazzi di pietra bianca svettavano ora sul fondale, intaccati da alghe e muschi. Solo la punta del pinnacolo più alto del palazzo riusciva a scalfire la superficie del mare con la bassa marea, come una mano di un annegato che stia implorando aiuto al sole. Annegando, Upotalia aveva portato sul fondale tutte le sue ricchezze.

C’erano storie che venivano narrate nei villaggi di pescatori, quando le orecchie dell’Ordine non erano pronte ad ascoltare. Si diceva che le segrete del palazzo subacquee serbassero ancora ori, gemme, statue, cimeli provenienti da terre lontane. Ormai le sabbie si stavano chiudendo su queste ricchezze come il più geloso degli scrigni. Altri sostenevano, invece, che l’Ordine non si sarebbe mai lasciato sfuggire una tale possibilità di guadagno, e che avesse requisito tutte quelle bellezze prima di lasciare la lisca di Upotalia al suo triste destino.

Ciò che più infastidiva l’Ordine era il fatto che Upotalia costituisse la prova di un passato senza Ordine.

Ofis

I pescatori della costa sapevano di non potersi allontanare più di tanto dalla spiaggia, anche quando prendevano il largo. Era una legge imposta dall’Ordine con la scusa di voler evitare qualsiasi incidente in mare, di difendere, dunque, i propri cittadini. Tutti i navigatori conoscevano questo divieto, e lo rispettavano, poiché i pochi avventurieri che avevano cercato di superare il limite non erano più tornati dalle loro famiglie per raccontare che cosa avessero scoperto.

Il confine, in realtà, non era invisibile, ma era ben marcato nelle mappe del Regno: era un lungo serpente che correva parallelo alle coste, come un enorme mostro marino che riposasse appena più in là dell’orizzonte che si poteva ammirare dalla spiaggia. L’Ordine lo aveva chiamato Ofis. A vederlo sembrava un’enorme isolotto, lungo e stretto, dotato di colline scure. Quello che sulla mappa era segnato come una linea continua, nella realtà era frammezzato da aperture e sbocchi che permettessero al mare di entrare e defluire. Ogni porzione era comunque comunicanti grazie a dei tunnel subacquei progettati dagli ingegneri più abili del regno. Ofis era il centro tattico dell’armata voluta dall’Ordine.

Era proprio in quelle isole che venivano indirizzati gli sforzi psichici provenienti da Stileia, nonché le erbe più velenose e singolari coltivate a Blaste. Era qui che scienziati ed esperti si impegnavano per rendere ancora più potente e imbattibile l’Ordine, mettendo a punto difese che mai mente umana avrebbe concepito. Nel cuore delle isole avevano realizzato un alveare di stanze, celle, laboratori che venivano utilizzati per gli esperimenti o per nascondere aberrazioni ed errori che sarebbero stati dannosi per tutta la popolazione.

L’unico modo per accedere a queste strutture era dall’Isola Maggiore, che si trovava nelle fredde acque del Nord. Era l’unica che fosse visibile dalla costa, ma quelle terre erano disabitate, per cui la segretezza veniva garantita. Dall’Isola Maggiore si procedeva, poi, verso tutte le altre porzioni di Ofis grazie a tunnel e cunicoli. Niente era visibile dal mare per chi provenisse dall’entroterra, se non larghi fori, dai quali uscivano mortali fiamme pronte a ghermire quanti avessero disatteso la legge e, spinti dalla curiosità, avessero osato spingersi oltre il limite.

Sulla sponda opposta, invece, quella che si affacciava sulla monotona vastità dell’oceano, qualcosa si poteva vedere: una miriade di navi e imbarcazioni, alcune tanto enormi da poter ospitare due villaggi di pescatori, altre piccole, ma veloci come siluri. Ve ne erano anche altre, dall’aspetto esotico: se le prime, infatti, erano grigie, di metallo, dotate di armi e cannoni, queste erano fatte di legno, con vaste vele multicolori. Non erano navi dell’Ordine. Ofis era anche un porto: qui approdavano quelle misteriose barche, che provenivano da terre lontane, che non facevano parte della zona controllata dall’Ordine, cariche di ricchezze e prodotti sconosciuti alla popolazione e destinati esclusivamente alla Capitale.

Ofis era il bavaglio che impediva al Regno di parlare con il resto del mondo.

Stileia

Strano era lo spettacolo che un immaginario viaggiatore avrebbe potuto vedere a Stileia. Questo avventuriero avrebbe dovuto percorrere tutto l’entroterra del regno, passare per il deserto infuocato e per le zone d’ombra, per poi affrettarsi in vaste praterie disabitate che l’Ordine non aveva ancora adibito a una funzione. Meglio non soffermarsi in questi territori, poiché erano diventati la dimora di animali selvatici e di uomini inselvatichiti dalla paura e dalla solitudine. L’ultimo ostacolo era un vasto fiume che lambiva il confine invalicabile, in mezzo al quale si trovava un’isola. E quest’isola si chiamava Stileia.

A vederla da lontano sembrava coperta da un fitto bosco di alberi senza rami e senza foglie, ritti e distanziati con geometrica cura. Non era un prodotto del caso quello, ma di una mano e di una mente. Stileia era, infatti, l’isola delle mille colonne. Si diceva che la prima colonna fosse stata eretta da un saggio eremita, stanco di viaggiare per un mondo in continua mutazione sempre più sordo alle sue parole. Il vecchio si era quindi isolato fisicamente dalla terra e si era inerpicato sulla sua solitaria colonna, nutrito dalla carità dei vicini popoli. Ma era una leggenda di un tempo lontano, quando ancora le praterie erano costellate da villaggi, quando un uomo era libero di spostarsi e di decidere di trascorrere il resto della sua vita su una colonna.

Nessuno sapeva se fosse vera quella storia. Di certo, tra le mappe volute dall’ordine quell’isola aveva un nome e pure degli abitanti. Alla colonna iniziale, infatti, se ne aggiunsero altre. Al primo saggio, ne seguitavano nuovi. Se il precursore era un volontario, lo stesso, però, non si poteva dire dei suoi successori. I saggi arrivavano su mezzi dell’Ordine, scortati da una guardia che portava il volto nascosto da un passamontagna. I prescelti venivano poi assisi su una delle colonne che si erano liberate, o su una colonna nuova realizzata per l’occasione. Nella stessa occasione venivano portati i pochi viveri che quei vecchi richiedevano.

Il via vai di macchine era molto più sostenuto di quanto si penserebbe. A quanto pareva vivere a Stileia non era garanzia di una lunga vita. E a guardare gli anziani abitanti che se ne stavano seduti al posto dei capitelli se ne capiva il motivo: erano pallidi, sottili, come se venissero consumati da un qualche immane sforzo. Con gli occhi chiusi corrugavano la fronte, mentre gli angoli della bocca si piegavano tremando. Alla fine, uno a uno, come frutti troppo maturi crollavano a terra.

Erano i saggi pensatori, scelti tra tutti gli anziani per la loro innata forza psichica. Là, sulle colonne, convogliavano il loro sforzo per fini che solo l’Ordine conosceva. E forse neppure l’Ordine stesso era completamente cosciente di ciò che stava facendo. Sfruttando l’energia di quegli uomini, prosciugandoli dalla loro forza vitale, l’Ordine tentava di creare una protezione per il proprio regno che mai era stata realizzata. L’impossibile stava diventando possibile con quell’esperimento e con il sacrificio di vittime senza nome.

Stileia era un’arma in potenza. Una terribile arma che avrebbe annientato qualsiasi ribellione.

Roditori

Roditori. Quello che rimarrà dopo tutta questa storia saranno solamente schiere e schiere di piccoli animaletti pronti ad avventarsi su un tozzo di pane. Quel pensiero si faceva strada ogni notte nella mente di Phil, trasportato sulle minuscole zampe dei ratti che facevano le loro scorribande notturne fuori dalla sua capanna. In realtà non si limitavano a starsene per i campi, ma, come aveva scoperto la mattina precedente, riuscivano a entrare nelle case sfruttando il più piccolo pertugio per razziare qualsiasi cosa fosse commestibile.

In un primo momento, due anni prima, quello strano fenomeno di aumento della popolazione di roditori non aveva destato troppi problemi: esperti plurilaureati e per lo più sconosciuti facevano a gara per spiegare alla popolazione perplessa che oscillazioni nella fertilità di piccoli mammiferi appartenenti alla vasta gamma di roditori fosse del tutto normale e fosse stata registrata nel corso della storia. Nulla di cui preoccuparsi, quindi, niente di nuovo. Era tutto sotto controllo.

In realtà non c’era proprio niente sotto controllo: l’oscillazione non sembrava accennare a imboccare la curva di discesa, e i centri abitati si stavano riempendo di ratti. Gli esperti li chiamavano mammiferi roditori di piccola taglia, ma forse perché abitavano nei piani alti delle più alte costruzioni, per cui non avevano mai avuto modo di vedere da vicino quei piccoli mammiferi di cui si dicevano esperti. Erano topi dalle dimensioni importanti, pari alla propria famelica necessità di cibo, che li aveva spinti fuori dalle grandi discariche per riversarsi nelle città.

Phil lo sapeva. Gli abitanti lo sapevano. Gli esperti pure, ma non lo potevano dire. La causa di tutto quello scompiglio era dovuto alle discariche che avevano raggiunto ormai dimensioni superiori alle città stesse. Le torri di vetro abitate da umani erano nulla di fronte alla torre di scarti che svettavano in luoghi lontani. E se le prime erano abitate da umani amanti del consumo, le seconde erano enormi tane di intere dinastie di roditori.

Avevano ignorato il problema, e ora orde di roditori tentavano di prendere il sopravvento su chi li aveva nutriti di detriti e di scarti. Eppure, ancora non si faceva nulla, non finché ad avere problemi erano gli abitanti più poveri quelle delle catapecchie, i veri topi della città. Il problema sarebbe diventato tale solo quando avrebbe scalato le torri lucenti di opulenza e di egoismo.

Un trillo tra il cemento

Anche la luce dorata del sole diventava grigia quando si posava su quel labirinto intricato.

Alti palazzi di cemento cercavano di raggiungere il cielo, come dei titani pronti a sfidare le divinità. A guardarli venivano le vertigini. Costruzioni uguali, con finestre, poggioli, terrazze, in cui vivevano persone diverse, ma accomunate da esistenze simili.

Le strade erano fiumi solidi di scuro catrame, sulle quali correvano vetture rumorose e maleodoranti. Sempre scalpitanti, impazienti, scattanti, non avevano rispetto di nessuno. Una marea metallica che si incanalava in rivoli e si disperdeva tra i quartieri.

Fumo nero, pesante si innalzava dai comignoli, per poi ricadere sul mondo sottostante coprendolo con una patina unta. Anche i pochi alberi che crescevano stentati spuntando dal cemento ne erano ricoperti. Il verde delle foglie si andava attenuando, i rami cercavano sottili un raggio di luce.

Uomini e donne vestiti di grigio si aggiravano sicuri, senza guardare in faccia nessuno, lanciando un’occhiata veloce agli orologi e tenendo sempre in mano un telefono.

Il fiume che attraversava la città si lamentava, stretto com’era tra argini di cemento, costretto a seguire una via a lui conosciuta. Le acque una volta azzurre e verdi si erano incupite, avvelenate.

Un ponte vi si prontedeva al di sopra. Anch’esso scuro, di metallo, con freddi piloni e travi. All’improvviso, tra questo intrico minaccioso, si sentì un timido trillo d’uccello. Un passante alzò gli occhi per scorgerlo, senza successo.

Nello stesso momento, due mani poggiarono sul balcone un vaso di fiori gialli. Su di loro si posò benevolo uno spiraglio dorato di sole.