Galleggiare

C’è un relitto che se ne va a spasso per le acque degli oceani. Una nave fantasma, dicono i marinai, ma i fantasmi non esistono. È solo un legno colpito da una fortuna non benevola.

Una volta doveva essere un maestoso veliero, ma si trattava di tempi lontani e ormai perduti. Un tempo quel relitto risuonava di voci, ma ora gli unici rumori udibili erano gli scricchiolii che avrebbero portato il legno a sprofondare nel nulla.

Quel relitto si è svuotato di uomini e merci, e si è riempito di storie, che trascina con fatica sulle onde capricciose di un mare non sempre benevolo. E quando arriverà il momento, quelle storie si trasformeranno il mille bolle trasportate dalle maree in acque lontane.

Faro

La notte sta ruggendo. Non parla con voce umana, non racconta di terre inesplorate. Ha preso la cupa voce della morte. Io so come morirò. Morirò tra le braccia del mare, con i capelli sporchi di sale. L’ho visto nel grande occhio che splende nella notte.

La mia non è una nave pirata. Sono solo un mercante che ha conosciuto porti dai colori sgargianti e città multicolori. Ho visto molto, ma ciò che anelo di più è quella luce vigorosa che sfida la forza del mare. È l’occhio che urla il pericolo, è l’occhio che annuncia la casa.

Ma vedrò più la mia casa? Il mio destino è già scivolato sotto la chiglia della nave e l’albero maestro ha chinato il capo, come se fosse curioso di vedere pure lui gli abissi. Non dovrà aspettare troppo. Stiamo arrivando.

Eppure là, all’orizzonte vedo un lampo conosciuto. Forse un altro giorno ascolterò la musica funebre di un mare che chiede un dazio particolare.

Ofis

I pescatori della costa sapevano di non potersi allontanare più di tanto dalla spiaggia, anche quando prendevano il largo. Era una legge imposta dall’Ordine con la scusa di voler evitare qualsiasi incidente in mare, di difendere, dunque, i propri cittadini. Tutti i navigatori conoscevano questo divieto, e lo rispettavano, poiché i pochi avventurieri che avevano cercato di superare il limite non erano più tornati dalle loro famiglie per raccontare che cosa avessero scoperto.

Il confine, in realtà, non era invisibile, ma era ben marcato nelle mappe del Regno: era un lungo serpente che correva parallelo alle coste, come un enorme mostro marino che riposasse appena più in là dell’orizzonte che si poteva ammirare dalla spiaggia. L’Ordine lo aveva chiamato Ofis. A vederlo sembrava un’enorme isolotto, lungo e stretto, dotato di colline scure. Quello che sulla mappa era segnato come una linea continua, nella realtà era frammezzato da aperture e sbocchi che permettessero al mare di entrare e defluire. Ogni porzione era comunque comunicanti grazie a dei tunnel subacquei progettati dagli ingegneri più abili del regno. Ofis era il centro tattico dell’armata voluta dall’Ordine.

Era proprio in quelle isole che venivano indirizzati gli sforzi psichici provenienti da Stileia, nonché le erbe più velenose e singolari coltivate a Blaste. Era qui che scienziati ed esperti si impegnavano per rendere ancora più potente e imbattibile l’Ordine, mettendo a punto difese che mai mente umana avrebbe concepito. Nel cuore delle isole avevano realizzato un alveare di stanze, celle, laboratori che venivano utilizzati per gli esperimenti o per nascondere aberrazioni ed errori che sarebbero stati dannosi per tutta la popolazione.

L’unico modo per accedere a queste strutture era dall’Isola Maggiore, che si trovava nelle fredde acque del Nord. Era l’unica che fosse visibile dalla costa, ma quelle terre erano disabitate, per cui la segretezza veniva garantita. Dall’Isola Maggiore si procedeva, poi, verso tutte le altre porzioni di Ofis grazie a tunnel e cunicoli. Niente era visibile dal mare per chi provenisse dall’entroterra, se non larghi fori, dai quali uscivano mortali fiamme pronte a ghermire quanti avessero disatteso la legge e, spinti dalla curiosità, avessero osato spingersi oltre il limite.

Sulla sponda opposta, invece, quella che si affacciava sulla monotona vastità dell’oceano, qualcosa si poteva vedere: una miriade di navi e imbarcazioni, alcune tanto enormi da poter ospitare due villaggi di pescatori, altre piccole, ma veloci come siluri. Ve ne erano anche altre, dall’aspetto esotico: se le prime, infatti, erano grigie, di metallo, dotate di armi e cannoni, queste erano fatte di legno, con vaste vele multicolori. Non erano navi dell’Ordine. Ofis era anche un porto: qui approdavano quelle misteriose barche, che provenivano da terre lontane, che non facevano parte della zona controllata dall’Ordine, cariche di ricchezze e prodotti sconosciuti alla popolazione e destinati esclusivamente alla Capitale.

Ofis era il bavaglio che impediva al Regno di parlare con il resto del mondo.

L’ultima sfida

Chiuse gli occhi.

Aveva visto troppe volte quello spettacolo per poter provare ancora ammirazione. Il canto, la dolce e ritmata musica continuavano a cullarlo, assieme a quel profumo tanto conosciuto quanto a volte odiato.

Avrebbe atteso ore fermo, così, in attesa, mentre il vento giocava con i suoi capelli canuti. Davanti a lui il suo peggior nemico, il suo alleato più prezioso, la sua vita, la sua morte.

Ed ecco, si trovava tra i flutti, sospinto dal vento. Le onde si infrangevano sulle gambe, lo spingevano ad avanzare. Sentiva il richiamo. Da un po’ di tempo gli giungeva flebile, timido, ma ora si era fatto ruggito.

Era la sfida del mare, del suo signore.

E capì.

Capì che era tempo di andare, di salutare quelle amate pietre, quell’isola tanto sognata e attesa. La patria rimpianta era diventata una prigione. L’orizzonte era così misterioso, pronto a essere esplorato.

E il mare chiamava. Con i suoi enigmi, con il suo carattere volubile.

Voleva di nuovo peccare, infrangere confini e divieti. Vedere terre sconosciute, sentire dialetti, essere chiamato ospite e straniero. Quella sterile terra lo aveva trattenuto a lungo, ma ora voleva tornare a rimpiangerla.

Aprì gli occhi. Il mare potente, vasto, era di fronte a lui. Un cavallo irrequieto che lo stava sfidando. Un’ultima epica impresa.

Avanzava nell’acqua spinto da un canto più affascinante di quello delle sirene. Gli raccontava di posti lontani e sconosciuti, di uomini da conoscere, di dei da rispettare, di mostri da annientare.

Quel mare maledetto lo stava facendo ancora, lo stava strappando dalla sua famiglia.

Ma lui procedeva, vecchio, stanco, privo di quelle forze che lo avevano sostenuto da giovane. Ma procedeva. Perché anche quella volta avrebbe vinto. Il dio del mare non avrebbe mai avuto la meglio.

Le acque spalancarono le fauci e lui vi entrò.

“Padre!”, “amore!”, “sire!”, “Odisseo!”. Ho tanti nomi, e nessun nome.

Mi dispiace, ma questa volta non tornerò.