Chiuse gli occhi.
Aveva visto troppe volte quello spettacolo per poter provare ancora ammirazione. Il canto, la dolce e ritmata musica continuavano a cullarlo, assieme a quel profumo tanto conosciuto quanto a volte odiato.
Avrebbe atteso ore fermo, così, in attesa, mentre il vento giocava con i suoi capelli canuti. Davanti a lui il suo peggior nemico, il suo alleato più prezioso, la sua vita, la sua morte.
Ed ecco, si trovava tra i flutti, sospinto dal vento. Le onde si infrangevano sulle gambe, lo spingevano ad avanzare. Sentiva il richiamo. Da un po’ di tempo gli giungeva flebile, timido, ma ora si era fatto ruggito.
Era la sfida del mare, del suo signore.
E capì.
Capì che era tempo di andare, di salutare quelle amate pietre, quell’isola tanto sognata e attesa. La patria rimpianta era diventata una prigione. L’orizzonte era così misterioso, pronto a essere esplorato.
E il mare chiamava. Con i suoi enigmi, con il suo carattere volubile.
Voleva di nuovo peccare, infrangere confini e divieti. Vedere terre sconosciute, sentire dialetti, essere chiamato ospite e straniero. Quella sterile terra lo aveva trattenuto a lungo, ma ora voleva tornare a rimpiangerla.
Aprì gli occhi. Il mare potente, vasto, era di fronte a lui. Un cavallo irrequieto che lo stava sfidando. Un’ultima epica impresa.
Avanzava nell’acqua spinto da un canto più affascinante di quello delle sirene. Gli raccontava di posti lontani e sconosciuti, di uomini da conoscere, di dei da rispettare, di mostri da annientare.
Quel mare maledetto lo stava facendo ancora, lo stava strappando dalla sua famiglia.
Ma lui procedeva, vecchio, stanco, privo di quelle forze che lo avevano sostenuto da giovane. Ma procedeva. Perché anche quella volta avrebbe vinto. Il dio del mare non avrebbe mai avuto la meglio.
Le acque spalancarono le fauci e lui vi entrò.
“Padre!”, “amore!”, “sire!”, “Odisseo!”. Ho tanti nomi, e nessun nome.
Mi dispiace, ma questa volta non tornerò.