Il mondo in una sfera

Quella era di certo una stregoneria, o Tommaso non avrebbe saputo come altro definirla. Quell’uomo si faceva chiamare artista, talvolta persino scienziato, ma non realizzava affreschi o quadri, e neppure statue od oggetti. Quell’uomo costruiva dei globi che chiamava terra.

Come apprendista aveva scelto proprio lui, Tommaso, che passava dalla verità dei libri letti dal suo maestro alla verità di legno e pittura che l’artigiano tentava di spiegarli.

“La terra che abitiamo è sferica, caro Tommaso. Tonda come il pallone con cui giochi”.

“Don Michele non ci lascia giocare, dice che il gioco apre le porte al diavolo”. Tommaso sperava di redimere qullo strano individuo con le mani sempre sporche di colore.

“Avere paura del diavolo è limitativo. Studialo, conoscilo e poi combattilo. Come si può evitare una cosa che neppure si conosce?”.

Tommaso non sapeva bene come rispondere, quindi se ne rimase zitto a osservare un globo non ancora terminato.

“Hai mai visto questi mostri che rappresenti nel blu?”

L’artigiano gli sorrise: “È l’oceano. Ma no, non ho mai visto i mostri. Li chiamano delfini”.

“Come puoi disegnare qualcosa che non conosci?”.

L’uomo rise. Il ragazzo era promettente, e aveva la stoffa e la curiosità per combattere menti miopi.

A cavalcioni sulla luna

A cavalcioni sulla luna due piccoli individui osservavano curiosi quel minuscolo frammento di universo in cui batteva un debole cuore.

Al centro una massa di fuoco imprimeva a ciò che le stava attorno un moto rotatorio. Tutto era in equilibrio perfetto affinché nessun pianeta collassasse sull’altro o venisse ingoiato da fulcro o scappasse alla ricerca di un’altra stella. Certo, in passato questo equilibrio non esisteva e c’erano stati eventi catastrofici. Le cicatrice del piccolo sasso su cui si trovavano ne erano la prova. Era un equilibrio temporaneo e fragile. E per questo così affascinante.

Uno dei cavalieri lunari indicò il pianeta più vicino, attorno al quale stavano girando loro stessi. Un globo azzurro, con vaste aree colorate di verde o ocra, striato da nubi bianche che creavano dei complessi disegni.

“Guarda” disse al compagno additando alcuni singolari agglomerati di luci che trapuntavano quelle terre. Da lassù sarebbe stato possibile disegnare una mappa di costellazioni terrestri, di nebulose artificiali. Ma tutto mutava troppo velocemente perché potesse essere fissato su una qualche superficie.

Era proprio là che pulsava il piccolo cuore pieno di vita.

“Immagina”, continuò “laggiù si muovono migliaia bipedi. Da qui non sono neppure visibili, ma la loro impronta è evidente. Sono capaci do grandi azioni, nel bene e nel male. Sono curiosi, ingegnosi. Tuttavia il loro egoismo li spinge spesso a lottare fra loro, a infliggere danni alla loro stessa terra, a sterminare le altre creature. Alla saggezza, al rispetto e alla pietà a volte preferiscono l’odio e la rabbia. Alla fin fine quel posto non è tanto diverso da questo satellite su cui siamo seduti: un lato è caldo, rassicurante, luminoso, l’altro è oscuro, ostile, freddo. Se questa natura prende il sopravvento allora quegli esseri diventano mostri.”

Il cavaliere che sembrava più giovane si girò e indicò un pianeta rosso, splendente, certo, ma desolato. “Dicono che sia il passato, che una volta anche su questo ci fosse dell’acqua. Forse sarà anche il loro futuro. Da quest’altro pianeta, invece, si alzano vapori venefici. Forse sarà questa la loro speranza”.

Continuano a guardarsi attorno: globi colorati, uno anche dotato di detriti che sembravano rincorrersi in una fuga senza fine, sfere gassose, piccole, grandi, liquide.

Il giovane tornò a guardare la terra “Usciranno mai da questi loro confini?” “Magari, un giorno. Ora, però, è tempo di andare. A vedere questo piccolo pianeta mi è nata una nostalgia di casa”.

Si alzarono e scomparvero nel nulla.

Uno sguardo al cielo, un altro alla terra

Mi hanno sempre considerato strano, diverso. Eppure io sono nato così, non è stata una mia decisione.

Simbolo diabolico, piccolo mio, non ti porterà mai nulla di bene. Così dicono alcuni, indietreggiando e spuntando a terra,

È un segno dell’amore degli dei, sei destinato a grandi cose. Sento rieccheggiare ancor la voce di mia madre.

Ma a nessuno ho detto la verità.

Il mio occhio nocciola vede il mondo che mi circonda, gli alberi, le persone, i colori. Esattamente come tutti voi. Vedo l’uomo eccellente e l’essere infimo, vedo statue cui manca solo il calore per essere vive, e vedo il sangue che bagna la terra durante stupidi battibecchi. Vedo la morte e la vita, la luce e il buoi. L’orizzonte è il mio limite, il sole mi ferisce, lo sento piangere per il dolore.

E poi c’è l’altro occhio, azzurro come la volta celeste. Per molti è cieco, ma io so che punta in un’altra direzione. Non esiste orizzonte che lo trattenga, scavalca monti, oltrepassa mari, osa varcare confini che mai nessuno ha varcato. Scruta nel cuore della gente, ne individua dolori e debolezze. Vede loro, quelle creature eterne che fanno girare il mondo.

Un occhio mi rende un semplice uomo, l’altro un dio mortale. Da soli non farebbero granché.

Ma insieme, oh, insieme. Preparatevi, l’uomo che indovina i pensieri divini è destinato a far parlare di sé.

Prigione

Mi avete imprigionato, costretta in questo spazio angusto. Non ho altra scelta se non rimanere qui, chiusa in questo cerchio.

Cerco altri simili miei, ma non li trovo. Cresco, mi allungo, ma questo posto è troppo piccolo. A poco a poco costruisco sotto di me un labirinto di sottili e delicati capillari, che si incrociano fra loro, si annodano, assorbono, si nutrono.

A volte ciò che mi date non mi basta. Tuttavia non posso, non riesco a fuggire. Nessuno sente i miei aiuto.

Tendo le braccia verso il cielo, là dove non ho alcun limite. Però voi subito intervenite, mi rincomponete, mi ripulite, mi mettete di nuovo in ordine. Arrivate persino a togliermi i figli che voi considerate superflui.

Mi avvolgete per tenermi al caldo, perché la vostra egoistica stupidità ha deciso di farmi vivere in un luogo che mi è esteraneo. La vostra acqua è strana, il vostro cibo sintetico. Mi negate persino la compagnia degli insetti.

E io mi ribello. Infrango le mura in cui mi avete racchiuso, cerco ogni fessura, cresco, mi innalzo. Vi sfido in silenzio per ricordarvi che c’è una forza più potente di voi.

Finché non passano gli anni, e io non mi irrigidisco. I miei fiori si fanno più radi, le mi radici più stanche. Il sole non mi scalda, la linfa non mi sazia. È inutile che mi cambiate la prigione. Questa terra per me è ormai sterile.