Immobilità

In paese quasi tutto rimane immobile, anche gli abitanti. Non erano delle statue, né dei simulacri, ma le azioni che venivano compiute si ripetevano di giorno in giorno, come un meccanismo che tragga la forza di funzionare dalla ripetizione dei gesti. Nulla cambiava, ma tutto si perpetuava, uguale a se stesso. Se un meccanismo cadeva, veniva subito rimpiazzato.

Se qualche mutamento avveniva, questo era impercepibile all’inizio e mostrava i suoi segni solo dopo lunghi anni di logorante lavoro. Nel presente, però, i rumori, i sospiri, i colori e le forme avevano sempre lo stesso aspetto. Il cambiamento era visto con sospetto, come l’assassino che trucida l’equilibrio. Dopotutto l’equilibrio è comodo, e tutto, anche le forze inanimate, tendono all’inerzia e a mantenere un equilibrio. È una regola base, e le regole base non si discutono.

Non si discutono, ma sono noiose e si richiudono su se stesse come comode gabbie dall’aspetto ignoto. Ma anche le celle dei matti sono imbottite di comodi cuscini.

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Pulsazioni

Sotto le dita le tempie pulsano come impazzite. Sembra il cuore di un uccellino reduce da un folle volo.

E anche tu vorresti partire e spiegare le ali, vorresti che il cuore battesse per emozioni travolgenti, per il suo tiranno amore, per la sua signora adrenalina. Non per paura. No, non per quell’infida creatura capace di sconvolgere il ritmo vivifico.

Le tempie pulsano. Sembra che il sangue voglia fuggire, che aneli alla libertà. Rompere gli argini come un fiume e mostrare tutta la sua potenza.

Fuggire. Sì. Avere la possibilità di lasciare alle spalle tutti gli errori, le leggerezze che ora ti trascinano inesorabili verso il fondo, come palle di ghisa agganciate alle caviglie.

E intanto ti chiedi come fare. Come fare a spiccare il volo. Come fare a fuggi. Come uscire da questa gabbia.

Mida

Dicono che l’avidità non può portare a nulla se non a mali. Storie buie, cupe, luttuose.

Ebbene forse la mia vicenda ne è la dimostrazione.

Dovete sapere che il mio unico desiderio era la ricchezza. Io sognavo l’oro, lo bramavo, se ne sentivo l’odore. Piuttosto che accarezzare la carne morbida e tiepida di una donna preferivo toccare il freddo, lucido metallo.

I miei occhi si riempivano del barlume dorato, le mie orecchie del tintinnio metallico.

Quando chiudevo gli occhi vedevo alberi dalle foglie preziose e cascate di metallo liquido in cui gettarmi e da cui emergere, trasformandomi in una statua vivente.

Gli dei sentirono questa mia sconfinata avidità e mi diedero ascolto. Spesso guardano altrove e non ascoltano le preghiere mortali, ma in questo caso posarono gli occhi proprio su di me.

E così furono le mie mani a trasformare tutto in oro.

Ne fui felice, certo. All’inizio ero entusiasta, finalmente potevo vivere nel mio mondo d’oro.

Ma il mondo d’oro divenne ben presto una prigione. Il mio sogno si era mutato in incubo.

Toccai mio figlio, mia moglie, e persi entrambi. Ora le mura di questo palazzo sono silenziose senza le grida divertite del piccolo o i canti soavi della giovane.

Nessuno mi si avvicina per paura di subire la stessa fine. Ma molti entrano in queste stanze per prendere ciò che oro non era. Stolti. Non vedete che cosa può fare l’avidità?

E ora muoio. Di stenti perché anche il cibo diventa una pepita nelle mie mani. Di solitudine. Di rabbia.

Muoio ingoiato dai miei stessi errori.

Prigione

Mi avete imprigionato, costretta in questo spazio angusto. Non ho altra scelta se non rimanere qui, chiusa in questo cerchio.

Cerco altri simili miei, ma non li trovo. Cresco, mi allungo, ma questo posto è troppo piccolo. A poco a poco costruisco sotto di me un labirinto di sottili e delicati capillari, che si incrociano fra loro, si annodano, assorbono, si nutrono.

A volte ciò che mi date non mi basta. Tuttavia non posso, non riesco a fuggire. Nessuno sente i miei aiuto.

Tendo le braccia verso il cielo, là dove non ho alcun limite. Però voi subito intervenite, mi rincomponete, mi ripulite, mi mettete di nuovo in ordine. Arrivate persino a togliermi i figli che voi considerate superflui.

Mi avvolgete per tenermi al caldo, perché la vostra egoistica stupidità ha deciso di farmi vivere in un luogo che mi è esteraneo. La vostra acqua è strana, il vostro cibo sintetico. Mi negate persino la compagnia degli insetti.

E io mi ribello. Infrango le mura in cui mi avete racchiuso, cerco ogni fessura, cresco, mi innalzo. Vi sfido in silenzio per ricordarvi che c’è una forza più potente di voi.

Finché non passano gli anni, e io non mi irrigidisco. I miei fiori si fanno più radi, le mi radici più stanche. Il sole non mi scalda, la linfa non mi sazia. È inutile che mi cambiate la prigione. Questa terra per me è ormai sterile.