Consolazione

È da un po’ che mi sembra di essere in una giostra, anche piuttosto spaventosa. A volte si raggiungono picchi vertiginosi, altre si piomba in basso, rischiando anche di schiantarsi al suolo. Non è un bel segno, lo so bene. Non è nemmeno divertente, almeno per me. Ho come la netta sensazione che alcuni lo trovino soddisfacente, ma faccio finta di non vedere e di non curarmene.

Ci sono stati momenti in cui pensavo che tutto prima o poi si sarebbe sistemato, con un po’ di tenacia e perseveranza si risolve sempre tutto. Ma non è andata in questo modo. Sarà che ho commesso un po’ di errori e che odio i fronzoli che ora vanno tanto di moda.

Ho visto più porte chiuse che spiragli aperti. Ho pure cercato di sfondarne qualcuna. Risultato: lussazione della spalla e una certa rabbia. Sono convinta che prima o poi questa rabbia mi farà esplodere, quindi, se il fato, la fortuna o chi per esso non si decide a darsi una mossa, mi muovo io, sperando che almeno questa funzioni. Il gioco si sta dilungando, e quindi è ora di trovare la risoluzione.

O forse la risoluzione è sempre stata là davanti. E tutte le porte chiuse altro non erano che muri di un corridoio che portavano esattamente in quel punto. Ora basta solo fabbricare la chiave.

Presagi

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Gli antichi aruspici riuscivano a indovinare il futuro osservando il volo degli uccelli o leggendo il fegato di un animale sacrificato agli dei. Questa abilità era considerata una vera e propria scienza e, come tale, infallibile e affidabile. I secoli hanno mutato le città, sostituito credenze e superstizioni con nuove credenze e superstizioni, magari ammantate da ironia o celate dietro a sorrisi accondiscendenti. Eppure i presagi continuano a solcare il flusso della storia portando nella loro barca un carico colmo di attese, di paure per un futuro che sembra essere una nera voragine pronta a racchiudersi sul presente.

Eppure i presagi erano tutti lì, bastava leggerli, bastava prestare ascolto ai sussurri trasformati in grida, bastava alzare gli occhi e capire che il prossimo passo sarebbe stato quello fatale. Erano molti i segni, ma non c’erano aruspici capaci di coglierli. Eppure erano così semplici. Prima i morti, non persone conosciute, ma il cerchio si stringeva sempre più attorno a Marta. Lontani conoscenti, poi lontani parenti, poi parenti. Alle morti seguirono i commenti: “Era uno scansafatiche. Suo padre ha lavorato tanto, lo ha mantenuto. Ha perso il lavoro e non ne ha più trovato uno. Lascia perdere, non ha ottenuto nulla dalla vita”. Dopo le chiacchere toccarono i fatti, che come una valanga si staccarono dalla montagna apparentemente solida seguendo dei piccoli sassi. Perse il lavoro, perse la voglia di reagire. In realtà Marta perse la speranza e piombò nel vortice oscuro che riuscirebbe a trascinare nel fondo anche il più abile nuotatore.

Marta maledisse i presagi e la sua incapacità di capire. Le sembrava di essere analfabeta di fronte ai segni del mondo, di fronte a una vita che le sembrava sfuggire dalle mani. Vedeva strisciare via la sua esistenza spaventata, alla ricerca di un qualche anfratto in cui nascondere il proprio corpo stravolto. Marta non era un aruspice, ma avrebbe tanto voluto che qualcuno la avvisasse di ciò che la stava aspettando.

Devi avere pazienza

Dicono che nella vita si debba avere pazienza, si debba aspettare, sperare. Il futuro arriverà, tutto si sistemerà.

E se io, invece, volessi essere impaziente?

Voglio affondate le mani nella vita e attingere tutto ciò che offre.

Voglio avete tutto, e averlo subito, ora, per godermi il presente senza dover sperare in un futuro. Perché voglio vedere i miei sogni uscire dal vacuo mondo onirico.

Voglio vedete, toccare, annusare, assaporare.

Voglio vivere e voglio avere la parte del protagonista.

Devi avere pazienza, devi aspettare.

E intanto il tempo scorre inesorabile davanti ai miei occhi. Vedo un fiume che non si arresta in cui non mi è permesso di nuotare. Vedo un cielo terso che mi invita a un volo proibito. Vedo una mela succosa pendere da un ramo irraggiungibile.

Devi avere pazienza, devi sopportare. Sopportare una lavoro insoddisfacente e senza futuro. Sopportare persone estranee che vivono sotto lo stesso tetto. Sopportare una città che è diventata la goffa caricatura di se stessa.

Voglio di più. Posso offrire di più. Devo avere di più.

Pecco di superbia? E allora, lasciatemi peccare.

Paralisi

Una statua di sale che si sta voltando, spinta dalla curiosità, dal desiderio di capire il motivo del divieto, di salutare la città che era stata la sua casa.

Una statua sterile, immobile, senza voce, con gli occhi sgranati per l’orrore, ecco che cosa si sentiva dentro il petto.

Certo, il cuore continuava a pulsare, i polmoni a dilatarsi, il sangue a irrorare ogni singola cellula del suo corpo. Camminava, correva, rideva e parlava, tutto nella normalità.

Eppure, ora, si sentiva intrappolata in una gabbia troppo stretta. Non riusciva a capire dove andare, quale direzione prendere, a chi chiedere. Non riusciva a mettere a fuoco la meta.

Per questo si era voltata indietro.

Era stato un errore, perché le vette conquistate le apparivano così insulse, le sconfitte abissali, gli errori imperdonabili. Aveva davanti a sé un deserto, dietro delle rovine, una terra bruciata dalle sue stesse scelte.

Non era stata capace di capire quale fosse il suo luogo, o quale fosse la via da seguire. Si sentiva rifiutata e spaesata. La bussola non segnava il nord, ma l’ago girava vorticosamente come se fosse impazzito.

E poi doveva fare i conti con quella paura che le stringeva lo stomaco, le pugnalava il ventre e la soffocava in una lenta agonia. Il timore di non farcela, di non aver osato abbastanza, di non aver volato.

Si sentiva minuscola, inerme, nuda. E sola. Terribilmente sola. In quel mondo pullulante di creature ciarliere non era riuscita ad amare, a farsi amare.

Ma in futuro sarebbe andata meglio. Certo. Il tempo avrebbe aperto porte, indicato la strada.

Sarebbe andata meglio.

Sarebbe andata meglio.

Meglio.

Desideri, paure

Io non voglio essere così.

Non voglio diventare una meschina creatura rosa dall’invidia.

Non voglio rimanere la grigia ragazza sbiadita.

Voglio liberarmi dalle redini da mulo.

Non voglio limitarmi a saltellare, ma voglio librarmi tra le nuvole guardare giù e provare un brivido di vertigine.

Voglio soddisfazioni, vittorie, anche piccole, riconoscimenti, amore e rispetto.

Voglio camminare senza nascondermi, guardare il mio riflesso e sorridermi.

Voglio essere fiera e lottare per qualcosa.

Voglio un angolo minuscolo su cui regnare, in cui rifugiarmi, in cui sognare o piangere.